Memorie femminili dell’industrializzazione in Sardegna centrale è un contributo di Francesca Atzas, laureata in Studi mediterranei tra l’Università Ca’ Foscari di Venezia e l’Università Paul Valéry di Montpellier, socia AISO, membro di Paesaggio Gramsci (associazione per il Parco letterario), curatrice dell’archivio digitale sulla memoria operaia della fabbrica di Ottana www.storieoperaie.it
È la prima estate della pandemia, sono da poco rientrata da Giaffa dove mi ha portato una ricerca sulla memoria palestinese in Israele e su Zochrot, associazione israeliana che indaga e diffonde quella memoria con l’intento di rimettere in discussione la storia nazionale dello Stato ebraico.
Mi accorgo di sapere poco del territorio che ho lasciato qualche anno fa, quasi nulla della fabbrica di Ottana che sta a dieci minuti di macchina da casa mia, quando un amico mi propone di iniziare a intervistare assieme chi vi lavorò, gli ex operai, a cinquant’anni dall’insediamento dell’industria petrolchimica nel centro Sardegna, nell’ambito di quello che fu il Piano di Rinascita dell’isola (L. n. 588 dell’11 giugno 1962) finanziato dalla Cassa per il Mezzogiorno. Ero bambina quando ancora se ne sentiva parlare nei telegiornali, nei primi anni 2000: era l’ultima fase, quella in cui gli operai esibivano gli striscioni davanti al palazzo della Regione o al ministero a Roma. Tuttora i racconti associati alla fabbrica nei paesi che come il mio la circondano hanno a che fare con le falde acquifere inquinate, l’amianto, i rifiuti tossici e la moria dei pesci nel Tirso, la cassa integrazione, la delocalizzazione, il fallimento.
Il conflitto tra storia e memorie emergerà presto anche in questa ricerca, in questo territorio che percorro adesso quasi da estranea, giovane donna, femminista. L’idea di raccogliere questa memoria, raramente interrogata e sollecitata, è di Umberto Cocco, ex giornalista del Manifesto, a lungo segretario del Pci per la provincia di Oristano: da tempo si occupa di memoria operaia seguendo le tracce dei sardi emigrati in Belgio e lì divenuti minatori, o quelle degli operai impiegati della costruzione della diga di Ula Tirso in epoca fascista. Le nostre posizioni rispetto al terreno di ricerca sono opposte: lui tiene i contatti, conosce nomi, date, avvenimenti, sigle, meccanismi politici e sindacali. Sua è la voce, per me si tratta di una ri-scoperta del territorio e delle persone, di un avvicinamento all’oralità come pratica di ricerca, cura, narrazione.
Chiunque nei paesi attorno a Ottana ha un amico, un familiare, un conoscente che ha lavorato in fabbrica. Quell’esperienza umana ed economica fa parte, seppur in modo controverso, della realtà e dell’immaginario collettivo, delle memorie delle comunità che abitiamo.
Mio zio lavorò in fabbrica per una decina d’anni, ma proprio nel momento iniziale di questo progetto affronta il primo stadio di una malattia, la Sla, che rende difficile il distacco dalla corporeità per indagare la memoria, motivo per cui la sua intervista non verrà mai condotta. Lasciò il lavoro da operaio prima che iniziasse il periodo di cassa integrazione, per cercare lavoro altrove, insofferente a regole e ritmi imposti – militò in Lotta continua- e questa esperienza viene ancora raccontata nella mia famiglia come l’ennesima occasione sprecata per costruirsi una vita stabile. Si sommano, nel caso di questo mito familiare specifico (Andolfi, 1987), il giudizio sul fallimento individuale e sul fallimento strutturale che la fabbrica rappresentò per tutto il territorio, con il risultato che il secondo sembra quasi alleggerire il primo.
La ricerca ancora in corso ha fin ora preso in considerazione una trentina di esperienze di vita e di lavoro di ex operai ed ex lavoratrici nella fabbrica di Ottana: ci sono le idee e le esperienze politiche, i fatti accaduti, il modo in cui li vissero allora e li interpretano oggi, a distanza di tempo, rispondendo al desiderio personale di unità e unicità narrativa (Cavarero, 1997). Si tratta, per dirla con le parole di Benjamin, di “una serie di immagini, vedute della propria persona in cui l’uomo ha incontrato sé stesso senza accorgersene” (1936, p. 258).
