Pubblichiamo qui alcune riflessioni di Enrico Ruffino sul processo di soggettivizzazione della scrittura storica, nodo al centro dell’ultimo libro di Enzo Traverso (La tirannide dell’io. Scrivere il passato in prima persona, Roma-Bari, Laterza 2022) cui lo stesso Ruffino ha dedicato ultimamente una recensione su questo nostro sito.
Soggettività neoliberali?
Nella recensione, pubblicata su questo sito, avevo concluso riportando il nucleo davvero centrale della riflessione di Traverso, ossia la relazione che, secondo l’autore, intercorre tra il sistema neoliberale e il processo di soggettivazione della scrittura storica. Secondo lo storico, il neoliberismo non è un modello di società fondato sulla deregulation ma una «ragione del mondo» che stabilisce una condotta di vita, «una serie di principi, come la competizione generalizzata e il rimodellamento dei rapporti sociali secondo le regole del mercato, ma anche la trasformazione degli individui, indotti a programmare la propria esistenza come una strategia esistenziale». Una «ragione del mondo» di cui evidentemente la scrittura soggettivista è impregnata. A mio avviso, qui si pone un problema relativo al rapporto tra post-modernismo e neoliberismo in relazione al sapere storico. Non è anzitutto chiaro come Traverso intenda il rapporto tra i due. Dalla sua argomentazione, sembra che voglia schiacciare il neoliberismo sopra la post-modernità e ridurre quest’ultima a una corrente culturale accessoria, peraltro riconducibile ad un ambito disciplinare. Il passaggio dal collettivo all’individuale, dalla classe all’identità, dalla struttura al sentimento, è un passaggio epocale perché ha condizionato le modalità con cui l’uomo ha guardato a sé stesso, alla sua storia e al suo sentirsi nel mondo. Si tratta del modo con cui egli ha mutato la sua esistenzialità. Pertanto, sarebbe forse un errore ridurre questa mutazione al solo neoliberismo che invece dovrebbe essere connesso e analizzato in relazione alla trasformazione antropologica dettata dalla mutazione del moderno. Se la grande cavalcata della modernità novecentesca si era caratterizzata per la creazione di grandi sistemi di pensiero capaci di offrire allo stesso tempo certezze e speranze, creando quindi un «regime di storicità» che articolava le temporalità sul futuro, la fine di questo tipo di modernità, che ha quindi coinciso con la fine dei grandi movimenti ideologici, ha prodotto una modernità altra ormai priva di ogni solidità, di ogni proiezione verso il futuro, tutta contratta all’interno del proprio presente. Come è stato notato, se la modernità era caratterizzata da un primato assoluto dell’universale sul particolare, la postmodernità ha ribaltato completamente questa visione imponendo un primato del particolare sull’universale. La postmodernità si celebra quindi in quanto rilegittimazione dei diritti del particolare, finalmente ‘liberato’ dall’ipoteca di universali di qualunque sorta. Mi pare quindi che la questione sia tutt’altro che chiara e anzi risulti problematica perché stiamo parlando di un fenomeno che riguarda una condizione antropologica dell’uomo. Per questo, ritengo che schiacciare l’importante questione della soggettivazione solo su un mutamento del capitalismo, il neoliberismo, possa apparire quantomeno riduttivo. Semmai ci si può chiedere se il capitalismo, vista prima l’eclissi e poi la sconfitta del marxismo, si sia plasmato sul nuovo modello esistenziale dell’uomo moderno producendo un tipo di società come quella neoliberale. La post-modernità, veniva notato già alla fine degli anni Settanta, non è una corrente di pensiero ma una condizione umana1. Piuttosto che una questione di tendenza culturale, essa appare come una questione di antropologia sociale. Ciò si vede molto bene in alcune tendenze della storiografia italiana, presto divenute internazionali, che in questa condizione si trovarono a seguito della fine di una stagione di lotte terminata con una pesante sconfitta. Dico questo perché la fine della stagione dei grandi movimenti politici, sociali e di classe, unita alla torsione terroristica e alla conseguente repressione statale, ha lasciato, almeno in Italia, intellettuali militanti e militanti di base della nuova sinistra spaesati ed impauriti dinanzi a quel vuoto ermeneutico-esistenziale. Gli storici non ne furono esenti. Le risposte a questa crisi furono diverse per identità di genere, ruolo sociale e per vicende personali. Ma vale la pena osservarli e differenziarli perché significativi di questo mutamento antropologico.
