Il ventennale dai fatti di Genova è stato preceduto da una serie di iniziative e di ricerche che hanno finalmente posto una lente storiografica su questa importante vicenda della storia dell’Italia repubblicana e dell’Italia nel mondo1. Qui ci soffermeremo sulla ricerca di Gabriele Proglio (I fatti di Genova. Una storia orale del G8, Roma, Donzelli 2021) tentando dapprima di illustrare al lettore la struttura, gli intenti e la metodologia utilizzata dallo storico piemontese in questa ricerca per poi soffermarci brevemente su alcuni aspetti, anche non direttamente riconducibili agli obiettivi dell’autore, che emergono dalle testimonianze riportate all’interno del lavoro.
Questo libro riesce attraverso un corpus di oltre 50 interviste e una metodologia altamente strutturata ad individuare le coordinate della memoria dei militanti che parteciparono al G8 di Genova. Senza cadere in semplificazioni, Proglio è riuscito, infatti, a rappresentare le voci della “moltitudine” di Genova, per usare il vocabolario dei movimenti di quel periodo, ossia «l’incarnazione postmoderna del “popolo”, cioè gli individui che vivono nel mercato globale, ne subiscono le ineguaglianze, sono espropriati del loro lavoro, anzi della loro vita»2. Ragionando al di fuori di quel linguaggio politico, si tratta in realtà di quella pluralità di bisogni, di rivendicazioni, di sentimenti, di necessità, ambizioni ed abiti mentali che hanno contraddistinto le culture politiche globalizzate dei movimenti di sinistra dei primi anni 2000. L’obiettivo di Proglio è quello di astrarre l’evento “Genova” dalla sua narrazione mediatica per poi ricollocarlo nel suo terreno di coltura, analizzando «la Genova vissuta da chi ha partecipato alle mobilitazioni» attraverso il recupero dei «ricordi di soggettività differenti rispetto alle motivazioni che portarono a Genova, alle giornate di mobilitazione contro la globalizzazione, alla violenza subita, […] ai cambiamenti che intervengono dopo la conclusione del vertice, intrecciando personale e politico, pubblico e privato» (p. 4). Questo intento si cristallizza nella stessa struttura del volume la quale, dopo un capitolo iniziale di ricostruzione contestuale degli eventi, si compone di un capitolo dedicato all’analisi delle motivazioni ideali, delle speranze e delle preoccupazioni, insomma della rappresentazione dello spirito con cui il militante ricorda la sua esperienza di partenza per Genova. Seguono tre capitoli dedicati al ricordo delle manifestazioni, degli scontri, dei traumi e delle violenze vissute ed infine un ultimo capitolo dedicato ai ritorni dopo la traumatica fine di quelle giornate. Proglio ha scelto di impostare la ricerca su un campionario di interviste redatto su un criterio socio-contestuale, definendo il suo caso studio attorno alle testimonianze dei militanti di area piemontese; e ciò non tanto per una ragione empirica e soggettiva – l’autore è torinese e gran parte della ricerca è stata svolta durante la pandemia – quanto per un’esigenza analitica: raggruppare e analizzare soggettività militanti (e non3) provenienti da un medesimo contesto sociale di partenza, cui sarebbero tornati dopo l’esperienza genovese. Il risultato è un volume polifonico, solido dal punto di vista metodologico, accurato e coerente dal punto di vista interpretativo ma un po’ stonato, data l’ambizione a «raggiungere un pubblico non specialistico con la necessità di trattare questioni teoriche» (p. 13) dal punto di vista stilistico. C’è infatti un certo spaesamento nel passaggio dalla narrazione – gradevole soprattutto per la scelta di utilizzare un presente storico che coinvolge il lettore nei fatti e nelle interviste4 – alle considerazioni teoriche laddove il linguaggio si contrae in uno specialismo stonante che difficilmente può essere compreso da un pubblico non avvezzo alle metodologie e all’utilizzo delle fonti orali5. Tralasciando però i fattori estetici, si tratta di un libro di gran valore per una ricchezza di materiali tale da