Ludivine Bantigny, Le plus bel âge? Jeunes et jeunesse en France de l’aube des “Trente Glorieuses” à la guerre d’Algérie, Fayard, Paris 2007, pp. 498.
recensione di: Andrea Brazzoduro
«Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita»: così si apre Le plus bel âge?, con la celebre frase del giovane precettore Paul Nizan (1905-1940), di ritorno da un lungo soggiorno nello Yemen (Aden Arabie, Rieder, Paris 1931, p. 11). Rielaborazione di una tesi di dottorato condotta sotto la guida di uno dei migliori specialisti della histoire culturelle d’oltralpe (J.-F. Sirinelli, IEP Paris), la ricerca pone al centro dell’indagine la generazione di francesi nati tra il 1932 e il 1942, compresi nella fascia d’età dei 14-22 anni, che all’epoca corrispondono grosso modo all’ingresso nel mondo del lavoro e al termine del servizio militare. Con grande consapevolezza metodologica, l’A. mette a fuoco il proprio oggetto oltre la semplice classe d’età (biologica): infatti «le generazioni, come è noto, non esistono in natura» (G. Sabatucci, «Parolechiave», 1998, n. 16, p. 115). Sono tre i catalizzatori che concorrono alla «misteriosa alchimia» che crea la generazione nella e per mezzo della congiuntura storica: a) nel dopoguerra i giovani diventano oggetto di sapere scientifico e di specifiche politiche di disciplinamento da parte dello Stato; b) assistono partecipi alle profonde trasformazioni socioeconomiche che portano la Francia nell’epoca trionfante della tecnica e del consumo; c) dopo un’infanzia segnata dalle miserie della seconda guerra mondiale («l’esodo e l’Occupazione, il freddo e la fame, i bombardamenti, gli arresti, le privazioni materiali ben oltre la fine del conflitto», p. 35), si trovarono gettati, ancora adolescenti, in un’altra guerra, quella d’Algeria (1954-62). Lo choc dei due conflitti fu senz’altro determinante nel forgiare la «coscienza di un’identità generazionale» (p. 16): per quelli che combatterono la guerra con il contingente di leva come per quelli che vi si implicarono o vi si opposero, nelle riunioni politiche, nei licei, nelle università. Poi, la generazione immediatamente successiva, quella del maggio, prenderà tutta la scena per sé. La decolonizzazione era ormai un fatto compiuto (prima ancora che un’ubriacatura ideologica) e la génération des djebels risultava incomprensibile, come venuta da un altro mondo (e lo era), meritandosi da parte dei più giovani uno sguardo diffidente, alle volte canzonatorio quando non di violenta accusa.
La gamma delle fonti d’archivio maneggiate dall’A. è quanto mai vasta: ministeri (Educazione nazionale, Gioventù e sport, Interni, Salute, Lavoro), licei, tribunali, esercito, partiti, sindacati, associazioni e diocesi. A queste vanno ad aggiungersi le fonti “classiche” della storia culturale, come quotidiani e periodici (anche locali), trasmissioni televisive e film (analizzati con grande finezza). Il tutto montato in una struttura argomentativa solida, che grazie anche a una penna particolarmente felice rende facilmente digeribile la mole del volume. Perché parlare qui di questo libro? Perché l’A. si avvale anche di 33 interviste (2 sole donne) da lei realizzate tra il 2001 e il 2006 (cioè all’epoca del laptop wifi e dell’ipod), ma poi sorprendentemente montate come se fossero coeve ai fatti narrati, quelli del transistor e delle prime TV in bianco e nero. Proprio nel caso di una ricercatrice così avvertita nel maneggiare gli attrezzi “tradizionali” del mestiere, l’ignoranza dei rudimenti della storia orale appare rivelatrice di quella cattiva abitudine – ancora diffusa anche nella storiografia francese – che neutralizza la fonte orale nel registro dell’accessorio, del decorativo. (Andrea Brazzoduro)