Dalla militanza alla ricerca
Nel 1976, Sergio Bologna e Cesare Bermani, i due principali animatori della rivista di storia militante «Primo Maggio», presentarono una relazione, ad un convegno a Bologna dedicato ad Antropologia e storia, in cui sostenevano che «il soggetto non è più la voce del collettivo ma è proprio come entità individuale contrapposta al collettivo che acquista la sua valenza storica e politica»2. Nello stesso anno, Carlo Ginzburg pubblicava con Einaudi Il formaggio e i vermi, l’opera con cui generalmente si fa inaugurare, nonostante l’autore non l’avesse concepita consciamente come tale, l’intensa stagione microstorica. Nel 1977, «Quaderni Storici» dedicava un intero numero della rivista alla «Oral History: fra antropologia e storia» e in quello stesso numero Edoardo Grendi scriveva un saggio intitolato a «microanalisi e storia sociale»3. Nel 1978, Maurizio Gribaudi rifletteva sull’uso delle fonti orali in riferimento alla struttura del racconto autobiografico, rivelando «l’importanza della valutazione che la struttura del racconto e i meccanismi di memorizzazione consentono di una cultura»4. Ma è con l’affacciarsi degli anni Ottanta che la crisi della sinistra prende la forma in ambito intellettuale di un sempre più sintomatico malessere epistemologico. Nel 1979, sempre Carlo Ginzburg pubblicava Spie. Radici di un paradigma indiziario. Questo testo viene comunemente ricordato come una pubblicazione interna a un volume, curato dal filosofo Aldo Gargani, intitolato, in maniera davvero icastica, La crisi della ragione5. Quello che non viene invece mai sufficientemente ricordato è che la prima versione di questo testo non era stata pubblicata in chissà quale rivista dell’universo storiografico e accademico ma all’interno di «Ombre rosse», la rivista militante, interna all’area della nuova sinistra, diretta da Goffredo Fofi6. Questo saggio, che rintracciava le origini di un paradigma d’indagine che privilegiava un approccio sintomatico agli oggetti di studio e mirava a uscire dalle secche della contrapposizione tra razionalismo e irrazionalismo, avrebbe suscitato grandi apprezzamenti e pesanti critiche7. Critiche che non si sarebbero limitate all’ambito prettamente accademico.
Nel 1980, a tal proposito lo storico Emilio Franzina rifletteva polemicamente sugli «smarrimenti di Clio». Pur riconoscendo che «disagio metodologico e malessere conoscitivo, intrecciandosi con altre cause di smarrimento più contingenti, non attraversano da oggi le file della storiografia italiana», osservava che «la crisi che sembra aver investito da ultimo il mondo degli studi storici non è di quelle passeggere, e poiché dà luogo a polemiche e a beghe scientifico-accademiche puntualmente rimbalzate sulle pagine dei maggiori giornali, merita di essere segnalata qui se non proprio, cosa impossibile, di essere analizzata in tutti i suoi dettagli»8. Franzina si riferiva in questo caso a quel fenomeno, davvero spiazzante se osservato con gli occhi di oggi, in cui complesse discussioni interne alla disciplina storiografica travalicavano i confini delle riviste scientifiche per approdare nei rotocalchi politici. Così, ad esempio, lo storico Furio Diaz poteva attaccare pesantemente Carlo Ginzburg e i microstorici dalle pagine de «L’Espresso»; mentre Nicola Tranfaglia poteva, invece, dubitare delle «ambizioni spropositate» e denunciare il pericolo di acriticità degli storici orali dalle colonne de «La Repubblica»9. Ciò veniva inteso da Franzina come un sintomo del «profondo malessere che pervade oggi le strutture della ricerca e quanti, a titolo diverso la fanno funzionare». Mettendosi su un terreno di questo genere – continuava lo storico vicentino – riesce forse più facile «intravedere alcuni motivi marginali del contendere e risalire da essi ai risvolti pratici e alle ragioni storiografiche del più generale disagio»10. Lo studioso notava, insomma, come le proposte innovative nate dalle macerie della nuova sinistra, pur non risolvendo il «problema di tipo euristico e conoscitivo», minacciavano, con la loro articolazione nella realtà concreta, di sconvolgere «i più consolidati equilibri di scuola e di corrente, di spartizione degli spazi editoriali e di accesso agevolato ai mass media, di prestigio accademico e di potere universitario». Ne concludeva che l’irrompere di tante novità acuiva, amplificava ma rendeva più chiara la crisi della storiografia che in fondo era caratterizzata, come aveva già osservato