di Luisa Lo Duca
Presentato al Festival dei Popoli del 2017 nella sezione “EFFETTO DOMINO – SOGNI ED INCUBI DEL POTERE CONTEMPORANEO”, “El pacto de Adriana” è un documentario di Storia e di storie, intese come grandi narrazioni collettive ma anche bugie personali e private che vengono esposte e sfidate, ricostruite e sbrogliate, senza possibilità di riconciliazione finale.
“El pacto de Adriana” è l’opera prima di Lissette Orozco, regista e personaggio principale del suo stesso film, occhio che scandaglia e prepara la narrazione a partire proprio dalle sue memorie, dalle sue idee (plurali) su Adriana, l’altra ingombrante protagonista del documentario. Adriana Rivas è la zia preferita della regista, la zia che vive all’estero e la ricopre di regali ad ogni suo ritorno in Cile, la zia elegante e indipendente, un vero e proprio modello aspirazionale. Adriana Rivas però è anche la ex segretaria del militare Alejandro Burgos e di Manuel Contreras – braccio destro di Pinochet e capo della polizia segreta (la DINA, Direccion de Inteligencia Nacional) – ed è accusata di essere direttamente coinvolta nel sequestro e assassinio del dirigente comunista Victor Diaz.
Le due idee di Adriana si sovrappongono bruscamente nella mente della regista il giorno del suo arresto improvviso che avviene nel 2007 in aeroporto, in uno dei suoi viaggi di rientro dall’Australia. Per Lissette Orozco è l’inizio di un cammino (è lei stessa a chiamare così la produzione e realizzazione del suo film) difficile e impaludante, che affascina per la mistura inestricabile di questioni etiche ed emotive, professionali e private, che tengono il tono della narrazione sempre su un piano di tensione e comprensione pulsante, anti-catartico.
La storia di Lissette Orozco è, infatti, una storia familiare ma pubblica, che per essere capita e raccontata ha avuto bisogno di contaminarsi con gli archivi statali, i resoconti storici, le interviste ad esperti e attivisti. Durante tutto il film le foto e i ricordi di famiglia si schiantano contro le lettere e la documentazione ufficiale in una pluriframmentazione del reale e della memoria che non potrebbe essere più efficace.
Lissette Orozco si fa accompagnare dall’occhio dello spettatore nel suo processo di ricerca della verità (con la “v” minuscola, badate bene) e nel farlo non desidera omettere niente: lacrime, inciampi, cambi di punti di vista, furiose liti per il controllo della narrazione tra lei e la zia, tra lei e gli altri testimoni esterni e/o interni alla famiglia.
Adriana Rivas, poi, è una protagonista ingombrante e volitiva, inaffidabile e bugiarda, ma amata. Nel presentare la zia al pubblico la regista deve tenere insieme l’Adriana Rivas della Storia (di lei parlano le carte, di lei si occupa un processo e l’opinione pubblica) e quella della memoria personale (dai ricordi e dal lessico familiare condiviso, la zia “Chani” investita dalla tenerezza dei legami e degli affetti). Un processo che richiede uno sforzo cognitivo ed emotivo notevole.
Su questo processo, e sul film in generale, ho provato a fare alcune domande nell’ambito di un’intervista alla regista de “El pacto de Adriana”. Si è trattato di un dialogo ibrido, avvenuto in differita, con un passaggio dallo scritto delle mie domande all’audio delle sue risposte. A tutti gli effetti un’intervista non convenzionale e in absentia che però mantiene, a mio avviso, un certo valore per le parole e le questioni che solleva e ci propone. Spero quindi che la lettura di questa breve intervista possa convincere anche voi che “El pacto de Adriana” di Lissette Orozco è un film che ci interessa – come storiche e storici, ricercatori e studiose di storia orale – nel modo in cui tratta la memoria privata e la mette in dialogo con quella pubblica. Il suo film è infatti una metafora efficace della ricerca storica e dell’incontro con la memoria degli altri (si veda, ad esempio, il montaggio in sequenza delle manifestazioni dei nostalgici pinochetisti e le commemorazioni pubbliche dell’11 settembre 1973) ma anche la presa diretta del corpo a corpo con il proprio testimone, con la propria memoria, con i propri desideri politici ed etici. E questa cosa Lissette Orozco la fa con urgenza, con forza e metodo, aprendo la porta di casa sua, e riconoscendo alla ricostruzione storica una potenza ordinatrice e ricostituente, in grado di “alimentare, nutrire” non solo la narrazione ma anche chi la dispiega.