rappresentare un serbatoio importante – Proglio lo chiama «contro-archivio» in contrapposizione agli archivi ufficiali (p. 9) – per future ricerche, tenendo in considerazione il fatto che gli eventi di Genova 2001 rappresentano un argomento ancora vergine per la storiografia italiana ed internazionale. Da questo volume si evince poi quanto essi possano risultare incomprensibili se non inseriti nella cultura che li ha generati, in quel mondo fluido, post-moderno, globalizzato ed iper-connesso attraverso mezzi comunicativi sempre più potenti ed efficaci in cui tanto i militanti quanto i decisori politici operavano. L’ampiezza del movimento globale, la sua trans-nazionalità, che confluì a Genova nell’estate del 2001 si nota in particolar modo nel primo capitolo. A partire dalle singole interviste, Proglio individua i contesti politici più ampi e collettivi, caratterizzati da comunanze di pratiche e idee, in cui gli intervistati militavano e li inserisce poi in uno spazio intersoggettivo, cristallizzato nel movimento, che si genera all’insegna della comune lotta contro la globalizzazione. Una lotta che trova un altro momento unificante nella sfida alle rappresentazioni univoche e stigmatizzanti dei media tradizionali. L’elemento intersoggettivo assume, pertanto, un valore rivelatorio perché, scrive l’autore, «l’intersoggettività è il campo in cui le singole soggettività definiscono le proprie scelte rispetto a come partecipare agli appuntamenti del controvertice e quali valutazioni dare rispetto allo scenario di guerra costruito da gran parte della stampa» tenendo però presente che «è necessario intendere l’intersoggettività in termini non statici, ma dinamici e in continua trasformazione» (p. 115). Questa dinamicità dell’intersoggettività è in realtà il leit motiv di tutto il volume. È in questo spazio della memoria che lo storico coglie via via tutti quegli elementi simbolici che contribuiscono a formare un autoritratto di gruppo, con riferimento al celebre saggio della storica Luisa Passerini6, laddove il “gruppo” non è formato da un numero distinto di persone ma da una moltitudine, nella quale confluiscono diverse culture politiche unite da un obiettivo di lotta e da una esperienza traumatica condivisa. L’autore conclude che Genova fu un evento periodizzante, «una soglia che segna in modo netto il passaggio al periodo successivo» (p. 4), la cui memoria ha però impattato anche nella composizione dei movimenti successivi: «per moltissime soggettività l’opposizione al tav – scrive ad esempio Proglio – non è solamente l’occasione per un nuovo ciclo di lotte, ma anche la prosecuzione di molteplici riflessioni relative alla tre giorni contro la globalizzazione. Se l’immaginario di Genova è risignificato, la formula d’aggregazione è inversa: si passa dal grande evento di contestazione a una rete di presidi e un’organizzazione di comitati stabili sul territorio» (p. 330).
Molti altri sarebbero gli spunti che questo libro propone e su cui discutere – a partire dalle riflessioni sul ruolo dei media e sulla memoria ipostatica – ma vale la pena soffermarsi su due aspetti, direttamente collegati, che colpiscono alla lettura. Il primo riguarda il nodo della violenza.
1) Incontrare la violenza
Così Simona, giornalista del Manifesto, racconta ai microfoni dell’autore a proposito dell’omicidio di Carlo Giuliani:
non puoi nemmeno concepire una cosa simile nel 2000. Noi, purtroppo, veniamo dagli anni Settanta. Poi, insomma, quel ventennio non era successo niente. Insomma, si, un po’ la Pantera ma niente di veramente violento come fu per me che c’avevo sedici anni quando hanno ammazzato Giorgiana Masi di fianco a me. […] Noi eravamo abituati ai lacrimogeni. Negli anni Settanta tutte le manifestazioni finivano con i lacrimogeni. Noi, in più, abbiamo avuto il periodo degli autonomi in cui si sparava. Poi Cossiga ammazzava i manifestanti, quindi non erano cose tenere. Ma lì [a Genova ndr] c’erano generazioni che questa cosa non l’avevano vissuta (p.189).