acutamente Silvio Lanaro, dal «venir meno di tutti i linguaggi appresi» che producevano una «egemonia vacante» da parte della sinistra, dei marxisti, dagli storici del movimento operaio ma vacante pure dalla parte della storiografia liberal-borghese11. Si trattava di una crisi che coinvolgeva tutti: una crisi di epistemologia generale, un vuoto determinato da un turning point quale era quello della fine di un determinato tipo di modernità12. Di questo vacuum erano infatti ben consci quegli studiosi che, dopo un ventennio di militanza a sinistra, sentivano il bisogno di riempire i vuoti. Nel 1981, alcuni tra i più importanti storici afferenti alla nuova sinistra si riunivano attorno a un convegno che aveva come obiettivo quello di tirare le somme di una stagione di militanza politica e sociale. Attorno a quel tavolo si sedettero storici militanti, microstorici, storici orali e storici delle scritture popolari. Tirando le somme e mettendo sotto sguardo critico la stagione politica appena passata, tutti manifestarono l’esigenza di aggiornare il proprio outillage storiografico. Tutti, tranne chi per una propria forma mentis storico-politica mostrava nostalgia nei confronti dei grandi sistemi di pensiero nell’interpretazione storica, erano concordi nell’esigenza di mutare il proprio sguardo d’osservazione e di fornire nuovi strumenti di comprensione della realtà. Questo perché la «cassetta degli attrezzi» riempita dalla storiografia degli anni Sessanta sembrava ormai insoddisfacente per comprendere il nuovo mondo. La proposta microstorica, come ha ricordato efficacemente Maurizio Gribaudi, era nata proprio come una presa di posizione politica nei confronti di una sinistra allo sbando che aveva la necessità di aggiornare i propri strumenti interpretativi.
Allo stesso modo, la storia orale, alla fine degli anni Settanta, prendeva una ferma posizione contro l’uso positivista, e un certo tipo di utilizzo militante, della testimonianza, trasformando questa pratica in un esercizio ermeneutico rivelatore, ad esempio, non tanto di ciò che veniva detto ma di ciò che non veniva detto, di ciò che stava dietro al racconto, alla sua costruzione e soprattutto alle sue omissioni13. Le scritture popolari venivano riscoperte e valorizzate con un significato altro da quello della fine degli anni Sessanta: esse rivelavano il popolo in maniera assai diversa da quella del passato. Al centro non c’erano più solo le interazioni tra cultura alta e cultura bassa (nel rapporto anche tra oralità e scrittura), la «subalternità» non egemonica che aveva caratterizzato le ricerche degli anni Sessanta e Settanta, ma anche una più profonda e pressante ricerca mezzi e modi di penetrare la realtà: da qui l’attenzione alle stratificazioni testuali, la complessità del documento, i diversi piani che la soggettività dello scrivente riversava nella scrittura.
Negli anni Ottanta, la rivista «Fonti Orali» mostrava tutta una ricchezza di ricerche nate all’interno di associazioni, di gruppi e di istituti culturali non istituzionali – alcuni nati in quegli anni, altri nati e cresciuti tra gli anni Sessanta e Settanta – che andavano a formare un vero e proprio «movimento» diffuso sul territorio italiano (e non) che tentavano di penetrare dal basso la complessità della realtà storica. Tutto ciò veniva inteso come una porta di accesso privilegiata all’individuo immerso in un contesto socioculturale. Questo processo veniva ben colto dallo storico Mario Isnenghi in un articolo degli inizi degli anni Novanta: ciò che colpiva lo storico veneziano era il passaggio dalla «rivendicazione dei subalterni alla rivendicazione dell’io della gente» da parte di tutta una serie di intellettuali, molti dei quali “scalzi”, che tra gli anni sessanta e settanta avevano operato intellettualmente all’interno del grande fermento militante e che ora, in un momento di «depoliticizzazione»14, si dedicavano alla preservazione e all’analisi delle scritture popolari. Se negli anni Sessanta e per tutta la prima metà degli anni Settanta vi fu la necessità di documentare la classe, negli anni Ottanta si verificava un insistente fenomeno per cui si documentavano e si preservavano le soggettività della gente comune. L’archivio diaristico nazionale di Pieve di Santo Stefano non avrebbe avuto senso se non ci fosse stata una profonda comprensione dell’importanza della soggettività nell’agire storico e questa comprensione non fosse stata filtrata da un ventennio di militanza politica15.
