di Stefano Cattelan
In occasione della partenza del Giro d’Italia, il nostro socio Stefano Cattelan ci ha proposto un’intervista con un anziano protagonista del ciclismo “eroico” del dopoguerra – Arrigo Padovan – tratta dalla sua tesi di laurea magistrale in Storia, Un Paese a perdifiato. Cronache sportive e civili del Giro d’Italia 1946-1956, discussa all’università di Venezia nel 2021.
Questa intervista è nata nell’anno della pandemia – luglio 2020 – quando il Giro d’Italia fu sospeso per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale. Si sarebbe poi corso in ottobre, in una cornice di foglie morte anziché di alberi in piena fioritura o di fogliame già bello verde. Pochi giorni fa il Giro è ripartito e si corre come da tradizione a maggio: i ciclisti vestono divise tecniche in Lycra perfettamente aderenti, corrono su bici in carbonio con cambi elettronici e freni a disco, e percorrono strade sempre asfaltate e impeccabili.
Proprio lo svolgersi della corsa rosa mi ha dato l’idea di proporre al sito di AISO una parte dell’intervista che ho fatto ad Arrigo Padovan per la mia tesi di laurea magistrale, per sentire la voce di chi correva con bici in alluminio con le leve del cambio sul tubo obliquo della stessa, vestiva maglie in lana col colletto, portava i tubolari di scorta sulle spalle e correva spesso su strade bianche piene di insidie.
Erano gli anni del dopoguerra e della ricostruzione, tanto che il primo Giro dopo il conflitto, corso nel 1946, è passato alla storia come “Giro della rinascita”. Fu una competizione svoltasi in un Paese sconvolto dalla guerra con la partecipazione di pochi corridori fra scheletri di città, carri armati abbandonati nelle campagne, ponti di barche costruiti sopra quelli bombardati e strade in pessime condizioni, ma tantissima voglia di ripartire. Piano piano l’Italia si rialzò e un po’ contribuirono anche la tenacia e i muscoli di questi arcigni corridori. Proprio loro, i corridori, chi erano? Molto spesso questi atleti avevano storie simili: origini umili, vita segnata da una scuola finita ben presto e duro lavoro cominciato fin da ragazzini. Poi l’incontro con la bicicletta, che diventa uno strumento dove riversare la tenacia e la volontà di entrare nel mondo del professionismo, che significava trovare un lavoro con stipendi di un certo peso, nel quale l’ossessione per la vittoria era dettata anche dalla possibilità di guadagni sempre maggiori. Il ciclismo fu quindi passione ma anche mezzo di fuga dalla povertà, alla ricerca di una vita migliore, sempre all’insegna della fatica, della polvere, magari anche del fango o della neve. Memorabile fu la tappa Merano-Monte Bondone del 1956, vinta da Gaul e segnata da una bufera di neve che causò il ritiro di moltissimi corridori, ma non di Arrigo Padovan che è il ciclista ultranovantenne che nel luglio 2020 ha accettato di incontrarmi e raccontarmi la sua vita.
Nato nel 1927 a Castelbaldo (Padova), Padovan è stato ciclista professionista dal 1950 al 1963. Aveva le caratteristiche di velocista, che gli permisero di ottenere diverse importanti vittorie nel corso della sua carriera. Nato in una famiglia umile, fin da ragazzino svolse diversi lavori, faticosi e precari, fra Bolzano e Verona. Come mi ha ripetuto anche a registratore spento, entrare nel ciclismo professionistico negli anni Cinquanta non era per niente facile a causa dell’alto numero di campioni che dominavano le strade. Arrigo però disse la sua, piazzandosi ad esempio all’ottavo posto alla sua prima partecipazione al Giro d’Italia, nel 1951, dietro a Magni, Van Steenbergen, Kübler, Coppi, Astrua, Koblet, Bobet, e davanti a Rossello e nientemeno che Bartali. Quell’ottavo posto gli valse anche la conquista della Maglia Bianca riservata al miglior giovane. Padovan poi ottenne diverse vittorie di prestigio, le più importanti sono sicuramente quelle di tappa al Giro d’Italia: Pescara (1956), Genova (1959), Milano nella tappa conclusiva al Vigorelli (1960); al Tour de France: Rouen (1956), Bordeaux (1958); al Giro di Svizzera: Sion (1955); ma anche il “Gran Premio Industria e Commercio di Prato” (1951) e il Giro di Toscana (1955).
