di Alessandro Candelieri.
Intellettuali, culture locali, archivi orali: questo il tema del corso di Storia orale del 2019 all’Università di Venezia; al centro c’era l’idea che la storia orale in Italia sia stata, per alcuni decenni, un movimento largo, che ha mobilitato una generazione di intellettuali “diffusi”, attivi anche al di fuori dei circuiti e dei luoghi più noti, che dagli anni Ottanta in avanti hanno condotto ricerche, scritto libri, fondato associazioni, spesso registrato e conservato interviste.
Di loro sappiamo poco. Li siamo andati a cercare. Gli abbiamo chiesto di raccontarci le loro traiettorie di vita e di ricerca. E di dirci che cosa è rimasto dei loro archivi, dei documenti che hanno raccolto, e a chi pensano di consegnare la loro “eredità materiale” fatta di nastri e cassette con le mille voci che hanno ascoltato. Ne sono usciti degli incontri singolari, illuminanti, talvolta toccanti.
Dopo Rosarita Colosio, Camillo Pavan, Giovanni Rinaldi, incontriamo Gastone Pietrucci, intervistato da Alessandro Candelieri, studente di Antropologia.
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“Allora d’accordo, sabato 27 aprile [2019], alle ore 16”.
Non posso nascondere un certo stupore per la facilità con cui riesco a concordare un’intervista con Gastone Pietrucci, settantasette anni, etnomusicologo, musicista e ricercatore marchigiano, praticamente un’istituzione nel panorama della musica popolare del centro Italia; un personaggio che è stato capace di riesumare un’immensa mole di tradizioni orali e canore ataviche, ormai destinate a spegnersi con i loro ultimi anziani portatori. Un negromante.
Il contatto avviene per telefono: è sufficiente curiosare nella sezione Contatti del sito de La Macina, il gruppo di canto popolare da lui fondato nel 1968 a Monsano (Ancona) e tutt’ora in attività, per pescare il numero da cui mi risponde una voce graffiante e profonda. Non mi occorrono acrobatici giri di parole per convincerlo della bontà del progetto e delle motivazioni dell’intervista: uno studente di Antropologia alle prese con un esame di Storia orale all’Università di Venezia alla ricerca di una storia da raccontare, quella di una vita: la sua. Tanto basta a ricevere una risposta affermativa alla mia richiesta, e a sancire l’inizio di una piccola avventura in una terra, per me, ancora inesplorata.
La passione per la ricerca folklorica
“Tutto è nato nel ’64” al Teatro Caio Melisso di Spoleto, nell’ambito del Festival dei Due Mondi. Gastone, giovane “spiantato” ed ancora estraneo al mondo della musica popolare, assiste alla prima rappresentazione di Bella Ciao del Nuovo Canzoniere Italiano, spettacolo di Filippo Crivelli e Roberto Leydi, su testi di Franco Fortini:
Quello spettacolo m’ha cambiato la vita, m’ha travolto. Perché intanto era uno spettacolo modernissimo; immagina, non c’era niente che ti potesse indicare i cascami della musica popolare così come te la presentano adesso i famigerati gruppi folkloristici. Non c’era niente. C’era solo lo sfondo di juta, le sedie impagliate, e questi dodici interpreti del Nuovo Canzoniere Italiano, vestiti come io e te, normalmente […] che si alzavano e sedevano, e ognuno porgeva il suo canto.
Ma la suggestione più grande scaturisce da un’interprete che sul palco si staglia sullo sfondo, Giovanna Daffini: “questa ex mondina, questa presenza sconvolgente”, che regala allo spettacolo un’autenticità inaudita, e s’imprime in maniera indelebile nella mente di Gastone, con la sua “voce che quasi ti dava fastidio, e nello stesso tempo ti affascinava”. Lo spettacolo, forte della sua dirompente rottura con gli schemi della cultura egemone e per l’impostazione scarna della rappresentazione, suscita scandalo, che sortì l’effetto, opposto, di promuoverlo e di suggellarne quindi l’indiscutibile successo. In ogni modo, per l’esistenza stessa dell’intervistato fu uno spartiacque decisivo, dovuto alla neonata consapevolezza che “c’era un’altra musica, un’altra storia, un’altra Italia che sapeva cantare”: le prime esecuzioni del repertorio di Gastone Pietrucci e gli albori della sua carriera musicale si rifanno infatti allo spettacolo Bella Ciao del Nuovo Canzoniere Italiano. Pietrucci fonda quindi in questo stesso periodo di fermento artistico il gruppo di canto popolare La Macina, che lo accompagnerà per oltre cinquant’anni, ininterrottamente.