Dove guardare “El pacto de Adriana”: https://vimeo.com/ondemand/adrianaspact
Per maggiori informazioni sul film e la sua produzione clicca qui.
Quella che segue è la traduzione in italiano dell’intervista con la regista Lissette Orozco de “El pacto de Adriana”. L’originale in spagnolo è disponibile qui. Traduzione e trascrizione sono opera mia.
Luisa Lo Duca: Nel tuo documentario si fa un uso eterogeneo di fonti (fonti orali, fonti d’archivio, interviste ad esperti e a familiari). Quale pensi sia il punto di forza del mettere insieme archivi privati (VHS, foto, filmati di famiglia) e archivi pubblici (documenti)? Le interviste con gli esperti (storici, giornalisti, attivisti per i diritti umani) e quelle con i testimoni (familiari, ex agenti)? Che cosa, secondo te, le fonti private hanno apportato di unico e speciale alla tua narrazione?
Lissette Orozco: Beh, per quanto riguarda la costruzione del film [n.d.r. il fatto di] usare materiale pubblico e anche materiale personale, l’andare a cercare persone da intervistare che mi fossero vicine e l’andare a cercare persone da intervistare che fossero anche degli esperti, nasce principalmente da una ricerca che è molto importante per me. Perché per me si tratta di un film che, pur parlando dei segreti della mia famiglia, parla anche dei segreti del mio Paese; pur essendo una storia privata, allo stesso tempo è anche una storia pubblica. Muovendomi in questi due ambiti, per me era importante allontanarmi dalla testimonianza di casa, perché a casa sono cresciuta sempre con il solito discorso di destra, un discorso politicamente chiuso, in cui mi veniva detto che i comunisti erano i terroristi, che erano i cattivi. Quindi era importante per me aprire la porta di casa mia, in senso simbolico.
Era importante scoprire la vera storia del Cile e giocare con questa varietà di testimonianze e di archivi che mi hanno consegnato una prospettiva diversa da quella che avrei potuto avere se fossi rimasta in casa mia. Per me era importante che la storia avesse diverse dimensioni: lo sguardo più oggettivo, quello delle vittime e quello dei carnefici. Anche se il punto di vista è quello di una famiglia di carnefici, per me – in qualità di nuova generazione – era importante sapere cosa fosse successo veramente in quel periodo e andare alla ricerca di questi esperti mi ha aiutato anche a dare forza al mio discorso.
Ho sempre affermato che la conoscenza è potere, quindi sentivo che l’unico modo in cui avrei potuto affrontare mia zia (o l’unico modo in cui sarei potuta stare di fronte a un pubblico e dire ciò che sento e ciò che penso) era quello di avere le informazioni più esatte possibili. In questo percorso – in cui mi sono alimentata, nutrita e ho imparato – ho dovuto conoscere le voci degli esperti, degli attivisti, dei familiari delle vittime, e ho dovuto approfondire il discorso della mia stessa famiglia per poterlo mettere in discussione.
LLD: Gran parte del documentario è puntellato e animato dalle memorie di famiglia. Com’è stato suscitare i ricordi dei tuoi familiari? Come hai deciso di selezionare i loro/tuoi ricordi? Ti sei data delle regole/limiti con i tuoi familiari o hai fatto qualche accordo preventivo con loro? Prima dell’arresto di tua zia, come veniva raccontato il passato nella tua famiglia? Come è cambiata la tua percezione delle memorie di famiglia e il tuo rapporto con i suoi membri nel corso del lavoro?
