Il terreno della ricerca non è mai un percorso lineare ma per sua natura è costellato di complicazioni e ostacoli che nel caso della storia orale sembrano quasi ineluttabili data la delicatezza del materiale umano trattato e la conseguente relazione con una soggettività altra. Ricordo ancora le mie primissime esperienze con un registratore in mano nell’ambito delle Scuole AISO di Casa Sanità e di Feltre dove, da esordiente, quale sono tutt’ora, ho commesso tutta una serie di errori che hanno in parte pregiudicato la buona riuscita delle interviste: domande mal poste, ambiente inadatto, mancato feeling con l’intervistato o anche semplice incompetenza. Tutti fattori che, se in un primo momento mi hanno fatto arrabbiare e storcere il naso, ripensati a mente fredda hanno contribuito ad arricchire il mio bagaglio esperienziale di storico – poco – orale.
Si può quindi fare tesoro anche dei momenti peggiori del proprio percorso di ricerca? È possibile arricchire le nostre competenze anche quando, davanti ad una scelta, commettiamo, volenti o nolenti, uno sbaglio? Sono queste le domande dietro il convegno Imparare dagli errori. Difficoltà, complicazioni, ripensamenti nella storia orale, tenutosi a Treviso e a Venezia nei giorni 10 e 11 ottobre 2022. Studiose e studiosi si sono riuniti con l’intento di diffondere un triplice messaggio: la naturale sperimentalità della storia orale legata all’imprevedibilità delle testimonianze e del lavoro di campo; l’importanza di errori, incertezze e ripensamenti che, soprattutto se condivisi, possono generare occasioni di conoscenza e comprensione; il superamento dell’elemento confine, che sia questo concreto o astratto, nell’ottica di mettere in contatto gruppi di ricerca provenienti da comunità linguistiche e nazionali diverse. Quest’ultimo punto, in particolare, è legato ad una precisa contestualizzazione spaziale che vedeva nell’incontro tra storici italiani e sloveni la possibilità di intavolare una discussione sui rispettivi modi di fare ricerca orale nel territorio dell’alto adriatico.
Alcuni degli interventi di questo convegno sono stati successivamente rielaborati dai loro autori e, dopo essere stati soggetti a referaggio, sono diventati il corpus del numero di «Acta Histriae», 31 (2023), n. 3 al centro di questa recensione.
A mio modo di vedere per meglio apprezzare e districarsi tra le molteplici tematiche trattate nei diversi contributi, tra i quali spicca ovviamente il tema ricorrente del confine, bisognerebbe approcciare questo numero non seguendo l’ordine prestabilito bensì partendo dalla fine, dalle relazioni tenute da Alessandro Casellato, Alessandro Portelli, Gloria Nemec e Giovanni Contini ad apertura e chiusura del convegno e qui raccolte in un’unica sezione. In queste pagine vengono esplicitati, anche attraverso l’intreccio con esperienze autobiografiche, i temi che fanno da collante tra i vari articoli e in un certo qual modo vengono forniti al lettore gli strumenti interpretativi per meglio apprezzare l’opera nella sua totalità; si entra a fondo nel rapporto tra intervistatore e intervistato mostrando come le due soggettività siano per forza di cose destinate a sovrapporsi nell’elaborazione della fonte. Nella complessità e nella delicatezza di questa relazione emergono le difficoltà intrinseche nel fare storia orale, il suo rapporto con la verità e, come sostiene Casellato, il quasi naturale superamento dei canoni «politicamente corretti» nel provocare memorie «scomode».
Fatti propri strumenti, concetti e categorizzazioni espresse brillantemente in questa sezione, si può sicuramente apprezzare con maggiore consapevolezza il lavoro delle studiose che hanno contribuito al convegno prima e alla rivista dopo. Sì, soltanto studiose, perché, come fatto notare anche da Lampe e Casellato, dalla già netta prevalenza femminile tra i relatori si è passata all’esclusiva partecipazione di donne come autrici dei saggi pubblicati.
Il lavoro intellettuale di queste studiose ha prodotto tutti saggi di alto livello, provenienti non solo da ambiti disciplinari molto diversi tra loro ma anche da ambienti formativi di grado estremamente variegato. Il risultato è una proficua trasmissione orizzontale del sapere che ha posto sullo stesso piano affermate storiche e linguiste con giovanissime studiose e ricercatrici dall’indubbia preparazione. Ovviamente, dalla lettura degli articoli emerge chiaramente il diverso bagaglio esperienziale delle autrici e la loro capacità o meno di poter ampliare il proprio discorso verso direttrici riflessive molto più ampie del singolo caso studio. Non si tratta, però, di un difetto, men che meno in un lavoro in cui il mettersi in gioco e l’autoriflessione sono punti cardine e fili trainanti dell’intera discussione metodologica.
Dal punto di vista esclusivamente contenutistico, invece, i saggi potrebbero essere suddivisi in due macrocategorie: quelli che sono legati al tema del confine e del territorio dell’alto Adriatico e quelli che non lo sono. I primi sono sicuramente l’elemento portante dell’intero numero, data anche la naturale declinazione di «Acta Histriae» per la tematica; le riflessioni sulle difficoltà di fare storia orale sono qui interconnesse ai limiti e alle sfide del lavoro in zone di confine, con particolare attenzione al rapporto tra Italia e Slovenia.
I restanti articoli si distaccano dal quadro spaziale e anche metodologico, cercando al contempo di non perdere il focus sul tema principale. Come i primi, anche questi sono contributi di grande spessore, offrono molteplici spunti e denotano approcci dalla forte interdisciplinarità. Si percepisce però la mancanza di uniformità argomentativa non solo tra i singoli saggi ma anche e soprattutto in rapporto alla colonna monografica della rivista. Questa problematica non emergeva durante la presentazione degli interventi al convegno, probabilmente perché l’organizzazione di questo in tre sezioni meglio definite e concettualmente più ampie aveva garantito una maggiore interconnessione tra le diverse relazioni e una più scorrevole fluidità tematica.
Nonostante ciò, il monografico è riuscito nel suo intento di restituire in forma scritta gli spunti, le idee e le sensazioni scaturite dall’incontro dell’ottobre 2022. In ogni pagina è ben chiaro il contributo esperienziale scaturito dall’errore e dalla sperimentazione, così come sono evidenti le difficoltà implicite nel lavoro dello storico orale, soprattutto nel rapporto con il carattere eccezionale della sua fonte. L’insegnamento che se ne trae finisce per sovvertire il mantra di un vecchio «maestro» del cinema fantascientifico: «Fare o non fare. Non c’è provare». Il tentativo diviene parte fondamentale della ricerca, ancor di più nella sua declinazione orale, generando conoscenza, consapevolezza e magari risultati inaspettati. Le studiose dietro questo numero di «Acta Histriae», attraverso le loro diverse esperienze, sono state capaci di far loro e di mettere in luce la decisiva utilità del «provare», confermando quanto sia possibile e necessario, lungo il tragitto della ricerca, imparare dai propri errori.