di Patrick Urru
Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, nella città di Bolzano, restano alcune testimonianze di grande rilevanza simbolica della presenza fascista e nazista in Sudtirolo: il Monumento alla Vittoria nell’omonima piazza, il bassorilievo di Piffrader in piazza Tribunale e il campo di concentramento di via Resia. Oggi, di quest’ultimo, rimane solo il muro di cinta, ma il ricordo del luogo e di tutto quello che ha rappresentato per la città è ancora vivo nella memoria di alcune delle persone intervistate dallo storico Giorgio Delle Donne durante la realizzazione del progetto “Archivio orale”, depositato nella biblioteca provinciale italiana “Claudia Augusta” di Bolzano. Oltre 140 videointerviste condotte dal 2004 al 2007, storie che documentano particolari aspetti della vita culturale, politica e sociale della Provincia di Bolzano a partire soprattutto dal secondo dopoguerra.
Il Polizeiliches Durchgangslager Bozen / Campo Concentramento-Bozen – nome bilingue ufficiale che compare sul formulario della corrispondenza in uscita e sul foglio di rilascio / Entlassungsschein – inizia la sua attività nell’estate del 1944, nello stesso periodo in cui il campo di Fossoli, località nei pressi di Carpi in provincia di Modena, viene chiuso. Il personale e i comandanti in servizio insieme ai prigionieri non ancora deportati nei campi oltre le Alpi vengono trasferiti a Bolzano. Durante il periodo in cui il Lager di Bolzano rimase attivo, vi transitarono oltre 11.000 persone, soprattutto civili, arrestate per motivi politici (partigiani, scioperanti, rastrellati) e per motivi razziali. Non si dispone di numeri ufficiali, ma le ricerche stimano che gli internati trasferiti nei campi di concentramento d’Oltralpe siano stati 3.500 con tredici Transporte verso Mauthausen, Flossenbürg, Dachau, Ravensbrück e Auschwitz. Il Lager viene chiuso il 3 maggio 1945.
Oggi, l’area occupata dal campo di concentramento si trova nel quartiere Don Bosco, in corrispondenza del civico numero 80 di via Resia. Il quartiere è uno dei più piccoli per superficie, ma il secondo per numero di abitanti. Come detto in precedenza, del complesso originario rimane solo il muro di cinta, perché negli anni Sessanta le strutture del campo vengono progressivamente distrutte per far spazio ad una serie di alloggi. La vita nelle baracche del Lager negli anni successivi alla fine della guerra e la distruzione del complesso rappresentano due momenti particolarmente significativi nelle interviste di Delle Donne realizzate con il giornalista e traduttore Umberto Gandini e con il senatore ed ex presidente dell’ANPI di Bolzano Lionello Bertoldi. Il Lager diventa l’occasione per parlare del clima politico e sociale dell’epoca e delle modalità con cui i due maggiori gruppi linguistici, italiano e tedesco, hanno cercato di offuscare e dimenticare le vicende storiche che hanno caratterizzato il Sudtirolo a partire dagli anni Venti.
Umberto Gandini è stato intervistato nella vecchia sede della biblioteca provinciale italiana “Claudia Augusta” il 27 aprile 2004. Nato a Milano, arriva in Sudtirolo intorno al 1946. Collabora fin dal liceo con il quotidiano “Alto Adige” e alla fine del 1960 diventa giornalista professionista. È proprio in questo periodo che pubblica un’inchiesta dedicata alle famiglie che vivevano nelle baracche del Lager di Bolzano.
[00:05:55] GIORGIO DELLE DONNE: E passando invece alle tue attività di cronaca, ricordo di aver letto degli articoli dove tu descrivevi la vita all’interno di quello che era l’ex Lager di via Resia che era abitato da famiglie, da oltre 200 persone, ti ricordi ancora di questa notizia?