L’intervista è anche un’interessante testimonianza della vita di un uomo di estrazione popolare prima e dopo la parentesi nel ciclismo, indicativa di attitudini diffuse socialmente nell’Italia di allora: prima, la povertà e l’emigrazione per lavoro; dopo, la partecipazione al “miracolo economico” grazie anche ai guadagni dati dal ciclismo.
Ora però direi di lasciar parlare Arrigo e la moglie Dina, che ha partecipato attivamente all’intervista integrando i racconti del marito. Dina è nata nel 1932 e ha conosciuto Arrigo nel 1947 quando erano giovanissimi; si sono poi sposati nel 1956 e hanno avuto due figli. Approfitto per ringraziarli per l’ennesima volta per avermi aperto la porta di casa e condiviso i loro ricordi; incontrarli è stata un’esperienza umana meravigliosa, prima che funzionale a una ricerca. Hanno condiviso con me anche la scelta di rendere pubblica questa loro storia attraverso il sito di AISO.
STEFANO: Allora, primo luglio 2020, sono le ore 10.00, siamo a Masi, in provincia di Padova, vicino a Rovigo.
ARRIGO: Fra Rovigo e Padova, l’ultimo paese.
STEFANO: Esatto. L’ultimo?
ARRIGO: L’ultimo paese di Padova, il ponte qua divide, poi c’è Rovigo.
DINA: Il ponte divide provincia di Rovigo e provincia di Padova.
STEFANO: Ho capito. Io sono Stefano Cattelan, studente dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Intervisto il signor Antonio Padovan.
ARRIGO: Arrigo Padovan!
STEFANO: Arrigo Padovan. E la signora Dina.
DINA: Sì dai, me metta anca mi! [Metta anche me!]
STEFANO: Certo. Signor Padovan posso intervistarla?
ARRIGO: Sì!
STEFANO: E posso intervistarla e usare poi questa intervista per fare la mia tesi di laurea magistrale all’Università Ca’ Foscari?
ARRIGO: Sì, Sì, Sì.
DINA: Sì, signore!
STEFANO: Perfetto, grazie. Allora partiamo un pochettino dall’inizio, lei è nato nel ’27?
ARRIGO: Sì!
STEFANO: Ho visto un po’ qualche… è nato a?
ARRIGO: Castelbaldo
STEFANO: Qui vicino?
ARRIGO: A tre chilometri.
STEFANO: Ma lei si chiama Antonio o Arrigo?
ARRIGO: Il mio nome sarebbe Antonio, Antonio Enrico. Però quando son partito la prima tessera ho fatto con: Arrigo Padovan, ed è sempre andata così.
STEFANO: Perfetto, nato quindi nel 1927. Com’era la sua famiglia? Che origini avevate di famiglia?
ARRIGO: Niente, poveri! La mamma sa andava a sguattarare [lavare], andava a lavare, far lavori, pulizia, così. Ho avuto un’infanzia un po’ burrascosa. Avevo il padre cieco, mio padre, insomma, dopo pian pian… Ho cominciato a tredici anni a lavorare. Se vuoi che ti racconto tutto quanto, io racconto tutto.
STEFANO: Mi racconti pure, sono qua per questo!
ARRIGO: Allora a 13 anni io ho finito le scuole. Non ho studiato tanto. Sono andato a Bolzano, c’era mio fratello là, a tredici anni, perché qua ormai non c’era niente. Però sempre con la passione della bicicletta, riparare biciclette, motorini, a quell’epoca lì. Sono andato a Bolzano, però ci volevano 14 anni per entrare in fabbrica. Pensa che ho falsificato anche il libretto del lavoro. Perché ci volevano 14 anni per andare. Beh, insomma sono andato di qua e di là, ho fatto un po’ di tutto insomma, il meccanico, fino a 14 anni. A 14 anni sono andato in fabbrica, in fabbrica al “magnesio”, un centro magnesio, fabbriche grandi a Bolzano, c’era la Lancia c’era. E lì sono stato garzone, avevo 14 anni eh, però avevo sempre la passione per la meccanica. Alla sera andavo sempre a scuola, facevo le scuole serali, andavo per imparare il tornio, le cose così, per lavorare e insomma mi hanno messo in fabbrica con un operaio, gli davo una mano, sa, così a saldare, così era l’officina. Era la manutenzione della fabbrica, ha capito?