LO: Per quanto riguarda la mia famiglia, la verità è che da quando sono nata mia zia [n.d.r. quella] del film ha sempre vissuto in Australia. Quindi il mio presente e il mio passato corrisponde a mia zia che vive in Australia: non conoscevo altro passato che quello. Vengo da una famiglia di destra, pinochetista, quindi non mi ha sorpreso […] Ma una cosa è avere una famiglia di destra, un’altra cosa è avere un parente che è stato agente della polizia segreta. Questo è stato il vero grande shock e la sorpresa.
Cosa pensava la mia famiglia, qual era il discorso che si faceva prima [n.d.r. dell’arresto]? Fondamentalmente [n.d.r. il discorso] era che Pinochet aveva fatto un favore al Paese dei terroristi comunisti. Questo era il discorso che esisteva prima, un discorso che non potevi nemmeno mettere in discussione, non potevi controbattere a nessuno, perché i miei erano molto di parte. Quando parlo della mia famiglia, mi riferisco soprattutto alle generazioni più anziane: mia madre, mia nonna, i suoi fratelli. Perché la mia generazione, ovviamente, la pensa in modo molto diverso. Ma quella generazione, più chiusa, più tradizionalista, faceva parte di una famiglia pinochetista e in questo senso ne era orgogliosa.
Per quanto riguarda il materiale d’archivio a cui mi riferisco, la verità è che il materiale che uso, il materiale del mio nucleo familiare, è materiale di mio padre – che era poi quello che filmava la maggior parte degli eventi familiari. Dunque parliamo di un materiale che è personale. Tuttavia, alle persone che sapevo non avrebbero voluto partecipare o appoggiare questo film ho deciso di cancellare i volti, per non avere alcun conflitto legale con loro. Quindi ho preferito cancellare i loro volti. Per quanto riguarda i membri della mia famiglia che hanno partecipato al film, e i cui volti sono visibili, si tratta invece di persone che hanno firmato una carta di cessione dei diritti di immagine e di voce, [n.d.r. una carta] che ho fatto firmare loro prima di iniziare a girare il film. Cioè, quando ho preso la decisione e ho detto a mia zia: “Posso fare un film su di te?”, e lei mi ha detto: “Perfetto, ti dimostrerò che ho ragione!”, io allora le ho detto: “Perfetto, puoi firmare qui?”. Così è stato redatto quel documento e, nel caso dei membri della mia famiglia la cui voce compare, ho anche le loro firme. Quindi, da questo punto di vista, dal punto di vista legale, non ho alcun problema. Tuttavia, sapevo che ad alcuni di loro non sarebbe piaciuta l’idea del film una volta terminato. Perché quando ho iniziato a girare il film pensavo davvero di fare un film per aiutare mia zia. Ma lungo il percorso ho iniziato a scoprire la verità della storia.
E a quel punto dovevo prendere delle decisioni etiche e mettere da parte le mie emozioni. In questo percorso la verità è che ho preferito non avere più problemi di quanti no ne avrei già avuti e per questo ho preferito cancellare alcuni volti. Ma la stragrande maggioranza dei ricordi – e dei materiali che uso per evocarli – sono di mio padre. E con mio padre ho un ottimo legame, è lui che mi ha dato quel materiale per poterlo inserire nel film.
LLD: In un’intervista televisiva hai affermato che il tuo documentario è contemporaneo e personale. Eppure sei sempre tu a dire, all’interno del film, che scavando nel passato di tua zia ti sei dovuta confrontare con “la storia oscura del tuo Paese”. Come si intrecciano nella tua narrazione gli obiettivi politici e quelli personali? Quale dei due ha prevalso nella ricezione del film e nel tuo bilancio personale? Il film mostra anche importanti scene di commemorazione collettiva messe in atto da entrambe le parti (il raduno dei sostenitori di Pinochet e la commemorazione dell’11 settembre 1973). Quanto è stato importante restituire visivamente una memoria collettiva così contrapposta?