Ma la nascita di un’originalità propria del repertorio de La Macina coincide con gli anni degli studi universitari in Sociologia che Gastone conduce all’Università di Urbino (si laureerà nel 1977-78 con una tesi su Letteratura tradizionale orale marchigiana e spoletina). Stimolato dal professore di Storia delle tradizioni popolari, Gastone Venturelli, il giovane studente si avventura nel territorio inesplorato delle tradizioni orali marchigiane, dove entra in contatto con un altro personaggio fondamentale per la sua attività di ricercatore e musicista:
Il mio primo informatore, Pietro Bolletta, questo ex contadino, m’accolse nella sua casa. La prima serata: quattro ore di registrazione ininterrotte, un canto dietro l’altro. Era un fiume in piena. E poi lui è stato il mio insegnante, perché io registravo, trascrivevo, lo riportavo al mio professore, lui ricontrollava (per la tesi), e Pietro faceva altrettanto.
È grazie ai primi preziosissimi spunti suggeriti da questo grande informatore che Gastone Pietrucci inizia ad addentrarsi sempre più profondamente nella cultura contadina, riscoprendo gli antichi canti di questua della Passione che stavano già da tempo subendo un inesorabile processo di scomparsa nell’oblio:
Nessuno li voleva ascoltare più, perché eravamo arrivati in un momento in cui il pubblico che poteva accogliere queste canzoni della campagna scompariva; c’era questa polverizzazione della civiltà contadina e della campagna, le case abbandonate. I cantori andavano casa per casa a proporre questo canto di buon augurio, di buon lavoro, di buon raccolto, contraccambiato dal dono, perché più il dono era grande, più c’era speranza di un buon raccolto. Quando questo pubblico stava scomparendo il cantore, il suonatore, con chi cantava? Non cantava con nessuno!
I canti tradizionali
Dall’incontro con questi ultimi superstiti di una cultura in via di estinzione, Gastone Pietrucci decide di opporsi al destino della cultura orale marchigiana, destinata a perdersi per sempre con la morte dei suoi portatori originali. Da qui l’idea di istituire una rassegna annuale della Passione nel paese di Monsano, al fine di far cantare nuovamente i portatori di cultura contadini. L’iniziativa suscita grande entusiasmo nei depositari della tradizione e nel pubblico sempre più consistente, che ormai “li osannava come divi”. Stimolato dal successo di questa prima iniziativa, Gastone Pietrucci prosegue nella ricerca di ulteriori canti del repertorio orale tradizionale e dà inizio a una serie di altre rassegne che “ridanno voce a questa tradizione che di solito viene sempre negata”: la rassegna della Pasquella a Montecarotto, quella dello Scacciamarzo a Monsano, quella del Cantamaggio a Morro d’Alba; punto di contatto comune è sempre il coinvolgimento attivo degli informatori e dei portatori originali di cultura, che dopo un lungo periodo di silenzio possono finalmente tornare protagonisti del loro passato:
Io dico sempre che quello che fa l’informatore è giusto, nel senso che sa fa anche delle baggianate, delle cose, delle aggiunte, delle varianti che a te non piacciono. […] Però da loro le devi accettare, perché è questa la loro tradizione e loro sono liberi di migliorarla. di cambiarla e anche di stravolgerla, è da me che non devi accettare se con il loro materiale faccio delle stupidaggini. Ma, ripeto, dall’informatore tu devi accettare qualsiasi cosa, anche se ti canta lo scontato e immancabile “Quel mazzolin di fiori” […], perché dopo riuscirai a scavare e a registrare tante altre cose…