La specificità dei racconti femminili fin ora raccolti e il mio interesse per le storie di vita delle donne, “soggetti imprevisti” della storia (Lonzi, 1974), fa sì che in questo articolo venga presentata una parte della ricerca condotta, quella inerente le testimonianze di quattro ex impiegate intervistate, giovani donne negli anni ‘70 quando furono assunte – erano in totale 300 su 3500 dipendenti, tutte in posizioni amministrative. Accedevano allora, per prime, a uno spazio altro rispetto a quello domestico noto e praticato da sempre, e diventavano in tal senso più simili alle donne della loro generazione che alle loro madri. Si tratta di testimonianze ricche di informazioni che intersecano la vita familiare, quella lavorativa e l’esperienza di genere raccolte seguendo i metodi della storia orale, ovvero considerando la memoria non solo come strumento ma come oggetto di studio prediletto, e i racconti non come resoconti fedeli ma come risultato di una ricostruzione narrativa complessa del passato (Bonomo, 2015).
Uno degli elementi che si ripresenta, nell’analisi di queste interviste, è la narrazione del lavoro fuori casa come mezzo per allentare il controllo genitoriale sui comportamenti e sugli spostamenti. Un controllo volto a preservare l’onore delle figlie femmine e quindi dell’intera famiglia. Assieme a questo, c’è descritto l’entusiasmo per la possibilità di reinventare, nel nuovo spazio di vita, un’idea di donna che fuoriesce dai canoni tradizionalmente pensati e accettati. La fabbrica, per usare le parole esatte di un’intervistata: “era un mondo fuori da tutti gli schemi ai quali eravamo abituate”.
Mio padre era molto severo, sempre ossessionato da queste cinque figlie donne perché era vista come una disgrazia. La donna non contava, inutile dircelo, non contava, era quella destinata – se non in rari casi in cui sono andate a scuola e si sono laureate- a fare la casalinga, a fare la domestica. Era una famiglia senza sbocco la nostra. Lui non era contento che io andassi a lavorare a Ottana. Diceva: noi stiamo vendendo il negozio, perché non rimani a lavorare qui? E invece io dicevo: io ci vado. Ci tenevo proprio a questa cosa. Pensa che c’è una famiglia in paese che hanno fatto studiare solo i maschi. Sono tutti laureati, tutti con posizioni di rilievo. Nessuna donna l’hanno mandata a scuola. Mia sorella, la più grande e la più intelligente, non ti so dire perché ma non l’hanno mandata. Addirittura era venuto a casa questo signor P., il figlio della maestra – scriveva sul Sole 24 ore- implorando mia mamma che la mandasse a scuola. Ma sai, viaggiare a Nuoro, qui era vista come una cosa… Quando sono venute le scuole medie allora mamma non mi voleva mandare perché non ci era andata la grande. Però mia nonna ha detto: la scuola è la grazia di dio che passa. Tutto quello che non ti compra tua mamma te lo compro io. E meno male (…) L’autonomia, essere autonoma, io come donna, come persona, essere autonoma, capito? Ho preso subito la patente, volevo uscire da quella che era, insomma, la donna del paese… Poi avere avuto il contatto con tutti questi uomini lì (in fabbrica) mi ha dato un’altra apertura. (P. B., nata nel 1948 a Orani, nubile, ex segretaria per dirigente in fabbrica, è stata membro della giunta comunale a Orani nel periodo 2005-2010).
I giudizi negativi sociali e familiari sul lavoro femminile sembrano rappresentare, da una parte, un disincentivo a uscire fuori dalla strada tracciata ma si rivelano essere, dall’altra, momenti di tensione essenziali che scatenano atteggiamenti di ribellione e insubordinazione a una domesticità coatta. Interessante, a tal proposito, il fatto che si faccia spesso uso in queste interviste di un linguaggio di conquista (mediante i verbi battagliare, difendere, sfidare) in riferimento al processo di rivendicazione della propria autonomia decisionale per quanto riguarda prima lo studio e poi il lavoro fuori casa.
