di Lidia Piccioni.
Ho incontrato e conosciuto Nuto Revelli due volte.
La prima volta tra anni Settanta e Ottanta, di persona, all’interno delle numerose iniziative del movimento delle “fonti orali” che in quegli anni stava crescendo e strutturandosi anche in Italia. Un ambito degli studi che qui nasce, come è noto, dall’incontro tra diverse discipline, in stretto nesso con una motivazione politico-sociale di ricerca e intervento in rapporto alla cultura delle classi popolari. Al di fuori dai riferimenti canonici dell’accademia e anzi, di fatto, a lungo osteggiato criticamente da questa.
Una peculiarità che sicuramente ha reso la vita difficile a molti percorsi professionali ma, al tempo stesso, ha portato sin dall’inizio a porre l’accento, parallelamente alla ricerca, sulla riflessione metodologica: l’unica risposta possibile alle accuse di “inattendibilità” rivolte a queste fonti essendo lo sviluppo di strumenti di analisi sempre più raffinati per valorizzarne potenzialità e specificità. Per fondarne saldamente l’uso (così contribuendo di riflesso, ne sono convinta, all’acquisizione di nuove sensibilità e sfumature di lettura, da parte della storiografia contemporaneistica, anche per l’analisi delle fonti scritte più accreditate).
In tal senso per noi più giovani, questo signore dal viso singolarmente asimmetrico e i modi riservati, già fecondo di scrittura dall’immediato dopoguerra ma tra il 1977 e il 1985 autore di due tra le più significative raccolte di fonti orali pubblicate in quegli anni,[1] rappresentava un vero e proprio “monumento” a cui rivolgerci e attingere per imparare. Ma lui, a chi gli chiedeva il segreto dei suoi lavori, a quale metodologia in particolare facesse riferimento, rispondeva: “io non sono né uno storico, né un sociologo, né un antropologo”, sono solo un “geometra”, un “autodidatta”, “sono quello che sono e basta”.[2]
E in effetti io credo che il modo di lavorare con le fonti orali di Revelli, i tanti saggi che ci ha lasciato in particolare sulla vita e i pensieri del “popolo” delle sue montagne,[3] costituiscano insieme un esempio straordinario, tuttora fonte di ispirazione, e un unicum, affascinante perché in qualche modo irripetibile. Straordinaria la sua capacità di tessere un racconto, di tirarci dentro un mondo e rendercene assieme a lui partecipe “semplicemente” attraverso il montaggio di testimonianze successive; di ascoltare con pazienza, a lungo, i suoi testimoni e poi dar loro “voce” pienamente, pur intervenendo ampiamente sia nella selezione delle testimonianze stesse che nel ritaglio al loro interno, addirittura “traducendone” la lingua. A fare da “mediatore” una motivazione fortissima, ben evocata nelle sue introduzioni, che a sua volta coinvolge il lettore in un piccolo miracolo di partecipazione profonda. Fissando quelle voci per sempre. Là dove, negli stessi anni, vedevano la luce tante iniziative apparentemente simili di raccolta di testimonianze, formalmente più “corrette” nella riproposizione dei testi, ma che piuttosto risultano, alla distanza, inerti e sostanzialmente inutilizzabili.
La seconda volta l’ho incontrato molti anni dopo, attraverso le sue carte, mentre lavoravo alla compilazione della voce a lui dedicata per il Dizionario biografico degli italiani; attraverso la consultazione del suo archivio privato, quindi, grazie alla disponibilità ed accoglienza della Fondazione Revelli.[4]
Una ricca e variegata documentazione conservata nella sua casa di famiglia, a Cuneo, nelle stesse stanze in cui ha vissuto, scritto, riflettuto e discusso con tanti amici e compagni di strada, che – accanto ai nastri originali delle testimonianze da lui raccolte sul campo, pure qui conservati – offre la possibilità di ripercorrere i molti ambiti della sua personalità, dalla costruzione del lavoro di ricerca e poi dei volumi che ne hanno avuto origine, fino ai più diversi aspetti della quotidianità e del privato.[5] Un corpus coeso, tramite cui sembra ancora essere lì, presente, per parlarci di sé e rispondere alle domande sul suo costante impegno, offrendoci il filo conduttore della sua auto rappresentazione.
Da qui ho tratto, dunque, molte preziose indicazioni che mi hanno consentito, assieme ai colloqui con chi l’ha ben conosciuto, collaborando con lui attraverso gli anni al lavoro politico e culturale sul territorio,[6] di mettere a fuoco i successivi passaggi della vita, dar loro colore. Ma soprattutto due aspetti mi hanno colpito profondamente.