[00:06:12] UMBERTO GANDINI: Lo ricordo sì. Si facevano delle inchieste all’Alto Adige, delle più strane. Io ricordo che andai a vedere il Lager di via Resia ed era malinconico e, nei primi anni Sessanta, era estremamente malinconico vedere queste baracche, queste casematte, chiamiamole così, che erano servite per detenere della gente nelle situazioni che sappiamo. Il ricordo di questa cosa era stato stemperato a livello ufficiale, perché diciamo che oggi in molti sanno che c’era un Lager a Bolzano, ma allora non lo sapevano, quando noi lo abbiamo scritto ci fu anche chi se ne risentì… Quando quella volta tirai fuori questa storia e dissi: «Ma come, c’è della gente, dei poveracci, che sono costretti a vivere in quelle che una volta erano delle prigioni e quindi immaginatevi in che condizioni vivono». Allora il Lager esisteva ancora proprio nella sua interezza, solo che era stato riciclato, diciamo, spontaneamente riciclato dalla gente che doveva vivere.
Gli articoli a cui si fa riferimento sono probabilmente quelli comparsi, non firmati, sul quotidiano “Alto Adige” alla fine dell’agosto del 1960. Una sorta di memorandum indirizzato ad Alfons Benedikter, personaggio di spicco della Südtiroler Volkspartei, che all’epoca ricopriva il ruolo di assessore provinciale per l’urbanistica e piani regolatori, case popolari e tutela del paesaggio. Dopo la guerra erano centinaia le famiglie che vivevano nei ruderi degli edifici bombardati o nelle baracche del campo di concentramento. Una situazione comune ad altre parti d’Italia, pensiamo per esempio al Campo di Fossoli in cui dal 1954 alla fine degli anni Sessanta vivevano profughi dell’Istria che nel Lager hanno fondato il Villaggio San Marco.
Gandini parla di un «ricordo stemperato a livello ufficiale» e in effetti negli anni, la questione del campo di concentramento non sembra essere mai stata al centro del dibattito politico. Uniche eccezioni, alcuni confronti in consiglio comunale e provinciale per dirimere le questioni legate alle condizioni igienico sanitarie delle famiglie che abitavano il campo; la distruzione delle baracche o particolari ricorrenze, come i contributi per il Ventennale della Liberazione.
È proprio in occasione delle cerimonie ufficiali che il campo di concentramento diventa luogo di commemorazione pubblica. Questo accade, si presume per la prima volta, nel settembre del 1946. L’occasione è il secondo anniversario dell’eccidio dei 23 della «fossa comune». In sintesi, il 12 settembre 1944, 23 uomini vengono prelevati dal campo di concentramento, trasferiti nelle stalle della Caserma di Artiglieria “Francesco Mignone” ad Oltrisarco, uccisi con un colpo alla nuca e gettati in una fossa nel Cimitero Maggiore di Bolzano. Nel secondo anniversario, una delegazione dell’ANPI insieme a «congiunti dei martiri, rappresentanti delle autorità politiche, civili e militari cittadine, larghe rappresentanze di partigiani, reduci, perseguitati politici, operai della zona industriale e cittadini» visitano l’ex campo di concentramento. Un’altra commemorazione significativa è quella del 25 luglio 1954, «ad onore e memoria degli internati e dei caduti al campo di concentramento nazista di Bolzano nel decimo anniversario del suo triste inizio». È ancora una volta una rappresentanza di partigiani e reduci ad organizzare l’iniziativa, rivolgendo un appello a tutti i cittadini che in un clima di «solidarietà patriottica» si renda onore ai caduti per la libertà e a coloro che nel campo hanno conosciuto i più duri sacrifici. Il campo di concentramento diventa una tappa fissa durante le celebrazioni per il 25 aprile e, in alcune occasioni, sede di comizi in vista degli appuntamenti elettorali locali e nazionali. In una prima lunga fase si può notare l’assenza di esponenti di primo piano del gruppo sudtirolese di lingua tedesca. Il Lager diventa simbolo di una celebrazione tutta italiana che si identifica negli ideali della Resistenza e della Liberazione. In un contesto di questo tipo non c’è spazio per un gruppo che viene considerato simbolo vivente delle atrocità del regime nazista. Negando l’esistenza di partigiani di lingua tedesca si rafforza la tesi che il gruppo sudtirolese abbia agito in modo compatto a favore del Reich e si avvalorano così le pretese di controllo del territorio da parte dello Stato italiano “liberatore”. Dal punto di vista delle frange più estremiste dei movimenti sudtirolesi di lingua tedesca, i combattenti sudtirolesi tedeschi rappresentano il tradimento della Germania e, in quanto partigiani, un’entità vicina all’Italia. A questo proposito vale la pena riportare un altro passaggio dell’intervista con Umberto Gandini.
