Il libro di Stefania Catallo mette insieme otto storie di donne raccolte nel corso di oltre dieci anni di ricerche. Obiettivo dichiarato del testo è trasmettere «il senso della tragedia vissuta» dalle donne ciociare e tutti i segni che essa ha «lasciato nelle vite di coloro che ne sono stati travolti» attraverso la «testimonianza viva e attuale del dramma» affinché non accada mai più, da nessuna parte.
Le storie appartengono a tre tipologie distinte. La prima comprende il maggior numero di contributi e riporta episodi autentici di donne vittime dei stupri (non si tratta di trascrizioni, ma di stesure delle testimonianze rilasciate all’autrice); la seconda riguarda un racconto, Francesca, ispirato da una testimonianza contenuta nel libro di Antonio Riccio sulle violenze dei goumiers; all’ultima tipologia, un racconto di fantasia, appartiene il racconto Maria Maddalena.
Il libro si apre con il proclama del generale Juin e solleva da subito la questione della “carta bianca” concessa dalle gerarchie militari ai soldati marocchini (diritto di stupro e di saccheggio) come ricompensa per lo sfondamento della linea Gustav. Pur nella brevità del testo, appare il tema della responsabilità dei soldati sul campo e dei loro superiori e di cosa significò all’atto pratico la concessione del “diritto” di preda per le popolazioni.
Seguono le testimonianze, identificate dal solo nome proprio delle testimoni, compendiate da brevi commenti alla fine di ogni capitolo che inquadrano i fatti e le dinamiche delle violenze, le conseguenze e gli strascichi di breve e lungo periodo nelle vittime e nelle comunità sul piano emotivo, sociale e culturale. Queste pagine, tra le quali vi è la storia particolarissima di una suora, contengono gli elementi più interessanti. Emerge un mosaico sfaccettato e complesso di figure femminili vivissime dal quale traspare la dignità delle vittime – conservata nonostante il marchio che lo stupro ha comportato e nonostante tale dignità sia stata spesso negata – ed emerge il desiderio di portare avanti la loro esistenza senza lasciarsi sopraffare. Si ritrovano figure di donne “combattenti”, determinate, che sacrificano tutto – specie se madri – per salvare le proprie figlie. Colpiscono le descrizioni vivide delle violenze e la lucidità delle donne che comprendono quanto sta accadendo e quali conseguenze si presenteranno. Si distinguono poi i tentativi di mettersi al riparo, di nascondersi in casa o sulle montagne, nei boschi, nelle grotte ed emerge la dimensione intimamente religiosa di molte protagoniste. Sono citate le conseguenze fisiche delle violenze e le malattie derivanti con cenni alla scarsezza di mezzi (morali e materiali) per curare fisicamente e psicologicamente le vittime. Talvolta traspare una forma di fatalismo e di rassegnazione come nel racconto della storia di Leda: «Il nostro piccolo paese era stato devastato, e alcune di noi erano state pigliate dai marocchini. Non potevamo far altro che ricostruire le nostre esistenze e così fu. Dopo qualche tempo, a pericolo scappato, tornammo nelle nostre case cercando di ricominciare e dimenticare, perché certe cose è meglio lasciarle alle spalle altrimenti non vivi più».
L’autrice porta alla luce anche le conseguenze delle violenze a livello sociale e familiare dove, per i concetti di onore e dignità maschile, le donne diventano vittime una seconda volta; nel trattamento loro riservato dai maschi della comunità (padri, fratelli, mariti, ecc.) avviene un rovesciamento che le fa passare da vittime a colpevoli condannandole a subire ulteriori violenze e discriminazioni. Anche da queste dinamiche emerge il senso isolamento e un senso di colpa opprimente tanto che il suo superamento o la semplice prospettiva di un futuro sono resi possibili soltanto lontano dal luogo della violenza.
Nelle donne che tentano o che resistono in modo eroico alle violenze l’autrice rintraccia le protagoniste di una forma non “tradizionale” di Resistenza. Pur considerando il coraggio ed il fine della loro battaglia, la definizione pare però non del tutto coerente poiché nel caso specifico la violenza non fu quella dei nazi-fascisti, ma dei liberatori; cade il presupposto fondamentale della Resistenza come militanza e lotta (intese nel senso più ampio) contro il nazi-fascimo.
L’ultimo racconto, frutto di fantasia ed intitolato Maria Maddalena, è funzionale a ribadire il concetto che vede nelle vittime delle violenze delle eroine per il dolore che hanno portano e per la dignità che hanno saputo esercitare nel quotidiano. Le marocchinate sono definite la «metafora dell’Italia violentata dalla guerra, e ancora senza giustizia». Questa immagine serve a far comprendere che le dinamiche e le conseguenze delle violenze a livello locale, la latitanza dello Stato, le difficoltà culturali ed antropologiche hanno reso e rendono difficile metabolizzare e comprendere questi eventi.
Il libro si chiude con gli atti dell’interrogazione parlamentare di Maria Maddalena Rossi al sottosegretario di Stato al tesoro Tessitori del 7 aprile 1952. Anche questo è un documento prezioso per analizzare le dinamiche della rimozione e reca gli elementi per comprendere quanto successo dopo le violenze, le negazioni, gli ostruzionismi della burocrazia, le imposizioni delle forme mentali e culturali sulla guerra e sulle sue dinamiche e conseguenze, le difficoltà affrontate per accedere alle indennità alle parificazioni al riconoscimento ed all’accettazione del fenomeno.
L’impatto della narrazione travalica il tempo e lo spazio e colpisce oggi come allora. Il libro si legge rapidamente ed altrettanto rapidamente fa calare nelle dinamiche descritte suggerendo con garbo e profondità un insegnamento prezioso.
Recensione a cura di Fabio Verardo.