Così come era avvenuto per i contadini della Passione, sempre per casualità Gastone Pietrucci entra in contatto con il mondo delle “filande” di Jesi: da fine Ottocento fino al termine del secondo conflitto mondiale, la valle dell’Esino brilla per la sua fiorente industria tessile e manifatturiera, avente come fiore all’occhiello le fabbriche di filatura della seta situate a Jesi. Sono le ex lavoratrici di questi stabilimenti che schiudono al ricercatore le porte di un mondo composto “di tutte donne, un microcosmo tutto femminile dove era permesso cantare ma non parlare”, e dove Gastone Pietrucci ha “trovato un repertorio incredibile, dalle ballate del Cinquecento fino agli ultimi canti dei cantastorie”. Il progetto dura due anni, e coinvolge inizialmente sessanta ex “filandare”, di cui vengono registrate, oltre alle canzoni di lavoro, le memorie di una vita, raccolte “casa per casa”. L’incredibile lavoro di ricerca viene coronato da una registrazione durata due giorni al Teatro Pergolesi di Jesi: le trentacinque, più determinate, “filandare”, dirette dalla mano di Gastone Pietrucci, nel 1990 incidono un LP dal grande valore storico e culturale, “Io vado allà filandra…”, in cui dallo sfondo sonoro privo di strumenti si stagliano nette le voci delle donne e le canzoni che usavano intonare durante gli estenuanti turni di lavoro. Un’operazione senz’altro difficile:
È stata anche lì un’avventura, per far cantare trentacinque donne insieme, farle star zitte, fargli fare la stessa versione; perché loro venivano da filande diverse, e tu mi insegni che un canto può avere varie varianti, perché una sa una cosa, una un’altra… Però per farle cantare insieme io dovevo far fare la versione che conoscevano di più. Ma all’altra che conosceva la sua versione le veniva in mente quella, e quindi si doveva ricominciare. È stata una cosa molto forte, molto bella… Però siamo riusciti a farle registrare.
La lezione dei portatori
Un tema spesso ricorrente in tutta l’intervista è quello della cultura popolare contrapposta a quella massmediatica, ma Gastone Pietrucci si guarda bene dal propugnare una ripresa pedissequa delle lezioni popolari: finché l’informatore è in vita e ha la possibilità di cantare, qualsiasi riproposta risulterebbe soltanto una copia sbiadita dell’originale, e soltanto in un secondo momento l’artista può intraprendere un percorso di riproposizione, di rimodulazione, ma “finché c’è l’informatore, sentiamo l’informatore”. In questo frangente cita la sua esperienza con un’altra sua grande informatrice, Lina Marinozzi Lattanzi:
“Bello lo mare e bbella la marina” è un canto che mi ha dato una contadina del maceratese, Lina Marinozzi Lattanzi […] Quando lo cantava lei la portavamo in queste rassegne, ed era come se tu sentissi la Callas, perché aveva una voce incredibile, la gente rimaneva in silenzio. Rifare “Bello lo mare e bella la Marina” come la fa Lina Marinozzi è assurdo […]. E come diceva bene Giovanna Marini, io riproponendo un canto del contadino toscano lo tradisco ma lo trasmetto.
Il documento originale ha la priorità su tutto ciò che viene successivamente, e il prerequisito fondamentale di ogni lavoro deve essere una ricerca seria, approfondita sul significato che i canti assumono all’interno di una determinata cornice culturale. Prescindere dall’informatore porta necessariamente a una deformazione del contenuto originale, che nei casi più estremi ha come risultato la banalizzazione del folklore, così come viene presentato nella “società dell’immagine”, con “quelle riproposte da cartolina, quelle leziosità, faziosità, scemenze che tanto piacciono alla televisione”.