Non si può pertanto non concordare con Traverso quando osserva che la scoperta della soggettività sul piano storiografico finiva per porre serie domande ai ricercatori sulla loro stessa soggettività. Eppure, queste domande sono rimaste molto spesso fisse sul piano del metodo e pertanto meritano una riflessione. Sorprende infatti che nessuno di questi autori uomini – microstorici, storici orali e storici delle scritture popolari – abbia mai pensato di scrivere un’autobiografia. Vi sono una miriade di interviste, contenute in archivi privati e no, pubblicate in riviste o mai pubblicate, usate come fonti o inserite come semplici interventi di taglio colloquiale o su argomenti di tipo scientifico ma non vi sono mai racconti sistematici di scrittura autobiografica. L’unica eccezione è quella di Mario Isnenghi, che tuttavia non è mai stato uno storico orale, né un microstorico, né uno storico del mondo popolare ma anzi un intellettuale interessato agli intellettuali e ai grandi temi della storia culturale della nazione, ai suoi miti, alla costruzione dell’identità nazionale e della sua memoria. Egli ha però affiancato a questa ricerca “alta” un interesse verso il “basso” divenendo un grande promotore e reclutatore di «storici selvaggi» e delle loro ricerche16. Tra le altre cose, lo storico veneziano ha sempre mostrato una certa attitudine letteraria, con una scrittura totalmente inusuale nel canone della narrazione storiografica e una presenza fissa della prima persona nelle sue scritture. Insomma, che Isnenghi abbia accettato di scrivere un’autobiografia non sorprende affatto. Sorprende invece che quegli uomini, impegnati ad analizzare le «vite degli altri», non si siano mai cimentati a narrare sistematicamente la propria. È probabile che il motivo principale di questo pudore risieda nella particolarità italiana, ossia nei lasciti di una sconfitta politica, quella della “nuova sinistra” nei tardi anni Settanta, che si è trasformata in un lutto generazionale particolarmente significativo per i militanti di genere maschile.
Esperienze femministe
Parlo esplicitamente di uomini perché invece le donne hanno proposto e continuano a proporre esercizi di scrittura autobiografica. Penso anzitutto a Luisa Passerini che in Autoritratto di gruppo alterna la scrittura personale – introducendo memorie familiari, diari del presente e spunti di sedute psicoanalitiche – con le interviste a protagonisti del ’68 su esperienze cruciali come la presa di parola politica dei giovani, le rivolte contro i poteri costituiti e la morale borghese. E penso ad Anna Bravo e al suo A colpi di cuore scritto partendo da sé e dai dubbi che valeva la pena di guardare in faccia dopo quarant’anni di storia e di vita. Si tratta di un fenomeno diffuso nel tempo, nello spazio e persino nelle discipline. La sociologa statunitense Janja Lalich, ex militante dell’organizzazione rivoluzionaria «Democratics Workers Party» operante negli anni Settanta a San Francisco, ha raccontato di essere andata in terapia dopo che, qualche anno dopo lo scioglimento dell’organizzazione, un’amica le fece leggere un volume sulla terribile vicenda di Jonestown avvenuta nel 1978, quando la setta guidata dal pastore Jim Jones optò per il suicidio di massa dopo che un gruppo armato operante all’interno della setta aveva assassinato il deputato americano Leo Ryan. Lalich ricordò che il suo partito, alla notizia del suicidio di massa, aveva definito il gesto della setta di Jones «rivoluzionario» e si rese conto di aver vissuto la sua esperienza politica in modo settario, come un culto carismatico. Realizzava in questo modo la sua trasformazione da «una trentenne impegnata idealisticamente per cambiare il mondo ad un dogmatico e rigido fantasma di se stesso dieci anni dopo» e sentì il bisogno di decostruire quell’esperienza. Cominciò per lei un percorso traumatico che la portò in terapia, «a piangere, urlare e a combattere con il mio passato e il mio presente», per ricostruire, alla fine, la sua vita personale e stabilire quella professionale. Nasceva in questo modo Bounded choice un libro sulla «devozione senza limiti e sui sacrifici quotidiani di due sette carismatiche nostrane», il Democratics Workers Party e l’Heaven’s Gate. Se Passerini, Bravo e Lalich – nelle loro profonde differenze di approccio e di percezione di sé – rielaboravano una stagione politica traumatica, studiose di una generazione differente, ma anch’esse militanti, hanno visto in questo approccio un modo per elaborare altri tipi di esperienze traumatiche e trarne riflessioni di metodo.