[00:08:53] GIORGIO DELLE DONNE: Per quanto riguarda il rapporto col passato, ad esempio, tu dicevi che il ricordo del Lager di via Resia era andato via via scemando negli anni Cinquanta e Sessanta.
[00:09:01] UMBERTO GIARDINI: Sì, perché non c’era, a livello ufficiale, nessun interesse, anzi, semmai l’interesse contrario a ricordare queste cose. Bisogna pensare una cosa, che se c’è un buco nero nella storia postbellica italiana è questo, che metà dell’Italia non fece l’esperienza della Resistenza e poté quindi trapassare in maniera indolore dalle file burocratico-fasciste alle file burocratico-democratiche, senza alcun filtro. […] Qui in Sudtirolo, la popolazione di lingua tedesca e soprattutto il suo gruppo egemone, hanno fatto la stessa esperienza, sono passati dal Nazismo alla Democrazia, gli stessi personaggi, le stesse mentalità senza aver dovuto mai fare una scelta e anzi con l’interesse di nascondere il più possibile tutta questa realtà.
[00:10:06] GIORGIO DELLE DONNE: Non ci sono stati processi di epurazione?
[00:10:08] UMBERTO GIARDINI: Non c’è stata nessuna epurazione e soprattutto qui l’epurazione è stata fatta nei confronti di quelli che avevano fatto una scelta che non collimava con quella della maggioranza della popolazione, i Dableiber. I pochi che combattevano qui in Alto Adige sono passati per banditi, quei pochi sudtirolesi che combatterono attivamente nella Resistenza, perché la maggioranza dei tedeschi rimase con questa coerenza tutta teutonica, rimasero a combattere nella Wehrmacht fino alla fine e si consideravano traditi da quegli altri, erano dei traditori. Questa mentalità ha giovato, ha consentito ai tedeschi di nascondere il Lager di via Resia e agli italiani che non volevano tirare fuori questa storia. La stessa ragione per cui furono chiusi negli armadi tanti fascicoli sui delitti nazisti, perché c’erano state complicità italiane, perché si riteneva vabbè questa è una, mettiamola sotto il tappeto, sono cose che è meglio non si raccontino, perché danno dolore e fastidio.
Un “percorso di discolpa” analogo tra italiani e tedeschi, ma con riferimenti evidentemente diversi. Gli italiani che si identificano nella Resistenza e nella Liberazione e i tedeschi che si considerano vittime di due dittature, quella fascista e quella nazista. Una volontà comune di chiudere nell’armadio non solo i delitti, ma anche i luoghi in cui sono stati perpetrati. Il gruppo dirigente della Südtiroler Volkspartei ha cercato fin dalla sua istituzione di emarginare personaggi di primo piano della resistenza sudtirolese di lingua tedesca. Si pensi, per esempio, ad Hans Egarter capo dell’Andreas-Hofer-Bund che spinse per una profonda denazificazione della società sudtirolese, ma che progressivamente venne emarginato politicamente e socialmente. Significativa, in questo senso, anche la vicenda del partigiano di lingua tedesca Giovanni Pircher. Condannato a trent’anni di reclusione dalla Corte d’Appello di Trento e incarcerato nel 1966 a Fossano. Accusato di aver ucciso un capitano dell’esercito tedesco e un membro della Südtiroler Ordnungsdienst; per averne derubato un altro e per aver sparato contro la casa di un altro membro della SOD. Dimenticato in carcere dalla comunità sudtirolese di lingua tedesca e italiana, la sua storia viene raccontata dall’avvocato Lazagna che si trovava nello stesso carcere di Pircher nella metà degli anni Settanta. La storia dell’ex partigiano sudtirolese di lingua tedesca suscitò grande scalpore tanto che l’allora presidente della Repubblica Giovanni Leone gli concesse la grazia.