STEFANO: Sì, Sì.
ARRIGO: Dalla passione della fabbrica sono andato lì, sono stato dieci mesi. Non mi piaceva e allora sono andato in un’altra officina meccanica, più piccola, gestita da tedeschi. Alla sera andavo sempre a scuola per imparare il tornio, facevo le scuole serali. Sono andato in questa officina e sono stato lì fino ai sedici anni e mezzo. Sedici anni e mezzo, ma ho imparato guarda, mi hanno aiutato, ho imparato in una maniera, a tornire, a lavorare, tutto quanto. Pensa ti mettevano due macchine, magari fin che andava una macchina, andavi con l’altra macchina, insomma, e sono stato lì, fino alla fine della guerra. No fine della guerra! Perché io ero in casa con mio fratello, no? Però mio fratello era al militare, militare a Trento! Una domenica vado a trovarlo, era più anziano di me, andavo a trovarlo tutte le domeniche, e un giorno non c’era più nessuno. Li avevano portati in Germania.
STEFANO: Prigionieri?
DINA: Sì, profugo di guerra.
ARRIGO: In Germania, tutti quanti in Germania. Dopo che sono andati in Germania basta. Hanno cominciato a bombardare anche a Bolzano, qua e là; quindi, ho preso il treno e sono venuto a casa. Sono tornato qua. Sono tornato qua, ho trovato lavoro qui a Badia Polesine perché sapevo già fare qualcosa. Lavorare il tornio per esempio. Sono stato qui fino al ’46 che è finita la guerra, finita nel ’45, ’46 poi ho trovato altro. Però lì veniva sempre un mediatore di macchine, uno che vendeva macchine. Lavorava a Verona, no? Mi ha detto: “Ti trovo io un posto a Verona perché sei bravo qua”. Mi ha trovato un posto a Verona, un grande garage a Verona, grande, bello. Però io non, non avevo famiglia, sono andato, sono andato al giorno del San Valentino di febbraio del ’46, sono andato a Verona, mi hanno guardato, i padroni: “Puoi venire a lavorare”, sono venuto a casa, dopo lì c’era una brandina, dormivo là io!
STEFANO: Sulla brandina?
ARRIGO: Su una brandina la notte
DINA: Sottoscala.
ARRIGO: Andavo via il lunedì e tornavo il sabato. Sono stato lì, nel ‘47, nel ‘46, ‘47… poi assieme a me c’erano degli altri ragazzi lì. E c’era uno che aveva suo cugino che correva, faceva il Giro d’Italia. Il Giro d’Italia e io avevo sempre la passione per la bicicletta.
DINA: Sempre avuta!
ARRIGO: Perché io andavo così, mi ha prestato la bicicletta lui per fare una corsa qua, sa, facevano le corse qua.
DINA: Nelle sagre paesane.
ARRIGO: Sono andato con quello, ho provato. Però lavoravo 10-12 ore al giorno, siccome io lavoravo al tornio. Al giorno lavoravo le macchine, poi la sera al tornio, una roba da matti 13 ore al giorno, perché a casa c’era bisogno di soldi.
DINA: Eh Purtroppo.
ARRIGO: Insomma. Nel ’46, ’47, mi ha prestato questa bicicletta lui, questo qui, mi ha detto: “Prova a far una corsa qua”. Perché io andavo e venivo al mio paese in bicicletta, sempre in bicicletta, partivo al lunedì e tornavo al sabato. Una domenica, qua facevano le corse, ho fatto anch’io una corsa assieme. Pum! Andavo subito! Sono arrivato settimo con dei corridori che andavano, erano campioni, campioni d’Italia qua… Nel ’49, maggio del ’49, anche prima, ho detto: “Ma se io smetto di lavorare per correre?”. Un rischio grande eh! “Smetto, smetto di lavorare, corro e mangio. Mi alleno forte, potrei anche arrivare a qualcosa”. Guarda, mi sono licenziato, nel ’49, a maggio del ’49 ho deciso e mi sono licenziato. Però i miei paesani mi avevano visto che avevo la volontà di correre, no? Hanno fatto una colletta di trentamila lire, allora, mi hanno comprato una bicicletta da corsa, c’era quello mi ricordo, il macellaio, che mi passava la carne, mi passava le bistecche. Che robe da raccontare queste cose qua… Io ho cominciato con questa bicicletta.
DINA: Non c’erano soldi!
