di Yodit Estifanos Afewerki, Elena Maraviglia, Riccardo Preda e Giulia Zitelli Conti
Pubblichiamo la presentazione del progetto “Harnet Streets: contro-mappe eritree in Roma”, promosso dall’Associazione Tezeta, di cui le autrici e l’autore di questo articolo fanno parte, e sostenuto da AISO. Il progetto è vincitore del bando Vitamina G nell’ambito del programma GenerAzioniGiovani.it finanziato dalle Politiche Giovanili della Regione Lazio con il sostegno del Dipartimento per la Gioventù.
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Viale Eritrea, via Libia, via Somalia, via Tripolitana, piazza Gimma, via Asmara, via Addis Abeba, via Adua, via Senafè, via Makallè…. Siamo nel II Municipio di Roma, all’interno del quartiere Trieste e più precisamente nel “quartiere africano”: un quadrilatero di città così comunemente chiamato non per via di una rilevante presenza multietnica, ma in ragione di un’odonomastica che evoca luoghi ed eventi del passato coloniale italiano. A stabilire tali intitolazioni sono state infatti una serie di delibere comunali approvate tra il 1920 ed il 1937, con una significativa eccezione temporale: l’attribuzione di via Dancalia avvenuta nel maggio 1960. È in questo paesaggio metropolitano che si snoda Harnet Streets: contro-mappe eritree in Roma, un progetto che abbiamo lentamente costruito nel corso degli ultimi tre anni, a partire da un’idea di Riccardo ed Elena, maturata nel corso di esperienze lavorative con minori eritrei non accompagnati, e successivamente raffinata mentre si univano al gruppo Yodit e Giulia. Il progetto, finanziato dal bando Vitamina G della Regione Lazio e sostenuto da diversi enti – tra cui l’Archivio memorie migranti, AISO, CRS Caritas Roma, Officina Griot, Cies Onlus MaTeMù, Associazione Proletari Escursionisti, Odv RaccontarsiRaccontando, Aps Sinergie Solidali – ha come obiettivo la creazione di una “contro-mappa” partecipata del quartiere africano che fa dell’odonomastica coloniale uno stimolo narrativo e l’oggetto di un passato da problematizzare attraverso pratiche di risemantizzazione collettiva.
Nei mesi passati abbiamo avviato la fase di ricerca e raccolta di documentazione, dedicandoci in particolare alla realizzazione di interviste a persone eritree, residenti o in transito per Roma, registrate durante intense passeggiate nel quartiere. A questo lavoro si affiancheranno prossimamente altre attività: focus groups, circle time, laboratori su mappe cartacee e multimediali. Questi momenti, che vedranno ancora la partecipazione dei testimoni, saranno occasione per approfondire alcuni temi emersi durante le interviste e raccogliere fotografie, musiche e altre tipologie di documenti, che saranno poi archiviati in una mappa interattiva e multimediale, ospitata su un apposito spazio web.
Mettendo in condivisione le memorie dei singoli, vogliamo stimolare il racconto delle geografie affettive e delle storie di vita, anche al fine di favorire la riflessione sull’esperienza migratoria delle persone coinvolte: le soggettività migranti vivono spesso sospese tra molteplici temporalità, luoghi e sistemi di valori. Attraverso questo progetto intendiamo offrire un momento protetto per rielaborare in maniera giocosa il riannodarsi dei fili strappati con l’esperienza del viaggio. La riflessione sul proprio percorso e la narrazione di sé attraverso i luoghi consentono infatti di creare una continuità tra questi differenti universi temporali, geografici e culturali.
Harnet Streets si fa portatore di una valenza storico-politica: il quartiere africano, per lo più esterno ai percorsi dei migranti eritrei, condensa nomi che rinviano ad un altro continente e ad un altro tempo. Manomettendo la mappa del quartiere, però, i nostri co-autori raccontano del loro Paese, di luoghi amati e odiati, di sé stessi, e così facendo ribaltano quel rapporto di subalternità tipico del colonialismo e di una sua scomoda eredità: la subalternità vissuta dai migranti di oggi e il loro essere silenziati nel Paese ospitante. La contro-mappa diventa quindi un’occasione per interrogarsi su e con i luoghi di cui è composta Roma e riflettere insieme su un periodo della storia italiana oggi sempre più indagato e messo in discussione, sia in ambito accademico che in pratiche sociali-militanti – si vedano ad esempio le attività della Federazione delle Resistenze a cui il nostro collettivo aderisce -, ma generalmente ancora poco conosciuto.