In questo senso, il lavoro viene descritto come un modo di sottrarsi al controllo sul proprio corpo e sulle proprie azioni, alla sorveglianza costante sulle relazioni intrattenute con l’altro sesso. La fabbrica, mescolando uomini e donne al suo interno, diventa lo spazio dove possono finalmente nascere relazioni e amicizie miste che, in ragione della necessità lavorativa, perdono il senso di promiscuità attribuito loro nel contesto dei paesi di origine.
E’ una nuova libertà di spostamento che oltre a dare accesso a un più ampio raggio di azione, fa maturare consapevolezza di sé e delle relazioni, e porta queste donne a ritagliarsi un ruolo di maggiore autonomia e autorevolezza in ambito familiare, nonché di sicurezza di sé e del proprio valore personale.
Nonostante sia osservabile un’organizzazione dello spazio lavorativo che prevede una segregazione orizzontale (concentrazione delle donne in alcuni settori occupazionali, in questo caso nei ruoli d’ufficio considerati privilegiati, a discapito di quelli di produzione ritenuti prettamente maschili) e una segregazione verticale, tant’è che tra le donne impiegate in fabbrica nessuna ha rivestito ruoli di dirigenza ma piuttosto di supporto, va messo nuovamente in evidenza che queste stesse donne hanno avuto per prime in famiglia l’occasione di superare un’altra segregazione, quella spaziale nel privato per accedere all’extra domestico.
Era troppo bello per essere vero stare otto ore fuori casa, senza vedere i miei genitori che erano sempre con la scure in mano: questo non va bene, questo non si fa. La libertà! Io la cosa che ricordo è che ho goduto proprio della libertà. Uscire di casa alle sette e mezzo del mattino, tornare a casa alle cinque e mezzo di sera senza vederli, senza sentirli dire: cussu est fattu male, cussu est fattu bene, e poite as saludau cussu pizzoccu? ite b’ad cun cussu? Poite fustis chistionande paris? [quello va bene, quell’altro no, perché hai salutato quel ragazzo? c’è qualcosa tra voi? perché parlavate?] Si sono meravigliate alcune persone che mi hanno chiesto cosa ho trovato a Ottana e io ho risposto, la libertà. Mi è venuta così spontanea…e mi hanno detto: lo sa che è la prima persona che mi risponde così? Tutti mi hanno detto: da mangiare. Io se volevo fare un dispetto a mia madre, non mangiavo ed era il più grande dispiacere che le potessi dare. Mi bussava alla porta. Mi chiudevo a chiave se non mi faceva uscire: io non ho fame. Poitte no pappas? [perché non mangi?] Un giorno mi ha detto: po’ s’amor’e Deus, narami itte cheres ca ti fazzo su chi cheres basta chi pappes [per l’amor di Dio, dimmi cosa vuoi mangiare e te lo cucino, basta che mangi]. E io volevo uscire, non volevo mangiare. (N. M., nata a Sedilo nel 1950, ex segretaria per dirigente in fabbrica, vedova di ex manutentore in fabbrica)
Se quindi, da un lato, i luoghi di azione condivisi e le nuove relazioni instaurate dissestano le separazioni di genere conosciute, la fabbrica è pur sempre un contesto quasi totalmente maschile, in cui il corpo della donna risulta essere sotto osservazione. Il disincentivo alla presenza femminile in spazi che le donne non hanno mai occupato prevede allora l’intimazione alla mascolinizzazione corporea intesa come sinonimo di professionalità, serietà, eleganza. Ci sono movimenti, pose, abiti da evitare per non attirare troppo l’attenzione, per non creare disordini. E tuttavia, qualche collega arrivata dal continente, “sindacalizzata”, porta aria di novità, nuovi modi di essere donna e di rivendicare il diritto di scelta sul proprio corpo. Altre maniere di porsi e di esporsi, di sottrarsi al ruolo e alla gentilezza obbligata che ci si aspetta da una donna.