LO: Beh, anche se si tratta di un film contemporaneo e per quanto abbia cercato di fare una storia raccontata a partire dal presente e di non usare le immagini che appaiono in tutti i film sulla memoria politica cilena e nei film delle vittime (in fondo non volevo usare le loro immagini, mi sentivo irrispettosa nell’usarle)… pur avendo lavorato al film a partire dal presente, è stato inevitabile non cadere nel passato. È stato inevitabile perché mia zia vive con la sua testa in un costante passato, vive in una costante persecuzione della sua vita. Quindi, sebbene sia un film che tratteggia alcune sfumature del passato, è un film che a partire dal presente cerca anche di rivendicare ciò che è la storia – o ciò che è stata per me. In questo senso per me era molto importante che, a partire dal luogo più familiare e privato, mi posizionassi anche politicamente, eticamente e moralmente rispetto ai miei principi – che sono per me la cosa più importante. Sì, in altre parole, per me la cosa più importante de “El Pacto de Adriana” è che non ho tradito me stessa. E questa è la mia bandiera di lotta. E in questo senso, sì, il film ha un obiettivo più personale, più politico, più etico. Soprattutto se, attraverso un film, si deve lanciare un discorso di massa. A maggior ragione ho dovuto mettere la mia etica su un piatto della bilancia e il mio cuore sull’altro. E prendere delle decisioni. Quindi, a prescindere dall’affetto che provo per mia zia, questo non ha messo in secondo piano il mio senso etico rispetto alla vita o il mio senso di giustizia.
Inoltre, tu parli di due avvenimenti in cui, sì, ci sono delle tracce di passato, ovvero le commemorazioni dell’11 settembre e l’incontro dei pinochetisti. Per me questa memoria collettiva è stata fondamentale perché è così che nel mio Paese continuiamo a ricordare, all’interno di spazi di poli opposti. Non potremo mai parlare di riconciliazione, se nella nostra transizione alla democrazia c’è stata una transazione con la democrazia. Non potremo mai parlare di riconciliazione, perché non c’è stata giustizia, non c’è stata verità, non c’è stato un lavoro di memoria e riparazione.
Ho filmato questi luoghi mentre ero in questi luoghi. In ognuno di questi spazi filmo con distacco, ma filmo anche con rispetto. E guardo con questo distacco perché non appartengo a nessuno di questi due spazi. Però credevo fosse importante lasciare una traccia di come, 40 anni dopo la dittatura, si ricordava ancora, e da luoghi molto diversi.
LLD: Guardare il tuo documentario è come assistere in prima persona al processo di ricerca della verità che hai condotto. Lo spettatore cresce in consapevolezza e cambia idea insieme a te. Come è cambiata la tua posizione e la tua postura nel corso del lavoro? Ci sono stati momenti che definiresti come dei punti di svolta per la narrazione e per la tua personale ricerca della verità? Com’è cambiato nel tempo il modo di intervistare tua zia (dalle domande più intime “da nipote” a quelle più investigative e critiche “da documentarista”)? Che influenza ha avuto sulle interviste il mezzo con cui è stata intervistata tua zia (dal vivo, via skype) e il luogo (in carcere, da libera)?
LO: Il fatto che lo spettatore inizi a vivere il processo dal mio punto di vista, che veda come mi sono trasformata nel tempo, è qualcosa che è avvenuto in maniera spontanea. Perché speravo di vincere un fondo per andare in Australia a girare il film ma non l’ho vinto – ritengo fosse molto strano per un pubblico cileno il fatto che volessi fare un film su un carnefice. Quindi non mi hanno dato i soldi per fare il film, ed è per questo che il film ha finito per essere tutto incentrato sul mio materiale di ricerca. Il film è montato cronologicamente a partire da questo materiale di ricerca. Così lo spettatore vive il processo con me, così com’è stato.