Affianco alla contro-mappa, ancora in costruzione, il progetto prevede poi un’altra forma di restituzione: il Trekking UrbAfricano. Si tratta di percorsi aperti alla cittadinanza, organizzati spesso in collaborazione con associazioni ed istituzioni scolastiche e universitarie. Durante i trekking offriamo una sintetica ricostruzione storica dei rapporti tra Italia ed Eritrea, facendo uso di pannelli didattici. Grazie al sistema QR code, i partecipanti ascoltano direttamente dal loro smartphone stralci delle interviste raccolte, precedentemente selezionati in un processo creativo che cerca di tenere conto della complessità dei temi affrontati nelle interviste e della varietà delle esperienze raccontate. Frequentemente, gli stessi testimoni partecipano alle passeggiate interagendo in prima persona con i “camminanti”. Nel primo di questi percorsi, è inoltre previsto un momento ludico durante il quale ci si confronta con i lasciti e le contaminazioni linguistiche.
Il progetto si avvale di diversi approcci metodologici: dalle Parish Maps (le nostrane mappe di comunità) a pratiche formalizzate dalla digital public history (la co-autorialità, la disseminazione storica). Cuce insieme diverse competenze derivanti dai migrant studies, dall’antropologia, dalla mediazioni culturale e dalle scienze dell’educazione, e fa chiaramente grande uso, cosa che qui più interessa, della storia orale.
Al momento abbiamo raccolto una dozzina di interviste a uomini e donne compresi in una fascia d’età che va dai 30 ai 75 anni, originari di diverse regioni eritree, con una prevalenza di origine da Segheneyti e da Asmara, approdati in Italia con percorsi tra loro molto differenti nel 1972, 1978-79, 2000, 2007-08.
Le interviste sono state registrate in piccoli gruppi di 1-2 ricercatori e 1-2 testimoni, tendenzialmente come “storie di vita”, ma anche provocando la memoria utilizzando elementi del paesaggio che hanno quindi orientato il racconto. Ad esempio, su via Asmara ad un certo punto incontriamo un complesso scolastico e cogliamo l’occasione per chiedere agli intervistati di raccontarci la loro esperienza formativa oppure in via Senafè aggiriamo una sbarra che chiude la strada al passaggio dei veicoli e ne approfittiamo per stimolare il ricordo del viaggio, dell’attraversamento dei confini e degli approdi.
La maggior parte delle interviste sono in italiano, alcune testimonianze sono invece in tigrino, tradotte sul momento e/o successivamente da Yodit. Le interviste sono attualmente custodite nell’archivio corrente del progetto, presso Tezeta, saranno poi parzialmente pubblicate sul sito web, nella contro-mappa, e stiamo valutando alcune opzioni di conservazione presso prestigiosi archivi nazionali.
Raccontare l’altrove, attraverso lo sguardo dei migranti, rappresenta un’opportunità importante per decostruire gli stereotipi e i pregiudizi. Harnet Streets lavora sulla sensibilizzazione interculturale: interrogarsi sul paesaggio può agire come “mediatore”, potenzialmente capace di contribuire a rimuovere gli ostacoli culturali e a favorire lo scambio e la comunicazione tra culture diverse. In questo senso l’attenzione ai luoghi di origine è importante per favorire il superamento delle stereotipizzazioni che ancora troppo spesso li descrivono come spazi “vuoti e muti”, de-socializzati, de-storicizzati e privi di territorialità umana.
La conoscenza dell’altrove porta al progetto un valore aggiunto, emerso durante gli incontri di progettazione svolti con persone eritree residenti a Roma: la contro-mappa darà la possibilità anche ai giovani eritrei, nati e cresciuti in Italia, di approfondire aspetti del proprio Paese di origine. Una conoscenza e uno scambio intergenerazionale che esce dalle mura di casa e dai racconti della propria famiglia, permettendo un intreccio di storie su più livelli: quello fra le microstorie – regionali, etniche, religiose, ecc. – e quello fra quest’ultime e la “storia dei manuali”.
Riferimenti bibliografici:
B. CASTIGLIONI, Paesaggio e popolazione immigrata: il progetto LINK, Dipartimento di Geografia – Università di Padova, n. 30, Padova, 2010;
C. BRAMBILLA, L. MORI, Paesaggi originari. Rappresentazione degli spazi di vita nell’infanzia, in G. CEPOLLARO, U. MORELLI (a cura di), Paesaggio lingua madre, Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A., Trento, 2014;
L. RICCI, La lingua dell’Impero, Carrocci, Roma, 2005.