C’era da parte di molti una diffidenza sulla donna che lavorava in fabbrica, però non so quanto fosse fondata sul femminismo o fosse una cosa personale, sugli uomini, magari perché non era stata assunta una moglie o una sorella, oppure per dimostrare a chi voleva essere assunta che non era il caso di farsi assumere, di andare a lavorare in…un puttanaio. Però poi non ci ha creduto nessuno, a queste discussioni. Erano usciti questi titoloni, dei bagni intasati da preservativi e reggiseni, c’era stato questo articolo, il capo del personale aveva detto: Domani non ci sarà nessuno, che facciamo senza le ragazze qua? Domani non ci sarà nessuno. E invece c’eravamo tutte. Poi però vedevi le facce delle persone che ti guardavano male, chi rideva, chi invece diceva: oh, ateru che triballu este in cue. Bagassumene b’ada! [Altroché lavoro, quello è un puttanaio!]. Ed erano stati uomini che avevano fatto fare questo articolo sicuramente, però non sappiamo chi, perlomeno io non mi accorgevo nemmeno, ero talmente disinteressata, facevo il mio lavoro (…) Io rimanevo un po’ antiquata, non ero C. che andava senza reggiseno e quando le avevano detto: Non ci credo che non hai reggiseno – perché aveva il seno molto sodo- si sbottona la camicetta e dice: Adesso ci credi? Là, no nde porto, ite cheres ischire? E como?(…) Questo lo dico per dire che non mi sono mai accorta che ci fosse… anzi c’era apprezzamento da parte degli uomini che ti dicevano: Sempre elegante ma sobria. Una cosa del genere. Invece l’altra esponeva le sue forme in un ambiente di uomini. Addirittura c’è stato un richiamo di una che veniva…allora si usavano le magliette che lasciavano la schiena nuda, il direttore l’ha chiamata e le ha detto: Guarda che non siamo al mare, è un ambiente maschile e non vogliamo questo vai e vieni nell’ufficio. C’è stato anche questo richiamo. Poi non lo so se queste sono fesserie, anche se parlano del periodo. (N. M.)
Ci sono in questi racconti, come specificità di genere, anche le insicurezze del non sentirsi capaci sul lavoro, sempre in relazione a superiori (uomini) altamente qualificati, il timore di non essere all’altezza di occupare uno spazio che non è, come abbiamo detto, scontato occupare.
La sicurezza e il controllo del sé, a volte così accentuati nella sfera familiare e tra le faccende domestiche legate alla cura e alla riproduzione, vengono meno nei nuovi ambienti, tra dinamiche che sfidano la percezione e la costruzione della propria identità.
Io arrivo lì, mi sento inadeguata, naturalmente, al primo impatto, perché ho fatto questo colloquio dove tutto è andato benissimo, duecentodieci battute al minuto, complimenti eccetera, però poi trovarti in un ufficio a lavorare, che non sai da che parte cominciare. E poi piano piano…mi sono inserita abbastanza bene. Abbastanza bene (…) Dopo tre mesi che ho lavorato al ricevimento materiali stavo per licenziarmi perché non mi sentivo idonea. Il capo mi manda a chiamare e io penso: Fine. Finito il tempo di prova, licenziata. Ci vado tremando. E lui: Ho visto il suo impegno nell’eseguire il lavoro, la sua serietà eccetera, mi hanno confermato il diritto ad avere una segretaria e io ho scelto lei. E comente fatzo como? [E adesso come faccio?] Dovevo inventarmi un ufficio, mio, me lo dovevo creare con tutto quello che comportava, essendoci solo tre mesi mi sembrava una cosa… anche se oggi ci rido sopra. (N. M.)
I primi giorni mi ricordo con emozione e anche con preoccupazione, perché non sapevi mai cosa ti chiedevano di fare, in questo palazzo di vetro… i dirigenti erano tutti di fuori, tutti gran signori quindi rimanevi un po’ come la bambina o la ragazzina che… poi però pare che mi sono subito adattata. (P. B.)