Fino a questo momento, si è visto come il Lager di Bolzano sia stato associato alla vita disagiata di molte famiglie che vi si erano rifugiate dopo la Seconda guerra mondiale oppure come luogo simbolo per le celebrazioni della Liberazione e della Resistenza. Nelle parole del senatore ed ex presidente dell’ANPI Lionello Bertoldi, il ricordo dell’ex campo di concentramento è strettamente legato alla sua distruzione. L’incontro per raccogliere l’intervista ha luogo il 25 agosto 2004 nell’ex sede della sezione provinciale dell’ANPI, in piazza Gries numero 18, nella “Casa Altmann”, sede dell’Antico Municipio di Gries. Lionello Bertoldi nasce a Levico (TN) il 31 agosto 1928 e nei primi anni Cinquanta si trasferisce a Bolzano. Consigliere comunale e senatore del PCI, nel 1994 si presenta per la carica di presidente della delegazione provinciale dell’ANPI che ricoprirà fino al 2014. Durante il dialogo lo storico Giorgio Delle Donne ricorda la vita delle famiglie che abitavano nel campo di concentramento e la distruzione del complesso negli anni Sessanta.
[00:05:40]GIORGIO DELLE DONNE: Parlando di Lager, siamo alla fine degli anni ’60, il Lager di via Resia era rimasto per 15 anni occupato da famiglie di sfrattati, disoccupati, finché alla fine degli anni ’60 il comune cede quest’area a cooperative per la costruzione di alloggi per gli impiegati del Ministero dell’Interno mi sembra.
[00:06:06]LIONELLO BERTOLDI: Non erano cooperative. 1962, INCIS, dipendenti degli enti pubblici, c’erano altri in consiglio comunale, ma l’abbiamo seguita come presenza del partito. Avevamo seguito il fatto che dentro al Lager c’erano 52 famiglie, circa 200 persone, che vivevano nelle celle, avevano ricavato all’interno di queste la loro abitazione. Come esisteva all’esterno il “Villaggio Lancia”, le baracche di via Genova. Ecco perché quando arrivano le delegazioni da Torino, da La Spezia, da Alessandria e mi dicono: «Ma come? Perché avete lasciato demolire l’interno del Lager?» – «Non abbiamo avuto la forza». C’era un bisogno di case così forte che non abbiamo avuto la forza di opporci alla demolizione dell’interno nel Lager.
Bertoldi ricorda di aver seguito le vicende anche se non era presente in Consiglio comunale; ci entrerà a partire dal 1969. Il suo è un ricordo legato soprattutto all’esperienza nell’ANPI e alla necessità di dare delle spiegazioni alle altre delegazioni sulla mancata opposizione alla distruzione del campo di concentramento. Una pressione come quella della richiesta di alloggi dignitosi è stata evidentemente difficile da sostenere, ma da un passaggio successivo emerge un’altra difficoltà.
[00:08:33] GIORGIO DELLE DONNE: Oltre alla necessità del costruire, cioè a dare l’alloggio a chi non ne aveva, c’era forse anche negli anni ’60 un desiderio di dimenticare il passato recente?
[00:08:44] LIONELLO BERTOLDI: Forse anche questo. Il problema nazionale ha avuto la prevalenza rispetto ad altre indicazioni legittime che ci potevano essere, era prevalente rispetto a tutto quanto. Trovare un orizzonte di convivenza era la priorità, avevamo quel tipo di problema e quindi il resto veniva dopo. Ecco perché non abbiamo avuto la forza di mantenere come monumento nazionale l’interno del Lager. Adesso andiamo a recuperare le memorie, la strage della caserma Mignone, il muro del Lager, il binario, il lavoro coatto sotto l’entrata della galleria del Virgolo, recuperiamo questo tipo di memoria, perché abbiamo maggiore forza e anche l’ambiente lo consente.