La storica francese Ludivine Bantigny ha pubblicato nel 2019 un libro, L’oeuvre du temps, che ha definito un «percorso sui sentieri del tempo» che incontra «qualche spettro, i frammenti di un passato personale, a volte intimo, che si intreccia nella narrazione storica ponendo interrogativi inquietanti». Ne nasce un libro che, professando «l’impossibile neutralità», alterna questioni intime e personali, ricordi di infanzia e relazioni sentimentali, emerse durante alcune sedute di psicoterapia, con questioni di epistemologia storica. Amalgamando in una narrazione appassionata privato e pubblico, Bantigny riflette sui rapporti tra psicoanalisi e storia, sui rapporti tra soggetto e tempo e sull’impegno politico nella pratica storiografica. Sorprende che Enzo Traverso non tratti di questo volume che peraltro ha la particolarità di inserire la propria soggettività non solo nella narrazione ma soprattutto nel metodo. Un altro volume che a questo proposito va citato è Piccola città di Vanessa Roghi. Si tratta, nelle intenzioni dell’autrice, di una storia culturale sul consumo degli stupefacenti in Italia analizzata per mezzo di uno sguardo d’osservazione molto intimo: quello di una bambina, Roghi stessa, immersa nella Grosseto di fine anni Settanta, che ad un certo punto vede scomparire il padre, militante di sinistra, arrestato per spaccio di eroina. Ne nasce un racconto familiare che si intreccia con la vita della città, la sua urbanizzazione, la politicizzazione, con l’utopia e lotte ma anche con la repressione con l’atteggiamento dello Stato nei confronti dei giovani e del consumo di sostanze stupefacenti, con le tipizzazioni sociali e i dibattiti intellettuali e politici. C’è un elemento politico che accomuna tutte queste esperienze: la militanza femminista. Non so se tutto ciò voglia dire qualcosa, però mi sembra che questa attitudine creativa ad usare il sé come elemento generativo, tanto personale quanto epistemologico, questa attitudine insomma a rivelarsi per rivelare qualcosa di generale, derivi da una condizione intrinseca alla militanza femminista: l’idea che il personale è politico. O se vogliamo che il personale è epistemologico. Da ciò la spinta ad elaborare nodi traumatici della propria storia personale e collettiva. Questo potrebbe essere un ulteriore stimolo alla riflessione in corso sulle continuità e sulle discontinuità tra il femminismo “storico” degli anni Settanta e le successive generazioni femministe. Tra le altre cose, visto il rapporto «serrato, conflittuale e complesso» del movimento femminista con la nuova sinistra non sorprenderebbe il fatto, almeno in Italia, che, anche in ciò, le femministe abbiano preso percorsi distintivi e capaci di elaborare il lutto rispetto ai militanti uomini. Quello che Traverso non vede affatto – riducendo peraltro il tutto a una semplice questione di «corporeità» a cui dedica circa mezza pagina (pp. 45-46) – è proprio questa ricchezza epistemologica della pratica femminista, la quale non è un riflesso militante della società neoliberale ma il risultato di una sensibilità e di una forte identità politica costruita nella pratica di lotta.