STEFANO: Si ricorda che bicicletta era?
ARRIGO: Ehm, era una bicicletta “mora”.
DINA: la Mora.
ARRIGO: “Mora”, Guido Mora, qua a Este. Normale, insomma; me l’hanno pagata però, trentamila lire! Io ho fatto due tre corse e le ho vinte. Tra i dilettanti così. Mi ha visto uno da Padova, un ragioniere di Padova mi ha visto: “Ti faccio dare io una bicicletta dall’Atala”. La Lygie, andavano la Lygie allora, la Lygie. Dopo 6-7 mesi mi ha dato la bicicletta sua. Ho corso con la Lygie subito, e messo via quell’altra. E vincevo, no? Lì ho vinto ancora due corse nel ’49! Finisco l’anno, finisce l’anno. Mi vengono a cercare, però da Carpi di Modena, erano sportivi a Carpi! C’erano le maglierie là: “Padovan lei è bravo”. Mi ricordo avevo vinto una corsa a San Carlo di Ferrara, c’erano tutti, c’erano quelli che hanno fatto il Campionato del mondo e ho vinto, ho vinto io, è stata la corsa del mio lancio, è lì che sono passato. Dopo mi ricordo, tre giorni dopo sono andato a correre a Trieste, ero sempre di corsa, sempre di corsa per guadagnare.
STEFANO: E si è messo in mostra insomma.
ARRIGO: Sì, sì in mostra subito! Sono venuti a cercarmi, sono venuti a cercarmi, mi hanno cercato subito. Non in Veneto, non mi piaceva il Veneto, era più la Romagna, e la Lombardia che erano più sportivi di qua, c’era più pubblicità. Ho cominciato lì, nel ’50 sono andato lì, mi hanno preso, so che mi davano 6 mila lire al mese, 8, 6 mila lire al mese. Vado a correre in una società grande e bella eh! Lì ho cominciato a vincere ancora, ho vinto la Coppa Italia, la Coppa Italia! Per tutte le regioni, Veneto, Liguria noi abbiamo vinto la Coppa Italia.
DINA: Ma spiegaghe come che i ga savesto che ve vinto la Coppa Italia [Ma spiega come hanno saputo che avete vinto la Coppa Italia]: Coi piccioni!
ARRIGO: Ahn, beh dopo, dopo quello. Insomma, questi di Carpi avevano una passione per i piccioni. Mi ricordo, sono andato a Treviso e abbiamo fatto la Coppa Italia, la finale a Treviso. Abbiamo vinto tutte le selezioni, fra le regioni no?
DINA: A Treviso.
ARRIGO: A Treviso ma, ogni anno, ogni giro che si faceva mandavano un piccione. A Carpi, da Treviso. Lì insomma abbiamo vinto, c’era anche il padrone dell’Atala, Rizzato.
DINA: Un piccione a Carpi. Pensa che storia.
ARRIGO: L’Atala, perché Atala e Lygie era sempre lo stesso padrone nel ’50. Dal ‘50 lì, alla fine dell’anno avevo già vinto due o tre belle corse, ero abile per fare il Giro d’Italia, per fare il professionista insomma. Ma professionista fai fatica all’inizio, no? Primo anno che vai fai il Giro d’Italia, e insomma lì mi hanno preso, con lo stipendio, insomma, medio. Intanto sono sicuro, ho qualcosa al sicuro. Mi ricordo che ho fatto la prima corsa, la Milano-Torino. Mi sono ritirato, un freddo da morire, oh, con la pioggia. Dopo ho fatto la Milano-Sanremo, l’ho finita. Siamo andati, abbiamo fatto il “Gran Premio industria e commercio” coi professionisti e l’ho vinto coi professionisti, perché eravamo in tanti sulla squadra, però prendevano quelli che andavano più forte per fare il Giro d’Italia. Mi dico “Sono già a posto, ho vinto una corsa, faccio il Giro d’Italia”. Almeno ero pronto.
DINA: Il primo Giro d’Italia!
ARRIGO: E lì ho fatto Giro d’Italia nel ’51, ’51, il primo Giro d’Italia. E ho vinto la maglia bianca.
STEFANO: Perché appunto io sto facendo questa ricerca per capire il capire il periodo dal ’46 al ’56, più o meno, e quindi lei c’è dentro in pieno. Che ricordo ha lei di questo suo primo Giro d’Italia?