Da un lato, dietro l’evidente genialità individuale, l’estrema sistematicità del suo procedere, la meticolosità con cui ogni cosa è annotata e chiosata, serbandone di fatto memoria. Un modo di fare che rende in particolare vivissima la corrispondenza, là dove, accanto a quella ricevuta, di ogni lettera spedita si conserva il testo e le successive stesure consentendo così di riannodarne i fili.
D’altro canto, e in primo luogo, il grande rispetto per “l’uomo” che è dietro a tutto questo e, quindi, l’indignazione profonda per la disattenzione verso i più deboli. Si tratta evidentemente del messaggio che esce con chiarezza da ogni suo scritto edito, la volontà di “dare voce a chi non ce l’ha”, di raccogliere “le voci dal basso”, per dare la parola ai “sordomuti della storia”, trovandosi costantemente ribadita nelle riflessioni autobiografiche a motivazione del suo lavoro;[7] ma nella documentazione dell’archivio questa determinazione si tocca con mano nel concreto dell’impegno quotidiano, proprio nella puntigliosità indignata con cui lettera dopo lettera, ricorso amministrativo dopo ricorso, chiede giustizia per i suoi testimoni e si offre come tramite per chi non ha la forza e la capacità per chiedere giustizia in prima persona. Nello sbalordimento iniziale, che si fa accorata e minuta perorazione, davanti all’indifferenza dello Stato per i reduci della ritirata di Russia per sempre minati nel fisico e nello spirito, per le madri e le vedove dei caduti a cui mille cavilli burocratici negano risarcimenti e pensioni. E poi nella rabbia per l’abbandono del mondo contadino della montagna e dell’alta collina, di intere comunità che il “miracolo” economico degli anni Cinquanta e Sessanta ha privato delle forze più giovani, verso cui con veemenza e, di nuovo, puntigliosa sistematicità cerca di richiamare lo sguardo delle istituzioni repubblicane. Dove all’attenzione e al senso di responsabilità per la vicenda di questi uomini e donne accantonati dalla storia si accompagna l’attenzione per i paesaggi, i luoghi e gli spazi che ne hanno modellato la vita. Fino agli appelli ambientali degli ultimi anni.
Più in generale, a scorrere davanti agli occhi attraverso le carte, evidenziandosi, è la continuità dell’impegno civile di Revelli che procede intensamente su più fronti, parallelo al lavoro solitario di raccolta delle testimonianze, e a sua volta ne documenta la molla profonda. Dalla partecipazione alla vita politica e culturale degli ambienti laico-democratici di Cuneo per cui diviene, fin dalla Liberazione, figura di riferimento, all’intensa opera di divulgazione portata avanti sulle tematiche che gli erano proprie (dalla guerra e Resistenza, alla messa in crisi della civiltà contadina e degli equilibri territoriali all’interno del processo di “modernizzazione” del Paese) sia in iniziative pubbliche che presso le scuole di ogni grado; fino alla scoperta del Mezzogiorno, a età avanzata, prima in un viaggio tra le popolazioni colpite dal terremoto dell’Irpinia, nel gennaio 1981 – “ambasciatore”, ormai celebre, della regione Piemonte – poi per un semestre di insegnamento presso l’Università della Calabria, l’anno successivo, in cui lo sguardo inizialmente curioso e un po’ distaccato del “nordico” si impasta progressivamente di affettuoso coinvolgimento.
A emergere per me con forza dalla consultazione del suo archivio, dunque, è stato più che mai l’intreccio indissolubile tra il paziente lavoro di raccolta delle fonti orali – così unico nella sua “lentezza”, apparentemente non collocabile in un metodo preciso (“sono quello che sono e basta”), eppure così rigoroso, sistematico –, e l’attenzione all’ascolto, la forte tensione umana sottesa al suo incontro con i testimoni; ma soprattutto la valenza morale a motivazione imprescindibile di tutto questo, il ruolo che Nuto Revelli ha sentito la responsabilità di svolgere nella società nel suo complesso.
Su di lui è stato negli anni detto e scritto moltissimo e, non da ultimo, il 2019 ha visto una vasta gamma di iniziative non ancora concluse, a celebrazione del centenario della sua nascita. Tra queste il convegno “Nuto Revelli protagonista e testimone dell’Italia contemporanea”, dell’ottobre scorso, in cui rispetto alla questione del metodo, da cui siamo partiti, si è teso ad accantonare l’individuazione di inutili caselle disciplinari, valorizzando piuttosto di Revelli la funzione di “grande narratore” del suo tempo.[8]
Difficile aggiungere qualcosa, quindi, meglio lasciare la parola a quanti, tramite la Fondazione, continuano a renderne vivo il percorso,[9] ma quello che mi sembra valga la pena ribadire qui, nel concludere, è che se è proprio questo intreccio, costante, direi “naturale”, tra ricerca e impegno nel presente a costituire un lascito importante di riflessione per gli studi sulle fonti orali (tanto più in un momento in cui sotto particolare osservazione è “l’uso pubblico della storia”), quello che ci racconta il lavoro di Nuto Revelli è anche come sia importante che ognuno, nell’usarle, trovi una sua strada, cerchi in sé un’eco capace di metterne in valore e trasmetterne le potenzialità. Di farle ancora “parlare”.