Il vantaggio ermeneutico dei vinti
Tutti i promotori di un rinnovamento tanto politico quanto storiografico, ma anche gli osservatori di processi così decisivi come Mario Isnenghi, provenivano da percorsi militanti variegati ma accumunati da un minimo comun denominatore: la sconfitta politica degli anni Settanta e la necessità di ricostruire una proposta culturale al passo con un “nuovo” mondo privo di quello slancio utopistico-rivoluzionario che aveva caratterizzato la loro formazione storico-politica. Su questa base, a partire da questa «perturbazione dell’anima», gli storici «soggettivisti» degli anni Ottanta hanno guardato ai nuovi assetti antropologici. Questi storici hanno guardato a quel tempo come interpreti critici, riuscendo a controllarlo e a distanziarsi dagli aspetti più pericolosi. Le battaglie di Carlo Ginzburg, Edoardo Grendi, Giovanni Levi, Luisa Passerini e Alessandro Portelli contro taluni nichilismi del linguistic turn stavano a dimostrare come vi fossero modi e modi di trattare le soggettività e i testi, la verità e la menzogna, la fiction e la realtà, onde evitare di proporre schemi insidiosi come quelli che equiparavano la storia alla finzione letteraria. Resta quindi secondo me da collocare nel mutamento della modernità quell’esperienza umana davvero decisiva, quello Settelzeit, quell’epoca di mutamento di paradigma, in cui il collettivo si dissolve lasciando spazio all’individuale. Ma serve anche comprendere come questo mutamento venne percepito da quella generazione di storici che era stata catapultata dalla politica alla storia per mezzo di una sconfitta politica. Se davvero la malinconia è una tradizione nascosta della sinistra17 si dovrebbe osservare quanto e se lo sguardo malinconico dei vinti degli anni Settanta abbia influito – e come – nella costruzione di questa soggettivazione della scrittura della storia. Lo stesso Traverso riprende Reinhart Koselleck per rivendicare il potenziale ermeneutico della sconfitta, ossia il fatto che nel breve periodo, la storia è fatta dai vincitori, ma a lungo termine i vantaggi della conoscenza provengono dai vinti poiché questi ripensano al proprio passato con uno sguardo acuto e critico. Non so quanto sia vera o se invece questa idea sia un po’ troppo idealistica, mi sembra che però il vantaggio ermeneutico avvenga quando i vinti trattano indirettamente e con intelligenza la propria sconfitta; quando, piuttosto che affaccendarsi nella ricostruzione del proprio passato, cercano di usarlo come stimolo per interpretare la realtà. Lo hanno dimostrato le storiche femministe, i microstorici e gli storici orali italiani che, per la prima volta nel mercato storiografico internazionale, hanno lanciato modelli metodologici del tutto innovativi. Non è forse un caso, quindi, che Luisa Passerini, Alessandro Portelli, Carlo Ginzburg e Giovanni Levi siano oggi gli storici italiani viventi più conosciuti al mondo18.
Conclusioni
Per terminare vorrei riflettere su una questione. Non so sinceramente cosa questi storici pensino dei libri di Jablonka e Luzzatto, ma se c’è qualcosa che essi ci hanno insegnato sulla nostra lettura degli avvenimenti storici è la stratificazione di piani soggettivi con cui non solo la realtà storica ci viene tramandata ma con cui noi stessi la osserviamo. Non sorprenderà allora sapere che se a Traverso i libri di Jablonka e Luzzatto creano «disagio», a me, che appartengo ad una generazione differente, nata nella post-modernità, affascinano. Ciò non significa che non ne veda i limiti e non ne condivida i timori. Significa che vedo in queste opzioni narrative stimoli e sfide intellettuali che mi pongono quesiti sul mestiere di storico nell’era della post-modernità. In altre parole, questo fascino è una presa di coscienza. Oggi la storiografia ha davanti a sé l’enorme compito non solo di affermare un principio di realtà ma anche di saperlo comunicare. Per questo non nutro interesse verso un ritorno della storia come un «grande noi» nell’ottica di rischiarare i grandi soggetti collettivi o di inscrivere i «destini individuali in uno scenario più vasto». La mia generazione non avrà vissuto di certo le grandi battaglie collettive, vivrà pure in un’epoca frammentata, nel pieno «disagio della post-modernità», nell’epoca dei selfie che tutto standardizza e tutto reifica; ma vivendo liberamente da ipoteche ideologiche di qualsiasi sorta e da traumi politici collettivi, e non avendo nulla da difendere e scheletri nell’armadio da attenzionare, io e i miei coetanei ci siamo trovati nella posizione di essere formati al metodo e alla ricerca della verità storica mentre il mondo fuori dall’empireo storiografico affermava che tutto