Io ero una ragazzina, quindi mi son trovata con queste persone come dicevo, delle persone… come spiegare, un po’ di timore l’ho avuto perché non sapevo se potevo essere in grado di farlo, sapevo usare la macchina da scrivere, sapevo stenografare, ero tranquilla diciamo, però l’impatto…hai un po’ di paura, persone di un certo livello, un po’ ti mettevano soggezione, diciamo (…) Sono stata accolta dal capo del personale che era di un paese vicino a Lucca, era toscano, un uomo altissimo, molto bravo e buono e quindi mi ha messo a mio agio (…) Ma quando sono arrivata, a me incuteva soggezione anche la sua sola voce. Alzavo il telefono della mia scrivania e sentivo: «Valle. Può venire un attimo?», io mi sentivo con le gambe tremanti, perché era una persona come pochi, veramente. (E. M., nata a Sarule nel 1954, ex segretaria per dirigente in fabbrica, vedova di ex quadro in fabbrica)
Le difficoltà della doppia presenza, ovvero di coordinazione del lavoro fuori casa non solo con il lavoro domestico ma anche con il carico mentale domestico (M. Haincault, 1984), vengono descritte con precisione nelle interviste raccolte. Si tratta di difficoltà che, in un dato momento, fanno apparire desiderabile ri-acquisire lo status di mogli e madri a tempo pieno, tant’è che la cassa integrazione viene descritta come un periodo di tregua più che come un evento legato a un trauma identitario, cosa che si può invece osservare in numerose esperienze di vita maschili raccolte. Questo sembra avere senso se assumiamo che il modello “male breadwinner” (K. Gerson, 1993), dell’uomo che detiene tutto il peso economico e del sostentamento della famiglia, è quello entro cui agiscono le persone intervistate. Per queste donne, il lavoro è piuttosto un elemento aggiunto e quasi insperato nella loro biografia individuale, uno dei tanti aspetti che compongono l’intreccio identitario nel quale la dedizione agli affetti e la cura occupano una posizione centrale. Di conseguenza, ai vantaggi economici che derivano dal lavoro delle donne si può rinunciare se questi non corrispondono o non si incastrano più con le esigenze familiari.
Rientravamo alle cinque e mezzo di sera a casa. Ma mio marito molto spesso rimaneva lì; ad esempio se c’era un guasto alla centrale mica potevano bloccare tutto. Quindi lui restava (…) Io quando sono andata via, sono andata in mobilità per un anno e poi sono andata in pre-pensionamento. Siccome avevo cinquantasette anni, allora c’era quella legge per cui potevi andare con ventotto anni di contributi, però naturalmente venendo penalizzato per la pensione, perché mi hanno abbattuto due o tre punti e quindi mi hanno dato una pensione più bassa. Ho fatto questo ragionamento: io anche se vado via dopo e prendo una pensione più alta lo stipendio lo spendo per pagare qualcuno che stia a casa al posto mio. E così avevo scelto di stare a casa io personalmente. (M. M., nata nel 1943, ex segretaria nell’ufficio distribuzioni, vedova di ex operaio)
La decisione viene raccontata secondo il senso della logica familiare ed economica, e mai viene messo in discussione il binomio privato/femminile pubblico/maschile, con la conseguenza che tra coppie formate da persone impiegate nella stessa azienda (è il caso di tre delle quattro donne intervistate) sono le donne, all’esigenza, a rinunciare al lavoro fuori casa. Se non fosse, però, che l’orizzonte di vita femminile si restringe nuovamente, lo spazio di movimento conquistato si contrae in nome dei figli, del loro inserimento scolastico, del carico domestico, il raggio di azione torna a essere ristretto e questa volta con le insofferenze dovute al fatto di aver visto e agito in mondi altri e in altri contesti di socializzazione.