ARRIGO: Ecco. Primo Giro d’Italia mi ricordo che, pensa, che eravamo in un periodo brutto perché c’erano tutti campioni: c’era Coppi, Bartali, Magni, Koblet, Kübler, tutti quelli lì, sono arrivato settimo al Giro d’Italia.
DINA: Van Steenbergen…
ARRIGO: Settimo al Giro d’Italia. Ho preso la maglia bianca, mi ricordo l’ho presa a Trieste. La maglia bianca. Poi l’ho persa in discesa, in discesa che si arrivava a Bolzano, nel Costalunga, sono andato giù per un burrone, per fortuna mi son fermato lì, e ho perso la maglia bianca. Il giorno dopo c’era da fare la Bolzano-St. Moritz. A St. Moritz si è staccato il mio avversario, dietro, e ho vinto la maglia bianca, sono arrivato a Milano in maglia bianca.
STEFANO: Una bella soddisfazione!
ARRIGO: Eh, beh, ma ti ha portato, portato un po’ su di prestigio. E lì ho cominciato col Giro d’Italia. Nel ’51. Nel ’52 ho vinto due corse, anche nel ’52, ’53, poi ho avuto un periodo anche un po’ di crisi. Fine ’54 lì, non ho fatto il Giro d’Italia nel ’54. Lì ho avuto una persona che mi ha aiutato un po’, un certo Petrucci, Loretto Petrucci, che ha vinto la Milano Sanremo nel ’51 e ‘52. Loretto Petrucci. È perché se hai qualcuno che ti dà una mano… e mi ha ripreso in squadra sempre con l’Atala qua. Mi ha aiutato insomma qua e là. Sono arrivato secondo al Giro del Lazio, Giro del Lazio ’54. Nel ’55. Nel ’55 non ho fatto il Giro d’Italia, perché un certo Sivoldi, il direttore sportivo, era di Milano, aveva più simpatia per i milanesi. Non ho fatto il Giro d’Italia. Sono andato a Padova, dal padrone, a Padova e gli ho detto: “Mi lascia fare il Giro della Svizzera?”. E allora mi ha lasciato andare al Giro della Svizzera dove ho vinto una tappa a Sion, c’erano Kubler e Koblet, tutti, io sono stato sfortunato come entrata in quel periodo del ciclismo. Ho vinto una tappa subito al Giro di Svizzera, andavo. In discesa dal Sempione ho bucato tre gomme, quattro. Una disperazione guarda, una disperazione! Perché guarda potevo arrivare sui primi tre in classifica, perché sai c’era Kubler, Koblet quelli lì, c’era Ockers, che è stato campione del mondo! Potevo arrivare e insomma vabbè. Ho vinto la tappa, sono venuto a casa poi, ho fatto i circuiti qua, poi ho vinto sempre nel ’55 il Giro della Toscana!
STEFANO: Ah! Era una bella corsa il Giro della Toscana!
ARRIGO: Eh! Il Giro della Toscana, una bella corsa sì! Ho vinto il Giro della Toscana e lì sa mi sono ripreso. Sono rientrato allora. Nel ’56 sono rientrato al Giro d’Italia, in squadra con l’Atala, insomma, sempre con l’Atala. Ho fatto la Milano-Sanremo e sono arrivato settimo. Ho fatto la Milano-Sanremo, il Gran Premio di Eibar, in Spagna, Giro di Spagna, La Vuelta, Giro d’Italia senza mai venire a casa
DINA: E il Tour de France!
ARRIGO: E il Giro di Francia!
STEFANO: Ah tutti e tre li ha fatti!?
ARRIGO: Tutti e tre, nel ’56.
DINA: Tutti li ha fatti.
ARRIGO: Mi ricordo che Binda, Alfredo Binda, era il direttore sportivo. Mi ha preso, sono andato in simpatia subito a Binda, perché le prime due-tre tappe eravamo sempre ultimi al Giro di Francia. Mi ricordo che io la terza tappa l’ho vinta. Ho vinto la tappa al Giro di Francia, una bella tappa, la maglia tricolore. Guarda. La maglia tricolore, guarda la maglia tricolore [e mi sembra sottintenda: “era un’emozione bellissima”, facendo un’espressione eloquente]. Nel ’56, ero già selezionato per andare ai Campionati del mondo. Giro d’Italia, Giro di Francia e Campionati del mondo, ma sono caduto a Trento, c’erano le riunioni [corse su pista]. Sono caduto ed ero mezzo morto, ho fatto commozione cerebrale e tutte quelle cose lì, insomma, lei era la fidanzata. Era la fidanzata allora!