Il racconto di Simona parla tanto degli effetti della distanza dalla esperienza della morte e della violenza quanto dei modi riviverla, della sua esperienza generazionale. A questo proposito, l’autore sottolinea come il corpo «sembra essere il luogo simbolico – che connette soggetto, soggettività e collettività – in cui si cerca di rappresentare le emozioni provate e i fatti vissuti» (p. 201) e sottolinea come «l’omicidio di Carlo Giuliani segue una scia di sangue lasciata nelle piazze dalle forze di polizia – Simona ricorda Giorgiana Masi, ad esempio. Per molte persone in piazza, e forse per una o più generazioni, quella memoria è viva solo nel ricordo, non nell’esperienza vissuta» (ibidem). Si tratta di un punto importante. Future ricerche dovrebbero indagare sui miti politici con cui crebbero i giovani militanti di Genova, su quale rapporto quest’ultimi ebbero con la storia degli anni Settanta, sul rapporto che essi ebbero coi militanti più anziani, con coloro i quali vissero, pensarono e raccontarono la violenza. Lo scarto tra «violenza nel ricordo e violenza nell’esperienza vissuta» potrebbe essere una chiave di lettura particolare per capire Genova. Per comprendere, insomma, come quei fatti siano diventati un «evento» servirebbe partire dai miti per giungere all’esperienza, all’incontro intimo, corporale e viscerale (dai racconti di Proglio il «sangue» rappresenta l’elemento simbolico preponderante dei racconti) con la violenza e con la morte. L’esperienza vissuta impone a Simona uno sguardo differente, quasi evocativo. Ritiene che un militante assassinato «sia inconcepibile negli anni 2000», dimostrando tra l’altro di ritenere il fatto concepibile negli anni Settanta (attribuendo quindi alla morte e alla violenza di quegli anni un significato assai diverso); allo stesso tempo dimostra consapevolezza delle violenze di piazza, sottolineando come essa non potesse far parte del bagaglio delle generazioni che non avevano vissuto quegli anni e capendone il trauma. Simona aveva vissuto il corpo inerte di Giorgiana Masi, collegandolo a quello inerte di Carlo Giuliani in una sorta di transfer temporale dagli anni Settanta agli anni Duemila. I giovani militanti non avrebbero potuto. Un evento – ha insegnato l’antropologo Marshal Sahlins – diventa tale perché interpretato7. Dal mito alla sua distruzione, c’è un percorso, quindi, che giunge fino all’elaborazione dei fatti vissuti e alla costruzione non solo dell’«evento» ma anche di una coscienza generazionale. Quest’ultimo è il secondo nodo che vale la pena affrontare.
2) Costruire la coscienza generazionale
Se dal volume di Proglio si evince la presenza di uno spazio intergenerazionale, meno chiara appare la questione generazionale. Nel suo volume, lo storico si occupa di questo aspetto rifacendosi ai saggi di Alessandro Portelli8 e di Jurgen Reulecke9 che tentano, con l’obiettivo di andare oltre la comunanza di esperienze vissute e la comunanza di età anagrafica, di approcciare la tematica generazionale come elemento appartenente alla memoria culturale e comunicativa. Portelli si occupa di questa tematica in modo empirico, riferendosi direttamente a Genova e ricavandone due prospettive: l’una che identifica la generazione come concetto unificante per un movimento peculiarmente transnazionale e l’altra come concetto che identifica soggettività diverse all’interno della stessa esperienza. Reulecke la affronta con un approccio più teorico, distinguendo la generationality – tanto un’esperienza centrale condivisa tra individui e gruppi quanto una narrazione pubblica, una retorica ad opera dei media che ne descrive le caratteristiche – dalla generativity che identifica il riconoscimento di una comune esperienza. Tutti e due gli approcci, infine, pur nelle loro differenze, servono a Proglio per rilevare come dalle interviste si evinca una concezione del termine generazione che da un lato supera i confini nazionali e connette persone in diverse parti del mondo e dall’altro, riprendendo Portelli, per notare «come questa generazione sia considerata tale anche da genitori e persone più anziane». Come dimostrano le interviste contenute nel