è relativo. Per tale ragione, provo – questa volta sì – un certo disagio quando Traverso afferma in un altro suo libro che «se le rivoluzioni del nostro tempo devono inventare i modelli, non possono farlo su una tabula rasa, senza incarnare una memoria delle lotte passate, sia le conquiste, sia le assai più frequenti sconfitte. Questa – non bisogna nasconderlo – è l’elaborazione di un lutto, ma anche l’addestramento per le nuove battaglie»19: provo disagio, pur capendo l’immaginario soggettivo cui lo storico fa riferimento, perché un pensiero del genere significa essenzialmente trattare la ricerca storica come addestramento per la politica. È questo il più grande paradosso dell’intero volume di Traverso: per dubitare dei «soggettivisti» in quanto produttori di «fiction di metodo» finisce per proporre un modello ancora più aleatorio, interessato e persino di finzione. Come ha scritto lo storico Francesco Benigno recensendo Rivoluzione di Traverso, è «come se la verità dei fatti accaduti, e in buona sostanza della storia, possa essere messa in secondo piano rispetto all’imperativo recupero dell’incanto rivoluzionario: cambiare il mondo». A dimostrazione di ciò, va segnalato che Traverso elogia il “soggettivismo” di Saiydia Hartman (non a caso una studiosa che si muove intellettualmente tra la storiografia e la teoria letteraria) non solo perché l’opera di questa accademica «non rimane confinata entro una sfera soggettiva» e non inventa «nulla, poiché tutte le vicende narrate nel suo libro sono realmente esistite» ma soprattutto perché essa «trascende l’io dell’autrice e sfocia in una visione corale del passato che entra in risonanza con i movimenti collettivi del presente». L’opera della Hartman – scrive Traverso in La Tirannide dell’io – «dimostra che è possibile scrivere in prima persona evitando ogni solipsismo, collegando i nostri molteplici “io” ai “noi” che fanno la storia» (pp.172-174). Il punto è proprio questo. In un mondo liquido in cui ci si domanda se la verità e addirittura la realtà stessa esistano, serve, forse più che in altri tempi, interrogarsi sul mestiere di storico, sul suo significato e sulla sua utilità. D’altronde è innegabile, come ha detto Alberto Mario Banti, che «è in questione il fondamento epistemologico della ricerca storica, cioè su che cosa si basa la garanzia di legittimità su cui si fonda un rapporto di ricerca». Ma la risposta non può essere certamente trovata all’interno di uno schema politico dai tratti malinconici. E probabilmente guardare alla storia della storiografia sulle soggettività – cioè osservare la questione dal «basso» – ci aiuterebbe a comprendere, ancora una volta, come governare i sentimenti, facendone un punto di forza interpretativo, onde evitare di incappare in inquietanti paradossi. Insomma, per non scioglierci anche noi tra l’impervio scorrere della modernità liquida.
NOTE
1 Francois Lyotard, La condizione post-moderna. Rapporto sul sapere, Milano, Feltrinelli 1979. Molti anni più tardi, Zygmunt Bauman avrebbe parlato di modernità liquida intesa come una condizione umana, cfr. Zygmunt Bauman, Modernità liquida, Roma-Bari, Laterza 2005.
2 Cesare Bermani & Sergio Bologna, soggettività e movimento operaio, relazione al convegno internazionale su “antropologia e fonti orali”, Bologna, 17 dicembre 1976 poi in: «Il Nuovo Canzoniere Italiano», 1977, n.4-5, p.34.
3 Edoardo Grendi, Microanalisi e storia sociale, «Quaderni Storici», vol. 12, n.35, maggio-agosto 1977, pp. 506-520. Sull’interazione storica tra microstoria e storia orale cfr. Alessandro Casellato, L’orecchio e l’occhio. Storia orale e microstoria, «Italia Contemporanea», n.275, 2014, pp. 250-278.
4 Maurizio Gribaudi, Storia orale e struttura del racconto autobiografico, «Quaderni Storici», 39, n.13, 1978, p. 1131.
5 Id., Spie. Radici di un paradigma indiziario in Aldo Gargani, La crisi della ragione, Torino, Einaudi 1979.
6 Id., «Ombre rosse», n.29, 1979, pp. 81-107.
7 Ruggiero Romano, Storie vecchie e storie nuove, «Alfabeta», II, n.18, 1980; Andrea Carandini, Quando l’indizio va contro il metodo, «Quaderni di Storia», VI, 1980, n.11, pp.3-11; Mario Vegetti, La ragione e le spie, ivi, pp.13-18; Paradigma indiziario e conoscenza storica. Dibattito su “spie” di Carlo Ginzburg, «Quaderni di Storia», anno VI, n. 12, 1980: si tratta della trascrizione di un dibattito avvenuto in forma orale tra Carlo Ginzburg, Luciano Canfora, Andrea Carandini, Giulio Giorello, Ignazio Veca, Mario Rosa, Aldo Schiavone, Mario Vegetti e Rosario Villari in cui, peraltro, si esordiva avendo cura di sottolineare che gli «interventi sono qui riprodotti mantenendone per lo più anche i tratti di “oralità”»