STEFANO: Quando vi siete conosciuti voi?
ARRIGO: Nel ‘47.
DINA: Nel ‘47.
ARRIGO: Quando lavoravo a Verona, hai capito? Poi ero già selezionato per andare ai campionati del mondo e sono caduto. Mi sono rovinato proprio, coste rotte, commozione cerebrale.
STEFANO: Anche perché non avevate il caschetto all’epoca.
DINA: Nooo!
ARRIGO: In pista, pensa, all’ultimo giro, ci siamo toccati, io e Mauri, io sbatto verso il parapetto e lui è andato in prato. Niente è passato quell’anno così, è passato l’anno. Ho cominciato nel ’57, mi sono rimesso in gioco ancora. Ho vinto ancora qualche corsa, anche al Giro nel ’57. Ho fatto il Giro di Francia nel ’57 subito ancora, sono arrivato quattro volte secondo al Giro di Francia con Darrigade perché era una bestia. Poi l’ho battuto qua a Genova nel ’57, sì! Nel ’57 ho fatto Giro d’Italia, Giro di Francia, tre, quattro volte sono arrivato secondo, sempre secondo. Nel ’58 ho fatto il Giro d’Italia e il Giro di Francia, ancora sempre, quattro giri di Francia, tutti in fila. Ho vinto una tappa a Bordeaux, però prima avevo vinto a Rouen. E nel ‘59 sono andato ancora al Giro di Francia.
STEFANO: C’era sempre Binda?
ARRIGO: Sempre Binda, sempre Binda mi ricordo che, non so un giro di cosa ma è arrivato secondo Vito Favero.
DINA: Che è trevigiano, dalle parti vostre, Vito Favero.
STEFANO: Eh ma l’ho già sentito perché appunto leggendo libri o cose questi nomi mi vengono tutti.
ARRIGO: Pensa che Favero era primo in classifica fino all’ultima tappa.
STEFANO: Al Tour de, al Giro di Francia?
ARRIGO: Giro di Francia, ultima tappa non andava insomma è arrivato secondo, ha vinto Gaul [S: Charly Gaul] nel ’58. Nel ’59 ho fatto il giro di Francia. Nel ’59 ho fatto il Giro d’Italia, che ho vinto una tappa a Genova, nel ’59. Nel ’60 ho fatto ancora il Giro d’Italia, non ho fatto il Giro di Francia, avevo già 34 anni [ride]. Insomma, ho vinto l’ultima tappa al Giro d’Italia, quando si entrava al Vigorelli. Se lei guarda, l’ho vista la settimana scorsa che l’hanno fatta vedere. Se lei vede la tappa che ho vinto che siamo entrati, perché in pista al Vigorelli, al Vigorelli in pista, si vede quando sono rientrato, e quando li ho battuti, c’era Van Looy, primo io, secondo Van Looy, mi ricordo Van Looy. Come le dicevo prima, sono nato in un periodo che c’era un sacco di gente, proprio campioni, guardi. Però mi son difeso insomma. Dopo ho corso due anni per la Gazzola. Gli ultimi due anni che c’era Gaul, assieme con Gaul così, basta, nel ’62, ’63 ho smesso, ho smesso di correre perché bisogna pensare anche pensare al futuro! Nel ’56 mi son sposato, nel ’56, dopo la caduta, ho detto: “Qua meglio che ci sposiamo”
DINA: Poi ha fatto anche l’antiquario.
STEFANO: Ah sì?
ARRIGO: Sì antiquario, insomma, andavo per i paesi, a prendere i mobili vecchi insomma. Poi avevo tutto un frutteto. Avevo tre ettari di frutteto, di mele. E insomma si guadagnava si andava bene insomma, nati i figli, così insomma, ho guadagnato con la frutta, era buona. E andavo a mobili, a mobili, e lei sempre con me. Pensa che sono 70 anni che siamo insieme.
DINA: De cossa? Che se conosemo? [Di cosa? Che ci conosciamo?] Dal ’47!
STEFANO: Sono anche di più.