volume, vi è un’indubbia presenza di più generazioni che hanno vissuto, condiviso, elaborato e metabolizzato i fatti di Genova in un movimento politicamente e socialmente multiculturale e transnazionale; generazioni che hanno peraltro affrontato una narrazione pubblica riconoscendo una esperienza comune. In questo modo però si mette in risalto ciò che i militanti rappresentano come esperienza generazionale e non si ricava l’esistenza, i tratti e la costruzione di una coscienza generazionale. Tutto quello su cui Proglio riflette sembra infatti appartenere ad uno spazio intergenerazionale, ossia alle modalità con cui generazioni diverse dialogano tra loro narrando un’esperienza vissuta in comune. Ciò perché le generazioni non si producono dalla condivisione di un’esperienza quanto dal significato che determinate persone attribuiscono all’esperienza vissuta in una determinata fase del loro sviluppo. La formazione di una coscienza generazionale non è un fatto naturale10 ma il risultato di un elaborato processo di costruzione dipendente da svariati fattori: dalle sollecitazioni che arrivano dal discorso pubblico, alla presenza di queste soggettività in esso, dai modi e dalle possibilità di raccontare l’esperienza vissuta, insomma dalla loro presenza nel presente. Le generazioni parlano infatti nel presente del loro passato pensando di lasciare una traccia nel futuro11. A questo proposito, appaiono abbastanza emblematiche le parole di Alessandro Portelli nella prefazione al volume di Proglio. Egli ha infatti raccontato che intervistò, nell’autunno del 2001, alcuni militanti ritornati da Genova e notò subito che «c’era già la sensazione che l’11 settembre avesse cancellato Genova dal discorso pubblico e rendesse molto più difficile parlarne, condividere ed elaborare il trauma» (p. X): a differenza delle generazioni dei movimenti degli anni Settanta, le quali hanno avuto una platea mediatica e giudiziaria indiscriminata per poter narrare ed elaborare la propria esperienza12, la generazione che conobbe la violenza a Genova subì la sovraesposizione con un evento storico di una portata tale da prendere il sopravvento su ogni altro discorso pubblico. I “fatti di Genova” sono stati poi documentati e narrati molto spesso da terzi o dai leader ed intellettuali del movimento. Spesso le voci dei militanti sono state relegate all’interno dei circoli politici e a tutt’oggi, anche militanti nel frattempo diventati intellettuali, rifiutano – tale fu il trauma – di rilasciare interviste su questa esperienza. Mentre il racconto mediatico è stato spesso schiacciato sui violenti e non sulla violenza subita dal movimento, molti giovani hanno rinunciato al racconto preferendo il silenzio. Non si parla qui di fatti limite come quelli della Bolzaneto e della Diaz, su cui si sono prodotti film e sono stati istruiti processi, ma di soggettività che non si sono trovate più all’interno del discorso pubblico. Alla fine, ci si dovrebbe chiedere se un silenzio durato così tanti anni unito all’assenza di queste soggettività dalla platea mediatica possa aver creato una coscienza generazionale, oltreché una memoria comune e come questo processo abbia dialogato con soggettività con una coscienza generazionale già marcatamente sviluppata13. Ritornando al discorso iniziale, le parole di Simona di cui sopra sembrano essere la dimostrazione della presenza di più generazioni a Genova che hanno vissuto ed interpretato quell’esperienza in modo estremamente diverso rispetto ai giovani militanti che si trovarono nel primo, grande evento di massa dell’era dei cellulari e provarono per la prima volta l’esperienza fisica della violenza e della morte. Si tratta, quindi, di uno spazio intergenerazionale che meriterebbe tanta attenzione quanta quella riservata allo spazio intersoggettivo. Per chiudere, dunque, bisogna rilevare che la qualità di un volume si evince dalla sua capacità di produrre domande e porre questioni al lettore anche al di là delle domande di ricerca del suo autore. I fatti di Genova appartengono indubbiamente a questa categoria e aprono sicuramente, come si è tentato di dire, a numerose altre piste di ricerca.
Note