D’altronde, appare evidente dalla successiva piega che prende l’intervista che il mio interlocutore non si faccia censore di riproposizioni del repertorio più ardite, purché abbiano una propria originalità. Ne è testimonianza la mole di collaborazioni artistiche intraprese all’infuori del genere folk: nel Jazz, nel Rock, persino un’incursione nella musica sinfonica. In fondo la tradizione musicale tramandata oralmente è per sua stessa natura mutevole, destinata a evolversi, corrompersi, rinascere in vesti sempre nuove. L’esempio del canto “Il Marito Giustiziere” è istruttivo: una ballata della metà Cinquecento spagnolo, “la Mala Mujer”, si propaga in tutta Europa, cambiando di lingua e di forma, ma non di contenuto, e raggiungendo in maniera del tutto misteriosa anche le “filande” di Jesi, ma arricchita in questo contesto di una parte “dedicata” alle maledizioni, assente nella lezione originale. Proprio perché “trasmettendosi oralmente il canto popolare vive”, nella versione proposta da La Macina, in cui è l’ultimo informatore che l’ha ricevuta oralmente a trasmetterla per l’ultima volta in forma orale, con esso il canto, in un certo senso, muore. Nonostante sia sempre presente una certa nota fatalista nei discorsi di Gastone, quello che si percepisce sopra qualsiasi altra cosa è la profonda gratitudine tributata ai suoi informatori perché
Sono loro che mi hanno insegnato. Intanto a rispettarli, perché è il loro mondo, e tu quindi li devi rispettare. Se dici: “Ritorno”, devi ritornare, non come molti altri che alla fine… Io dico “i rapinatori”. Arrivano e vanno via, rapinano. Se tu dici ad un informatore: “Io ritorno”, lui t’aspetta.
Mi racconta di come i suoi testimoni avessero paura di perderlo, di non vedersi più ascoltati. Come Pietro Bolletta, che fino agli ultimi mesi del loro contatto, aveva atteso di cantare una ballata per cui il ricercatore era ossessionato, “Morte Occulta”, nella convinzione che una volta condivisa, non ci sarebbe stato più alcun motivo per proseguire il rapporto. O di come Armanda, un ex filandara, s’inventasse di essere in contatto con altri fantomatici ricercatori per “ingelosire” Gastone Pietrucci, che mi riferisce questi episodi con una grande tenerezza, perché è consapevole di quanto siano preziose le memorie delle persone e le persone stesse, e di quanto sia importante rispettarle nella loro fragilità. E le difficoltà in cui spesso il ricercatore incorre, i fallimenti, le frustrazioni, sono ripagate dal senso di meraviglia nello scoprire un frammento di passato, che “è come una reliquia, come se tu fossi un archeologo che dalla terra scopre un pezzo di statua, una reliquia. La memoria è questa, pensa, è ancora più fragile”, una memoria che spesso è come un “fiume carsico”, che all’improvviso sgorga e non si ferma più.
Il sincero interesse per i propri interlocutori è l’imperativo etico, ma la passione, l’incoscienza della gioventù, sono i propulsori che hanno spinto Gastone a intraprendere la frenetica raccolta di centinaia di testimonianze, a conoscere più di mille testimoni. Tuttavia, senza il “miracolo” casualità, molte delle scoperte incredibili non avrebbero visto sicuramente la luce. E il racconto di come Gastone sia entrato in contatto con il mondo della “filanda” di Jesi ha davvero del miracoloso:
Mia madre era ricoverata all’ospedale a Jesi con l’asma, e in quella camerata c’erano altre donne malate d’asma (che poi l’asma ho scoperto essere una malattia proprio professionale delle filandare, perché lavoravano in ambienti durissimi, umidi). Ad un certo punto una mi canta, Quartina, mi ricordo, attacca il canto della filanda, “Io vado alla filanda”… Poi ad un certo punto si interrompe, perché se la scorda… Ma un’altra giù in fondo la rimbecca! Tu immagina… Io dico, è un miracolo! Io non avevo il registratore, non avevo nemmeno l’idea della filanda.
Le motivazioni e gli accorgimenti nella ricerca
A posteriori, Gastone riconosce che molto di quello che ha fatto è stato possibile grazie ad un certo idealismo comune a tutti i giovani, a una “retorica del sacro fuoco”, ma che le ricerche, svolte per lo più in solitaria, avrebbero potuto essere ampliate ulteriormente, arricchirsi di più intuizioni, se solo fosse stato affiancato da altri ricercatori. Un peccato, dice lui, ma anche una fortuna. Perché forse sarebbe stato più difficile farsi “aprire il cuore” dai suoi portatori a causa della presenza di più persone. In fondo l’informatore rivela sempre qualcosa di se stesso, della sua intimità: “ti da la sua anima”, e anche solo un altro ascoltatore in più potrebbe invalidare l’obbiettivo della ricerca. Anche quando questo ascoltatore “di esubero” risulta essere un mezzo meccanico: il registratore. Gastone infatti mi confida di aver eseguito tutte le sue prime registrazioni “con un registratore da quattro soldi, sai, quelli accendi e spegni”. Ma pagando con una qualità spesso non eccelsa, ne ha guadagnato di discrezione, evitando l’ingombro e la soggezione suscitati da un magnetofono professionale, di dimensioni più importanti. Rimpiange tuttavia il fatto di non avere avuto la possibilità, al tempo, di utilizzare un videoregistratore:
Perché l’informatore è importante vederlo, nel gesto, nel modo in cui canta, come ti porge le cose. Io per esempio perché sento queste cose che canto? Perché quando io canto queste versioni sento e vedo Pietro, vedo Armanda, vedo Telemaca, capisci? Ma non perché li voglia scimmiottare, però me li vedo, capisci? E questo mi ha impreziosito, perché ti hanno dato uno spessore.