ARRIGO: Pensa, sempre avanti così, poi i figli. Insomma stanno bene, gli ho dato una mano, e dopo mi hanno dato una mano anche loro, ecco. E poi siamo arrivati qua. Qua era un deserto, qua, quando abbiamo comprato questa casa. [Mi indica la casa e il mobilificio adiacente]
STEFANO: Ah quindi dopo lei ha fatto il mobilificio? È lei che lo ha fondato?
ARRIGO: L‘ho fatto io quello lì.
DINA: Qui era tutto bombardato, bombardavano il ponte.
STEFANO: Quindi durante la guerra qui è stato bombardato?
DINA: Eh sì il ponte, buttato giù tutto qua.
ARRIGO: Qui io sono entrato il giorno del fallimento. Qua facevano i mugnai. Avevano un mulino. Poi sono falliti, abbiamo comprato nel ’63, non entrava nessuno qua, poi c‘erano due pilastri in strada, due.
DINA: No, no ma questi qua ha fatto tutto lui.
ARRIGO: Mi sono allargato ne ho messi quattro.
DINA: Fatto tutto lui, qua.
ARRIGO: Pian Piano. Siamo arrivati lì, qua insomma, siamo qua.
STEFANO: E non è più rimasto nel mondo del ciclismo?
ARRIGO: No, no, no, non sono più entrato, ero già stanco di stare… andavo bene insomma [intende che stava bene economicamente], diciamo che qua si andava bene, dopo via tutte le piante. Ma sai, ti eri sistemato un po’ coi mobili. Un po’ di mobili, e poi i figli hanno preso là, il lavoro dei mobili, ma io ho dato una mano, sempre una mano, sempre!
STEFANO: Pensi che io ho mio nonno, che da giovane era appassionato di ciclismo lui è del ’34, quindi è un po’ più giovane di lei. E mi raccontava che appunto all’epoca il ciclismo era lo sport di tutti, non c’era il calcio come adesso. E mi raccontava che anche da noi c’era che ogni sagra aveva la sua corsetta, una gara di ciclismo, e allora ieri gli ho detto: “Nonno vado ad intervistare Arrigo Padovan”, e lui mi fa: “Ah sì! Mi ricordo di un Padovan”. Gli ho fatto vedere la foto ma non si ricorda, lui si ricorda di Coppi, Bartali,
ARRIGO: Beh per forza sì sì.
DINA: Eh correva lui con Coppi e Bartali!
STEFANO: Perché Magni veniva a Eraclea a trovare un amico, e allora mio nonno ricorda che a fine carriera, e ogni tanto anche da corridore, andava a trovare questo suo amico. E lei, quindi… lei ha iniziato a correre, dopo che faceva un po’ il meccanico eccetera, si è messo in mostra con le corsette e… ecco entrare in quel mondo era difficile all’epoca?
ARRIGO: Sì! Bisognava vincere! Alla fine dell’anno se non rendevi… [mima il gesto di andare]
STEFANO: Tornavi a casa.
DINA: Ti mandavano a casa.
ARRIGO: Ma io che avevo tanta volontà per via del bisogno!
DINA: Allora non c’erano i vecchi che avevano la pensione. A quei tempi, non c’erano i vecchi che avevano la pensione. Purtroppo suo papà e sua mamma erano anziani e non avevano la pensione, e aveva il fratello.
STEFANO: E suo fratello dopo la guerra è tornato?
DINA: Sì! Tutti.
ARRIGO: Sì, sì è tornato dalla Germania. Pensa che il primo Giro d’Italia che ho fatto io, mio padre era cieco e non aveva la pensione. Non aveva pensione. Mi ricordo sono andato in riviera, allora si andava in riviera. [In ritiro] Mi ricordo che si parlava così con un altro corridore, mi ha detto: “Guarda quel signore lì, è dentro un mondo grande”. Era in mezzo alla curia. Sono andato, gli ho spiegato la situazione di mio padre, dopo sei mesi è arrivata la pensione.
[…]
DINA: Guardi, allora Coppi, Bartali, Magni erano divi, come adesso i divi del cinema, non c’era altro qua.
ARRIGO: Restano tanti ricordi, tanti ricordi, insomma. Ho conosciuto anche Faustino (figlio di Fausto Coppi) qua, siamo stati assieme con Faustino, nato nel ‘53 esatto, ‘54, nato in Argentina.
STEFANO: E lei ha il ricordo di quando c‘è stato lo scandalo della “dama bianca”1?
ARRIGO: Sì! Nel ‘53 è stato.