8 Emilio Franzina, Gli smarrimenti di Clio, «Belfagor», 35\3, 1980, p. 346.
9 Furio Diaz, E così la storia finisce in Crusca, «L’Espresso», n.6, 10 febbraio 1980 ma cfr. prima Paolo Mieli, La storia con la S minuscola, «l’Espresso», n.31, 5 agosto 1979, Edoardo Grendi, In Italia, invece, sono tutti maiuscoli, ibidem, Giuseppe Galasso, Ma le vie della storiografia sono infinite, ivi, pp. 46-47; Nicola Tranfaglia, Ed ora il privato irrompe nella storia, «La Repubblica», 17 febbraio 1979. Qualche anno dopo, lo storico Massimo Salvadori, dinanzi alla sempre più invadente presenza “mediatica” delle diatribe metodologiche, avrebbe scritto un articolo su “La Stampa” in cui invitava gli storici a tornare alla storia: Massimo L. Salvadori, Storici, tornate alla storia, La Stampa, 12 gennaio 1985.
10 Franzina, Gli smarrimenti…cit., pp.346-348.
11 Silvio Lanaro, Modello veneto e storia nazionale, in aa.vv., Una via alla storia. Rinnovamento didattico e raccolta delle fonti orali, Venezia, Arsenale coop.editrice, 1980, p. 118. Cfr. a questo proposito il dialogo, apparso su “L’Espresso”, tra Lucio Colletti, Andrè Glucksman e Bernard Henry-Levi, c’è un buco nella pentola di Marx, «L’Espresso», n. 2, 1979, pp. 45-51.
12 Il fatto che vi fosse una questione di epistemologia generale, si può ben osservare dal fatto che anche nella ricostruzione di «storie dall’alto» – nella più generale storia politica intesa in senso classico, cioè la storia delle classi dirigenti – si potevano trovare in quegli anni tentativi di produrre «storie orali». E non si parla della «oral history» di stampo anglosassone bensì di tentativi prettamente italiani (certo filtrati da influenze internazionali) come quello della storica Maria Grazia Melchionni che recentemente Patrick Urru ha intervistato mettendo in crisi la consolidata identità di noi oralisti à l’italienne che pensavamo di aver capito molto, se non tutto, della propria genealogia: https://www.aisoitalia.org/storia-orale-elite-intervista-melchionni/.
13 Giovanni Levi, Luisa Passerini & Lucetta Scaraffia, Vita quotidiana in un quartiere operaio di Torino fra le due guerre: l’apporto della storia orale, «Quaderni Storici», vol. 12, n.35 (2), 1977, pp. 433-449; Alessandro Portelli, Sulla diversità della storia orale, “Primo Maggio”, 1979, n.13, pp. 54-60; Luisa Passerini, Storia orale. Vita quotidiana e cultura materiale delle classi subalterne, Torino, Rosemberg & Sellier 1978.
14 Con questo termine non intendo affermare che la politica fosse sparita dall’orizzonte cognitivo, ermeneutico ed esperienziale di queste soggettività né tanto meno dagli orizzonti mentali della società post-moderna. Intendo affermare l’esatto contrario, cioè la trasformazione di un certo tipo di esperienza politica partecipativa, interna a movimenti politici, sociali e di classe, insomma la trasformazione di una sconfitta politica in un «bagaglio culturale».
15 Mario Isnenghi, Parabola dell’autobiografia. Dagli archivi della “classe” agli archivi dell’“io”, «Rivista di storia contemporanea», 1-2, 1992, pp. 383-401.
16 Id., Nascita degli storici selvaggi?, «Schema», n.2, 1979, pp. 77-80.
17 Cfr. Enzo Traverso, Malinconia di sinistra. Una tradizione nascosta, Milano, Feltrinelli 2017. Su questo libro, davvero suggestivo, cfr. la nota critica di Francesco Benigno, L’eclissi delle utopie, «Meridiana», n. 91, 2018, pp. 251-257.
18 Forse fin troppo famosi. Questo eccesso di notorietà ha fatto sì che, tanto all’estero quanto nella storiografia accademica italiana, la «scuola italiana di storia orale» e anche la «scuola italiana microstorica» fossero spesso ridotte a due o tre nomi quando invece vi fu una tale ricchezza di esperienze da rendere quasi offensiva questa reductio ad unum. Ma su questo aspetto cfr. Alessandro Casellato, a Made in Italy storiografico. Esiti culturali di una sconfitta politica in Italia senza nazione. Lingue, culture, conflitti tra medioevo ed età contemporanea a cura di Antonio Montefusco, Macerata, Quodlibet 2019.
19 Enzo Traverso, Rivoluzione. 1789-1989: un’altra storia, Milano, Feltrinelli 2021, pp. 39-40.