Lungo il percorso, la mia posizione, il mio atteggiamento politico ed etico, sono cambiati quando ho iniziato a conoscere la vera storia del Cile. È questa la verità. Ho guardato molti documentari, film biografici, politici e sui diritti umani in modo da poter trovare anche io la mia voce all’interno del film. E naturalmente ho avuto momenti di bassa, ho avuto momenti molto difficili quando scoprivo qualcosa di terribile su mia zia e il giorno dopo lei mi chiamava e mi diceva: “ciao, amore mio, come stai?”. Per me è stato molto complicato dover interpretare il ruolo di regista e quello di personaggio. Cioè, essere [n.d.r. al contempo] una regista e un personaggio del film… ed essere anche una persona! Perché come persona a volte non avevo voglia di parlare con mia zia. Come personaggio… dovevamo occuparci del personaggio di mia zia. E come regista, spesso volevo abbandonare il film lì dov’era. Quindi, è stato anche molto difficile gestire le informazioni, sapere quando dire certe cose. Non so… non voglio dire di essere ipocrita, ma molte volte ho dovuto rispondere a una chiamata quando non avevo voglia di parlare con mia zia.
Quindi, il processo di realizzazione del film è stato molto difficile. Tuttavia, posso dire che il momento più difficile per me è stato quando la montatrice mi ha mostrato il primo montaggio del film (la montatrice si chiama Melisa Miranda). Insieme avevamo parlato della sceneggiatura, della proposta, di tutto… ma naturalmente vedere il materiale montato è una cosa diversa, perché io vivevo situazioni, mettevo da parte dei materiali, vivevo situazioni, mettevo da parte dei materiali…ma non li rivedevo. Quindi, quando ho rivisto tutto in un primo montaggio, è stato allora che sono crollata, è stato allora che ho capito che la mia famiglia mi avrebbe esiliata [ride], che c’erano persone nella mia famiglia che avrebbero smesso di amarmi… ed è stato allora che ho dovuto prendere delle decisioni, per non tradire me stessa, per andare fino in fondo, per capire che, indipendentemente da quanto sia doloroso vedere nelle immagini come mia zia mi manipola o come mente, indipendentemente da quanto sia doloroso [n.d.r. questo], sapevo che la cosa più dolorosa sarebbe stato esporla di fronte a tante persone. È stato un momento, probabilmente il più difficile, proprio quando il film era quasi pronto e mi sono detta: “Wow, speriamo che questo possa aiutare gli altri, perché di sicuro, così com’è venuto fuori, non aiuterà né me, né la mia famiglia”.
Qui mi chiedi anche: “che influenza ha avuto il mezzo con cui tua zia è stata intervistata (dal vivo, su Skype) e il posto (in carcere, da libera)…?”. Beh, ovviamente, di persona sento di essere stata molto più gentile con lei, perché la guardavo negli occhi, provavo compassione per lei, anche se sapevo che quello che aveva vissuto era molto forte e che probabilmente avrei dovuto essere più dura con lei ma, beh, è mia zia e le voglio bene. E, in questo senso, anche per me il fatto di fare le interviste di persona mi ha dato una sorta di… voglio dire, mi ha fatto sentire “protetta” con lei, “protetta” con me stessa, e sento che non riuscivo ad essere tanto dura [n.d.r. con lei]. Dall’altra parte, quando le interviste sono state fatte via Skype o per telefono, senza guardarci negli occhi, probabilmente mi sembra di essere stata più fredda o più diretta. Quindi, effettivamente, sì, c’era una differenza tra le riprese di persona e quelle attraverso i mezzi tecnologici. Questa distanza mi ha anche aiutato a essere più diretta in quello che provavo, in quello che pensavo. In effetti, le discussioni più forti le abbiamo avute quando non ci siamo guardate in faccia. Probabilmente è stato più facile affrontarla in questo modo. Però, sì, il processo è stato piuttosto duro.