Il problema a cui bisognava trovare soluzione era quello del rapporto tra i due maggiori gruppi che abitano la Provincia di Bolzano, cercare di unire due mondi che le vicende storiche avevano contribuito a dividere. Il primo Statuto di autonomia approvato nel 1948 non aveva accontentato la dirigenza del gruppo linguistico tedesco, perché si trattava di un’autonomia regionale con al centro Trento e con un’amministrazione provinciale sudtirolese con poteri molto limitati. Quando, nel 1955, l’Austria riacquista piena sovranità politica, il sostegno al gruppo tedesco in Sudtirolo si fa più incisivo e la questione della minoranza di lingua tedesca viene portata davanti all’ONU. Nel frattempo, il livello dello scontro tra i due gruppi si alza e inizia la stagione degli attentati che durerà fino alla fine degli anni Sessanta. Il pacchetto di riforme per modificare il primo Statuto viene approvato dall’assemblea della SVP nel novembre 1969; un passaggio significativo per l’emanazione del secondo Statuto di autonomia del 1972. Il «problema nazionale» a cui si riferisce Bertoldi può essere proprio quello di risolvere pacificamente la questione dell’autonomia. Il periodo del terrorismo ha inciso sulle priorità politiche del periodo; c’era la necessità di disinnescare una “bomba etnica” che avrebbe potuto avere conseguenze molto gravi. In un’altra intervista, raccolta sempre nell’ambito del progetto “Archivio orale” promosso dalla biblioteca provinciale italiana “Claudia Augusta” il 7 settembre 2004, Lionello Bertoldi riprende l’episodio della distruzione del campo di concentramento aggiungendo un altro elemento significativo:
[00:22:07] GIORGIO DELLE DONNE: A livello nazionale, dopo la Resistenza, dopo il ’48, con l’estromissione delle Sinistre dal governo, viene la Guerra Fredda negli anni ’50, non si ricorda più la Resistenza. […] A livello locale, quanto conta la politica locale, il fatto che subito c’è stata la crisi del primo Statuto di autonomia negli anni ’50 e ’60, quanto conta la situazione politica locale, cioè la crisi del primo Statuto, il terrorismo, gli anni ’60, col fatto di non riuscire poi a elaborare una politica della memoria unitaria fra tedeschi e italiani nel 50 e 60?
[…]
[00:24:47] LIONELLO BERTOLDI: Quando arriva una delegazione a Bolzano e visita i resti del Lager, il muro esterno, che è l’unico monumento nazionale che è rimasto, mi chiedono: «Ma come? Avete lasciato demolire l’interno, i fabbricati del Lager». Allora io devo ammettere che non abbiamo avuto la forza di opporci per questioni di scarso radicamento, di scarsa capacità di indicazione generale e poi anche perché eravamo sottoposti all’enorme pressione, perché mancavano le case a Bolzano. Dentro nel Lager abitavano 52 famiglie, dentro nelle celle abitavano famiglie di bolzanini, dentro nei Block abitavano famiglie bolzanine, c’era bisogno delle case.
La questione dello «scarso radicamento» è interessante. Come abbiamo già avuto modo di osservare durante le celebrazioni della Liberazione a Bolzano, la questione della Resistenza era un fatto tutto italiano. Nel periodo storico preso in considerazione, in cui le divisioni tra i due gruppi si riflettevano sia in ambito politico che sociale, era molto difficile per l’ANPI trovare un ampio consenso. Non si vuole ripercorrere la storia del rapporto tra Resistenza italiana e tedesca in Sudtirolo durante l’occupazione nazista, ma vale la pena ricordare che anche in questo caso si ripropone una separazione, da una parte i partigiani italiani e dall’altra l’Andreas Hofer Bund. Nello specifico, per esempio, il quotidiano “Alto Adige” riprende una polemica dell’immediato dopoguerra riguardante il merito di un’azione di salvataggio di prigionieri delle SS nei pressi del lago di Braies. Sono passati vent’anni da quegli eventi, ma la contrapposizione è ancora forte.