Chiedo quindi cosa abbia spinto Gastone a una ricerca così duratura, a eseguire così tante registrazioni, con un lavoro spesso frustrante, e se dietro il furore giovanile ci fosse anche un’idea politica. Mi risponde che fu il grande impatto emotivo suscitato dalla voce di Giovanna Daffini, di quello spettacolo così dirompente, a far vibrare quel “filo rosso che lega le anime di ognuno” sulle note della musica popolare, “dove tu ti riconosci e dove tutti ci riconosciamo”. La musica popolare rivela la sua forza nella resistenza caparbia al tempo, al passare delle mode. È un terreno su cui tutti si sentono stabili, poiché affonda le radici nella profondità dell’anima di ognuno, quella stessa profondità dei portatori a cui il ricercatore può accedere, e che diventa fonte di reciproco arricchimento e gratificazione qualora si verifichi un vero incontro sullo stesso terreno. Più volte Gastone mi dice quanto sia meraviglioso sentire di avere dentro di sé una parte preziosa di ognuno dei suoi testimoni, e quanto sia emozionante farli rivivere sul palco ancora una volta, insieme a lui. Questo è ciò che lo spinge ancora oggi a cantare, a sentirsi vivo e a vivificare i portatori dei canti che ripropone: “se io non potessi cantare più, preferirei morire”.
L’archivio sonoro e il suo destino
Tuttavia, molto del materiale raccolto con cura nel corso degli anni è rimasto inedito e talvolta non catalogato. Le prime ottanta bobine di interviste sono state digitalizzate e pubblicate online dall’editore romano Squi[libri], mentre purtroppo il resto dell’immane collezione di cassette registrate necessita di una digitalizzazione urgente, prima che il tempo renda i nastri delle cassette inutilizzabili per la loro inesorabile smagnetizzazione. “Non so nemmeno io quello che c’ho, insomma! Questo è un peccato, non lavori bene. Però io sono un fatalista… […] Io ho fatto il massimo delle cose che potevo fare, non posso fare di più”. Con l’avanzare dell’età viene a mancare il tempo necessario per dedicarsi ancora a un lavoro così oneroso: se ci fossero tuttavia delle persone disposte a farlo, sarebbe felice di mettere a disposizione il suo materiale, come già avvenuto in passato, in cui diciotto bobine di registrazioni “dimenticate” sulla vita delle filandare sono state ritrascritte da un gruppo di ricercatrici per la pubblicazione di un libro.
Parte del fatalismo deriva anche da un fallimentare tentativo di creare un Centro per le Tradizioni Popolari, in cui Gastone avrebbe avuto modo di formare una nuova generazione di giovani ricercatori, condividendo il suo materiale e le sue conoscenze, e dando vita a laboratori pratici per la trascrizione del materiale inedito e la moltiplicazione delle ricerche sul campo. “L’hanno fatto, si può dire, morire, perché senza mezzi, senza niente…”. La lentezza “criminale” della burocrazia e il disinteresse delle istituzioni ha fatto quindi naufragare il progetto, con il risultato di aver privato la collettività di un patrimonio ancora sconosciuto, nascosto dentro quelle centinaia di cassette che rimangono chiuse nei magazzini di un garage di Jesi, tutt’ora soggette all’ingiuria del tempo. “Perché io vedi: c’ho tutto, e non c’ho niente!”.