DINA: Eh mamma mia!
STEFANO: Non è stato magari un po’ troppo, la gente era un po’ troppo ingenerosa nei suoi confronti?
DINA: Adesso non sarebbe.
ARRIGO: Allora era, pensa che lei era la moglie del dottore, del professore che curava Coppi. Tre figli mi ricordo, li ha abbandonati ed è andata con Coppi. Però ha partorito suo figlio, il figlio, in Argentina.
DINA: Siamo andati a cena con suo figlio.
STEFANO: Ah lo avete conosciuto!
ARRIGO: Eh Madonna, siamo stati assieme; pensa, in Argentina sono andati a fare il figlio perché sennò era galera qua, c’era la galera anche per Coppi e Bartali.
STEFANO: Bella la maglia tricolore lì, quella che usavate in nazionale. [Vedendo una foto di Padovan in maglia tricolore].
ARRIGO: Ah guarda, la maglia tricolore io la sentivo proprio
STEFANO: Nel cuore.
ARRIGO: La sentivo di più!
STEFANO: Eravate orgogliosi di portare l’Italia nel mondo.
ARRIGO: La sentivo proprio.
STEFANO: E c’erano emigranti che vi guardavano? Tipo in Francia, quando correva in Francia, ce n’era gente italiana magari emigrata che vi guardava?
ARRIGO: Diventavano matti!
DINA: Quando ha vinto la tappa in Francia, allora c’era un mio cugino, che allora andavano a lavorare nei campi di barbabietole… Lui ha preso un mazzo di fiori [venivano consegnati ai vincitori di tappa], lo ha lanciato e lo ha preso un mio cugino!
ARRIGO: [Mostrando la foto del cambio di tubolare] Sì, questo è quello che le dicevo al Giro della Svizzera. Koblet, Ockers, quelli lì, che hanno vinto al Giro della Svizzera. Il giorno dopo.
STEFANO: Le forature.
ARRIGO: Quattro, ho dovuto cambiare, la macchina non c’era perché sul Sempione, col caldo è scoppiato il coso. Sono rimasto senza macchina, ho dovuto cambiarmi le gomme ma io ho perso 7,8 minuti… La prima gomma l’ho cambiata perché avevo il gonfleur [un antenato della bomboletta di Co2 odierna per il gonfiaggio rapido della camera d’aria]. Zac! Potevo anche rientrare, però la terza, quarta, basta.
STEFANO: Io la ringrazio di cuore. È una meraviglia. Sa cosa facciamo, visto che sono già le 11 e un quarto, io vi saluto vi ringrazio. Facciamo così, le chiedo l’ultima cosa. Chiedo: adesso siamo alla fine sono circa le 11 e 10: signori Padovan, posso usare questa intervista per la stesura della mia tesi?
ARRIGO: Sì, sì, sì signore!
DINA: Sì signore!
STEFANO: Perfetto, grazie mille, l’intervista si conclude qua.
DINA: Con molto piacere!
STEFANO: Grazie e grazie a voi.
1 Lo “scandalo della dama bianca” fu la relazione extraconiugale tra Fausto Coppi e Giulia Occhini. Lui era il ciclista più famoso al mondo ed era sposato con Bruna Ciampolini dalla quale aveva avuto una figlia, Marina; mentre Giulia Occhini era sposata con Enrico Locatelli, medico che aveva seguito Coppi, dal quale aveva avuto tre figli. La loro relazione, nell’Italia dei primi anni Cinquanta, destò enorme scandalo tanto che lei dovette scontare anche alcuni giorni di prigione con l’accusa di adulterio, mentre al “campionissimo” fu ritirato il passaporto; entrambi subirono un processo che ebbe un ampio risalto. I due si sposarono in segreto in Messico ed ebbero un figlio, Faustino, che come diceva Padovan nacque in Argentina, così da poter avere il cognome Coppi. In Italia Faustino poté portare legittimamente il cognome del padre solo nel 1978, al termine di una lunga vicenda giudiziaria. Giulia Occhini fu soprannominata la “dama bianca” quando al Giro d’Italia del 1954 il giornalista francese Pierre Chany scrisse di una signora in soprabito bianco che stava in compagnia di Coppi. Un sintetico ma esaustivo approfondimento dedicato a questa vicenda si trova nel libro di John Foot L’Italia e le sue storie (Laterza 2018), al paragrafo “Il ciclista e la dama bianca”.