LLD: Sei spesso accusata da tua zia (soprattutto verso la fine del film) di essere troppo coinvolta emotivamente e di non essere in grado di condurre le interviste in modo obiettivo. Allo stesso tempo, la protagonista del documentario – tua zia Adriana – è essa stessa all’interno della relazione, una testimone coinvolta e interessata a controllare la narrazione. Si vede chiaramente come durante il film (e le interviste) ci sia una lotta continua per controllare il punto di vista del racconto. Quanto è centrale nel tuo documentario questa lotta per il controllo della narrazione? Che peso hai dato alle emozioni nel raccontare questa storia?
LO: Quando ho iniziato a girare “El pacto de Adriana”, quando ho detto per la prima volta a mia zia: “facciamo un film su quello che ti sta succedendo”, in quel momento ero davvero dalla parte di mia zia, perché pensavo che mia zia fosse innocente. Perché non riuscivo a capire come una persona così umana potesse aver fatto cose così inumane. Da quel momento in poi, anche mia zia credo che abbia visto in me l’opportunità di ripulire la sua immagine e di vendicarsi. Quindi, la verità è che le ho dato uno spiraglio e una possibilità di scelta sufficiente perché potesse raccontare la sua versione della storia. E questa stessa possibilità che le ho dato ha finito per essere la sua condanna. Perché credo che il grande difetto di mia zia sia quello di parlare troppo, o di parlare più di quel che deve. E così finisce per fare danno a se stessa. Come dice mia madre: “il pesce muore per la bocca”.
Da questo punto di vista, credo che all’inizio lei abbia visto in me l’opportunità di ripulire la sua immagine, Ma quello che non ha considerato è che in Cile c’è una storia politica molto forte, ci sono film, ci sono interviste che mi hanno insegnato la vera storia del mio Paese. E lungo il percorso, non è che ho girato in tondo. Lungo il percorso io stessa ho imparato, sono cresciuta e ho capito delle cose… e sono anche arrivata a capire che lei voleva controllare la narrazione del film. Per questo si è prestata anche a filmare se stessa, per questo ha provveduto a organizzare la sua stessa messa in scena, e ha costruito il suo stesso personaggio a distanza. E io le ho dato la macchina da presa perché potesse fare quello che voleva. E in tal senso credo che il suo inconscio probabilmente l’ha tradita.
Quindi, certo, nel film lei lotta affinché la sua verità sia l’unica, ma non si è resa conto che io stavo crescendo, che stavo imparando, che mi stavo arricchendo e che a un certo punto sono diventata la protagonista. Ero io ad avere un problema con il fatto di avere una zia accusata di aver commesso crimini contro l’umanità. Lei non aveva alcun problema con il fatto di aver fatto parte della polizia segreta… quindi, in questo percorso, la grande trasformazione che ha avuto luogo nella storia è avvenuta dal mio punto di vista, no? E ovviamente – dato che ho raccontato la storia non dal punto di vista di una giornalista, ma da quello di una nipote – per me la cosa più importante erano le emozioni che venivano suscitate nel corso del film. Per me questa è la cosa più importante: saper raccontare una storia in poco tempo, che sia ben raccontata e che riesca a commuovere lo spettatore.
In questo senso rendo più complicato il mio obiettivo da regista. Malgrado sia stata una cosa tremendamente dolorosa aver fatto il film e anche averlo poi presentato, io non guardo più “El pacto de Adriana” perché mi fa stare male. È quasi “rivittimizzante” rivedere quel film. Ma so che, per quanto sia doloroso, sto apportando una nuova prospettiva. So che ho infangato la mia famiglia, ma allo stesso tempo ho anche liberato le generazioni future dal peso del trauma di avere una parente genocida. Questo trauma che continua ad essere portato avanti per generazioni, a causa del silenzio, della relativizzazione dei fatti, delle bugie o del negazionismo.