Recensione di Gabriele Licciardi (Centro studi “E. Luccini” – Padova)
Il 12 agosto del 1944 a Sant’Anna di Stazzema il II Battaglione del 35° reggimento della XVI SS Panzer – Grenaider Division compì uno dei più efferati massacri contro i civili che il teatro della seconda guerra mondiale visse. Il volume di Caterina Di Pasquale ha indagato un tratto particolare di questa strage, ovvero il ritorno alla parola dei sopravvissuti dopo anni di assoluto silenzio, e la conseguente democraticizzazione della memoria che il popolo dei santannini ha conquistato, solo, in epoca recente. Il metodo è quello dell’antropologa, che ci ha consegnato una narrazione convincente, e che ha messo al centro del suo lavoro tutti i nodi essenziali che la storiografia contemporanea ha di recente approfondito. Uno su tutti, ch’è rappresenta, poi, uno dei temi portanti del libro, è la ricostruzione di un lutto, quello della comunità di Sant’Anna di Stazzema, per lunghi anni declinato in un silenzio assordante, e quando si è tradotto in narrazione comunitaria, ha espresso tutte le sue contraddizioni, le sue divisioni, fino ad arrivare agli anni novanta, anni in cui il ricordo ha trovato un luogo, il Museo della Memoria, un luogo dove la memoria, divisa, antagonista, ha trovato la sua naturale collocazione, prima nella comunità locale, poi in quella nazionale.
Il libro della Di Pasquale ci racconta questo percorso, costruito attraverso tante voci, ma una appare più forte delle altre. La memoria della strage di Sant’Anna di Stazzema sembra seguire il vuoto identitario che la comunità ha subito dopo la strage. I santannini, per decenni, hanno rincorso una verità giudiziaria, hanno cercato all’interno dei dibattimenti dei processi ai gerarchi nazisti, per la stragi contro i civili compiute nel biennio 43 – 45, il loro motivo di riunificazione, la parola che desse finalmente conferma a quello loro avevano subito, non un rastrellamento nazista in reazione alla guerriglia partigiana, bensì una strage “contro i civili”, contro il popolo inerte. Bimbi donne ed anziani, e non partigiani arroccati sulle montagne della Versilia. L’autore spiega bene i motivi della strage, anche se dimostra, e questo va discusso, troppa fiducia nella possibilità di una sentenza che dia giustizia ad un popolo, fosse anche solo come strumento di identificazione comunitaria.
Cercare un luogo che certifichi una verità storica, per rendere la rielaborazione di un lutto, tanto grave come in questo caso, e tradurlo in un dettato ufficiale, certificato dalla sentenza di un tribunale, ci porta dritti verso il rischio di scambiare l’accertamento delle colpe dei singoli con una presunta verità storica. E se il tribunale di La Spezia che nel 2005 deliberò quella che per molti santannini fu una sentenza d’assoluzione, avesse disconosciuto le aspettative della popolazione di Sant’Anna? Fra l’altro il richiamo a quella sentenza avviene, nel dibattito pubblico, con un carattere estremamente selettivo, poiché sempre quel tribunale ha messo in luce alcuni fatti, come il ridimensionamento del numero delle vittime, fino ad ora stimato in maniera approssimativa in numero pari a 560, ed ha fatto chiarezza sul rapporto, non sempre idilliaco, fra gruppi partigiani e popolazioni locali, smentendo, in qualche mondo, il carattere inossidabile della Resistenza nelle zone della Versilia. Su questi episodi il dibattito pubblico ha taciuto, cercando di cementificare il ritrovato senso di appartenenza comunitaria attorno alla sentenza, che riconosceva quella di Sant’Anna come una strage contro i civili.
Questo discorso di coniuga perfettamente con le polemiche, che la Di Pasquale ha messo bene in evidenza, nate in merito al film di Spike Lee, Miracolo a Sant’Anna, uscito nelle sale italiane nel 2008. Il film ha riaperto una piaga mai rimarginatasi, ovvero le responsabilità partigiane per la strage. Se a livello istituzionale, le stesse, sono state faticosamente rimarginate, attraverso un lavoro paziente sviluppato principalmente dalla regione Toscana, a livello locale, una memoria anti – antifascista continua ad esistere, contro ogni evidenza, di carattere storiografico e, a questo punto, pure giudiziario. La memoria anti – antifascista continua, dopo decenni di silenzio, a riemergere appoggiandosi alle retoriche filo repubblichine espresse da Giorgio Pisanò, presenti sul palcoscenico della polemica pubblica a partire dagli anni settanta, con il compito di screditare il valore della lotta di Liberazione. Ma ovviamente questo momento è stato superato, almeno nel dibattito ufficiale, e il lavoro dell’antropologa lo ha certificato, dando voce, corpo e forma, a tutte le narrazioni che nei lunghi decenni si sono sedimentate a Sant’Anna di Stazzema. Ogni ricordo ha trovato posto nel canovaccio collettivo della narrazione santannina, il luogo è il Museo della Memoria, istituito nel 1991, all’interno del quale è stato trovato il modo per dettare i tempi e i modi per la trasformazione del ricordo personale in un esperienza comunitaria. Ogni ricordo ha così ritrovato la propria dimensione nel palcoscenico locale, ogni lutto ha trovato la sua parola per riemergere e trasformarsi in un Ricordo dopo l’oblio, finalmente una memoria frutto di un ricordo democraticizzato. Una narrazione onnicomprensiva è stata sostituita con un coro di biografie, spesso diverse l’una dall’altra, spesso divise e conflittuali. Tutto questo nessun tribunale potrà mai accertarlo, nessuna sentenza potrà mai formalizzarsi nell’autenticità di un ricordo. Il ricordo dopo l’oblio, n’è una lampante manifestazione.