È chiaro dunque che le motivazioni che hanno spinto l’amministrazione ad eleminare l’interno dell’ex campo di concentramento sono diverse. Da una lettura dei giornali dell’epoca non sembra ci sia stato un dibattito sull’opportunità di trasformare la struttura in un «monumento nazionale» per usare le parole di Bertoldi. A questo proposito, è significativo rilevare che nell’aprile del 1965 la Risiera di San Sabba di Trieste viene dichiarata tale e definita «unico esempio di Lager nazista in Italia». Definizione, probabilmente impropria, che non prende in considerazione il Campo di Fossoli, ma neanche quello di Bolzano che in quel periodo risultava in parte integro. Nell’ottobre del 1966, infatti, 30 famiglie vivevano ancora nelle baracche accanto ai primi nuovi alloggi. Il decreto ignora anche il campo di Borgo San Dalmazzo (CN) che sempre in quel periodo è “solo” parzialmente distrutto per far posto ad una scuola media.
Da un punto di vista politico è importante riportare un passaggio di una delle due mozioni presentate in Consiglio provinciale, nel giugno del 1964, dai consiglieri Giuseppe Avancini (PSDI), Ettore Nardin (PCI) e Silvio Nicolodi (PSI).
«… afferma che il problema dell’ex campo di concentramento va risolto con priorità anche per ragioni politico-morali affinché venga cancellata da Bolzano una così dolorosa testimonianza del nazifascismo e delibera: […] di impegnare la Giunta a rendersi anch’essa interprete dell’esigenza di far erigere un domani sull’area dell’ex campo di concentramento un monumento che commemori coloro che ivi ebbero a soffrire per la causa della libertà e che, al tempo stesso, sia un simbolo di pace e di concordia per le genti dell’Alto Adige».
Parole che riflettono una volontà diffusa in quegli anni. «La furia di cancellare e costruire era anche la furia di dimenticare, di ripartire, rinnovare la vita», una fase particolare della memoria, figlia di un tempo in cui il silenzio delle istituzioni e quello di chi aveva sofferto in prima persona si alimentano a vicenda. Un periodo in cui l’esperienza di questi ultimi veniva assimilata a quella dei partigiani. Il campo di concentramento di Bolzano non sfugge a queste dinamiche e diventa luogo di commemorazione della Liberazione e della Resistenza, ma anche rifugio per centinaia di famiglie. Un luogo in trasformazione come la memoria che lo avvolge. Simbolo che divide e unisce allo stesso tempo, a seconda della prospettiva di chi lo guarda. Un luogo che diventa “processo mnemonico” per usare le parole di Ann Rigney che sottolinea come «sites of memory are constantly being reinvested with new meaning». Come abbiamo visto, i motivi che hanno spinto l’amministrazione a demolire la struttura sono diversi: le pessime condizioni in cui vivevano le centinaia di famiglie nelle baracche del Lager, un scontro politico ed etnico da attenuare, una tensione politica tra amministrazione locale e Stato per l’emanazione di un nuovo Statuto d’autonomia da allentare e sicuramente uno scarso radicamento sul territorio dell’associazione partigiani d’Italia che aveva interesse a trasformare la struttura in un monumento nazionale. Probabilmente, anche la posizione del campo di concentramento all’interno della città ha giocato un ruolo. Un’idea azzardata, ma è significativo rilevare che il Lager sorgeva in una zona, seppur periferica, in piena espansione edilizia e su una strada, via Resia, già allora considerata una direttrice strategica e di passaggio verso la zona industriale, da una parte, e verso Merano, dall’altra. Il campo di concentramento di Bolzano occupava un’area di forma rettangolare di circa 17.500 mq, potremmo definirla quindi una presenza ingombrante per il quartiere e la città, un ricordo della guerra e della violenza nella quotidianità, una vicinanza probabilmente difficile da sostenere.
In ricordo del Lager rimane oggi il muro di cinta che, a partire dal 1995, è al centro del progetto del Comune di Bolzano “Storia e memoria: il Lager di Bolzano”. Dal 2003, con il vincolo di tutela storica imposto dalla Provincia di Bolzano, sono state intraprese diverse azioni di restauro e valorizzazione della struttura. Recentemente è stato inaugurato il “Muro della Memoria”, un’installazione multimediale su cui scorrono i nomi delle migliaia di deportati nel Lager di via Resia. «Both a monument and its significance are constructed in particular time and places, contingent on the political, historical, and aesthetic realities of the moment». L’auspicio è sempre quello di imparare e capire per agire in una prospettiva transnazionale.