Nel 1981 è nata mia figlia, nel 1984 il mio primo figlio. Io sono andata in cassa integrazione nel 1985. Non perché mi avessero…non mi potevano obbligare, perché ero tutelata dal bambino piccolo, noi donne eravamo tutelate da quel lato, sinché il bambino non avesse compiuto un anno, e anche quando eravamo incinte, non potevano né trasferirci, licenziarci, né metterci in cassa integrazione. Però io non stavo bene, allora avevo chiamato il capo del personale, e gli avevo detto: Se dovete mettere qualcuno in cassa integrazione scegli me perché non sto bene (…) Comunque un po’ mi dispiaceva e quindi ho lasciato il cordone ombelicale attaccato. Perché avevo il conto nella banca dello stabilimento, i bambini li mandavo nelle colonie dell’Eni, ma…pensavo che la cassa integrazione sarebbe durata tre anni, mi sarei cresciuta i bambini e poi sarei tornata al lavoro (…) Però poi non me la sentivo lo stesso, erano in due, i bambini…visto che c’è questa possibilità di fare tre anni di cassa integrazione me li faccio, poi torno. E poi non sono più tornata. Non mi hanno più chiamato, solo alla fine quando mi facevano le proposte: Tu te ne vai, noi ti diamo l’incentivo. E io ho detto: No, mi dispiace, io voglio il posto di lavoro, no voglio l’incentivo. I bambini erano diventati grandi e io non avevo un lavoro e allora avrei potuto lavorare, perché quando i ragazzi cominciano ad essere chi alle superiori, chi alle medie, comunque non mi sentivo più così indispensabile. (N.M.)
Abbiamo dovuto fare una scelta perché io non potevo stare…altrimenti avrebbero detto che ero una delle favorite perché lavoravo al personale, segretaria del capo del personale (mio marito). E niente, abbiamo deciso che io sarei andata in cassa integrazione, non sapendo come andava a finire (…) Innanzitutto avevo già un figlio, in attesa della seconda non mi potevo certo permettere di starmene fuori casa e lasciare i figli ad altre persone, perché noi partivamo la mattina alle 7.30 e rientravamo io dopo le 5 e mio marito arrivava a casa alle 8, alle 9, la sera. Si trattava di stare fuori casa tutto il giorno, quindi con l’idea della famiglia, bisognava fare una scelta, o il lavoro o la famiglia, e avevo deciso di stare a casa anche se il primo periodo ne ho risentito molto, mi mancava il contatto con le persone e il fatto anche di uscire di casa e di andare in un contesto molto diverso dove si affrontavano problemi e dove vivevi quasi tutto il giorno con persone di altre culture. Questo è stato un arricchimento ed è sempre un arricchimento il fatto di vivere con altre persone e di avere rapporti. (E.M.)
In ultimo, sembra importante osservare il fatto che mai nelle interviste si faccia riferimento al “noi” collettivo femminile, né alla parola emancipazione in riferimento al cambiamento avvenuto con l’accesso al lavoro di fabbrica, nonostante questo termine fu fondamentale in altri contesti lavorativi a cavallo tra gli anni ‘60 e ‘80 nei quali già si erano insinuate, parallelamente alla lotta di classe, le lotte e le rivendicazioni femministe. Eppure, sembra che numerose espressioni emerse quali libertà, apertura, nuovo mondo, nuove relazioni, indipendenza, ripetute così spesso nelle interlocuzioni, vengano usate come sinonimi del termine emancipazione e che descrivano la percezione di cosa fu quel mondo e di cosa fu viverlo come una conquista, anche in quanto donne. La conquista del diritto a modificare la propria traiettoria di vita, dunque, che è in fondo il significato della parola emancipazione.
Bibliografia:
Benjamin, W., Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov, Torino: Einaudi, 2011.
Bonomo, B., Voci della memoria. L’uso delle fonti orali nella storia. Roma: Carocci editore, 2013.
Cavarero, A., Tu che mi guardi tu che mi racconti, filosofia della narrazione. Roma: Castelvecchi, 2022.
Federici, S., Il punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista. Verona:
Ombre corte, 2020.
Gerson, K., No Man’s Land: Men’s Changing Commitments to Family and Work. New York: Basic Books,
1993.
Haicault, M., La Gestion Ordinaire de La Vie En Deux.Sociologie Du Travail 26, no. 3 (1984): 268–77.
Lonzi, C., Sputiamo su Hegel. Milano: Scritti di Rivolta Femminile, 1974.
Oppo, A., Falqui, V., Le donne viste dalle donne – Materiali per una lettura della vita delle donne in
Sardegna negli anni Novanta. Commissione regionale per le Pari Opportunità tra uomini e donne, 2000.