Lettera di Nuto Revelli ad Anna Delfino, con la quale si è sposato nel 1945 (particolare).
Tratta dall’epistolario presentato da Alessandra Demichelis (vedi nota 5).
[1] Il mondo dei vinti. Testimonianze di vita contadina, 2 voll., Einaudi, Torino 1977; L’anello forte. La donna: storie di vita contadina, Einaudi, Torino 1985 (dopo due prime pubblicazioni sulla sua esperienza di guerra e lotta partigiana – Mai tardi, del 1946, e La guerra dei poveri del 1962 – con La strada del Davai, del 1966, Nuto Revelli aveva raccolto per la prima volta, stenografandole, le testimonianze di reduci della prigionia di Russia).
[2] N. Revelli, Una esperienza di ricerca nel mondo contadino, in Storia orale e storie di vita, a cura di L. Lanzardo, Franco Angeli, Milano 1989, pp. 43-51. Per ampi approfondimenti biografici e indicazioni bibliografiche sul complesso della sua produzione, si veda anche: M. Calandri, M. Cordero (a cura di), Nuto Revelli percorsi di memoria, in “Il presente e la storia”, Rivista dell’Istituto storico della Resistenza in Cuneo e provincia, 1999, n. 55; M. Calandri, Per Nuto, ivi, 2003, n. 64, pp. 307-314; G. Cinelli, Nuto Revelli. La scrittura e l’impegno civile, dalla testimonianza della Seconda Guerra Mondiale alla critica dell’Italia repubblicana, Aragno, Torino 2011.
[3] Tra le letture postume: Fondazione Nuto Revelli, Il popolo che manca, serie documentaria. Il lavoro/la terra/le migrazioni, tre film di A. Fenoglio e D. Mometti (con testi degli stessi e M. Revelli), 2011; N. Revelli, Il popolo che manca, a cura di A. Tarpino, Einaudi, Torino 2013.
[4] L. Piccioni, voce REVELLI, Benvenuto (Nuto), in “Dizionario biografico degli italiani”, Istituto della Enciclopedia italiana, 2016, pp. 46-48, anche online: http://www.treccani.it/enciclopedia/benvenuto-revelli_%28Dizionario-Biografico%29/.
[5] Ne costituisce un esempio del tutto particolare la selezione di epistolario tra lui e la moglie, riportata nell’ambito del convegno, a cura della Fondazione Revelli: Nuto Revelli protagonista e testimone dell’Italia contemporanea, Cuneo 5-6 ottobre 2019 (intervento di Alessandra Demichelis: “…e allora tutto il mondo sarà tuo e mio”. Anna Delfino e Nuto Revelli: un carteggio privato: si veda la registrazione sul canale YouTube della Fondazione Nuto Revelli: https://www.youtube.com/watch?v=xZMXtFQDGzk).
[6] In particolare Michele Calandri, con cui fonda nel 1964 l’Istituto storico della Resistenza di Cuneo, condividendone poi l’attività, che mi ha rilasciato una lunga intervista, e Luigi Schiffer, che ha guidato i miei passi tra la sede della Fondazione e il mitico bar Haiti, icona dell’attenzione quotidiana di Revelli per la sua città. Devo inoltre a Marco Revelli il mio primo incontro con il progetto e le baite di Paraloup, magica realtà sospesa tra l’incalzare, a perdita d’occhio, delle cime montane intorno Cuneo.
[7] Oltre alle introduzioni ai suoi diversi volumi, N. Revelli, I conti con il nemico. Scritti di Nuto e su Nuto Revelli, a cura di L. Bonanate, Aragno, Torino 2011.
[8] In particolare, su questo, l’intervento di Giovanni De Luna al convegno stesso: I libri di Nuto Revelli e il canone letterario dell’azionismo; si veda la registrazione sul canale YouTube della Fondazione Nuto Revelli: https://www.youtube.com/watch?v=6-hwC7QaXnk&list=PLJC5cpJm28WsJqb0eInT7R4gnjmRJN23y&index=22&t=0s)
[9] Tra gli altri la direttrice della Fondazione, Beatrice Verri, troppo giovane per aver conosciuto direttamente Revelli ma infaticabile comunicatrice della sua storia e del suo lavoro che, in più di una occasione, è venuta a raccontare a Roma ai nostri studenti della Facoltà di Lettere della Sapienza.