di Stefano Bartolini.
Sull’onda degli eventi e degli sconvolgimenti politici degli ultimi anni, in Italia come all’estero, sono tornati in primo piano temi e soggetti a lungo marginalizzati nel dibattito politico, ma anche in quello delle scienze umane e sociali, quali i ceti popolari e le periferie dei paesi occidentali. Un ritorno che però ha segnato un ribaltamento di prospettiva rispetto a come queste aree e gruppi vi erano stati presenti nei decenni precedenti, all’incirca fino agli anni ’80. Non più soggetti sociali e luoghi intesi come motore del cambiamento nella visione delle sinistre marxiste o del cattolicesimo sociale e oggetto dell’interesse degli intellettuali militanti. Il ritorno delle periferie e dei gruppi sociali popolari è semmai segnato da ansie e timori da parte della cultura progressista, che vi vede un mondo sconosciuto, ignorante, minaccioso, intriso di idee nazionaliste. Una paura che si accompagna a un leitmotiv mediatico che imputa proprio a loro, agli abitanti delle periferie, il successo delle nuove destre, sbrigativamente definite come populiste senza tuttavia curarsi troppo di definire in cosa consista questo “populismo”.
In questo quadro, una felice nota fuori dal coro arriva dalla pubblicazione di Popolo chi? Classi popolari, periferie e politica in Italia, a cura di Niccolò Bertuzzi, Carlotta Caciagli e Loris Caruso, edito da Ediesse nel 2019. Un libro che, come scrive subito Nadia Urbinati nella prefazione, «nasce da un proposito moto semplice: mettere in discussione l’idea che alle classi popolari vada addossata la responsabilità principale del successo delle destre populiste»1, rompendo una rappresentazione ormai già stereotipata per andare a vedere come “ragionano” veramente queste persone. Il volume presenta almeno tre motivi di interesse per lo storico orale: va a indagare la cultura, la visione del mondo, l’autorappresentazione e l’identità di quelle figure sociali intorno alle quali è nata l’oral history col proposito – a metà strada fra la ricerca e l’impegno – di “dare voce a chi non aveva voce” e verso cui si sta nuovamente orientando l’attenzione degli studiosi; si basa proprio sulla metodologia dell’intervista come strumento conoscitivo; permette di evidenziare le peculiarità della storia orale all’interno della vasta platea di discipline che hanno l’intervista all’interno della loro cassetta degli attrezzi.
La ricerca si divide in due parti. La prima, dove è più largo l’uso delle testimonianze, presenta i risultati della campagna di raccolta attorno ad alcuni nuclei tematici: il rapporto con la politica e le istituzioni; il lavoro; le condizioni sociali di vita con le loro articolazioni reticolari, le paure e le speranze; la questione dell’identità e il rapporto con l’immigrazione e gli immigrati. Nella seconda invece, con l’eccezione del primo saggio sull’informazione (TV e Internet) dove le interviste continuano a fare da riferimento, prevale la discussione teorica interna alle scienze sociali sul voto di classe, sul ritorno delle classi nella sociologia ed infine sulle indicazioni di azione politica che si possono ricavare da questo studio. Non è una conclusione inaspettata, dato che la preoccupazione che guida tutto il libro è eminentemente politica, ovvero la ricerca di cosa inceppi la costruzione di una nuova soggettività subalterna che si faccia agente di un’azione collettiva di cambiamento, intesa nei termini gramsciani indicati da Gayatri Chakravorty Spivak nel suo famoso Can the Subaltern Speak?2, non a caso richiamato. Tutti i saggi, anche quelli che si basano sui testimoni, sono comunque introdotti da una corposa discussione di merito con riferimenti alla letteratura scientifica e al dibattito relativo. Qui ci limiteremo a discutere la parte del lavoro che si basa sulle interviste, che sono l’oggetto del nostro interesse.
Le informazioni metodologiche sono piuttosto scarne. Le 60 testimonianze sono state raccolte tra il 2017 e il 2018 con il metodo dell’intervista “in profondità”, di una durata di 60-90 minuti e quasi tutte individuali, a Milano (quartiere Giambellino), Firenze (Le Piagge), Roma (Tor Pignattara) e Cosenza (centro storico e Rende), con l’ausilio di organizzazioni sociali del territorio nelle prime tre città e senza questa mediazione a Cosenza (di cui vengono ringraziati i bar), ponendo attenzione ad una rappresentanza paritaria di uomini e donne, coprendo tutte le coorti di età e selezionando profili di persone «con reddito basso o medio-basso, una situazione lavorativa precaria e/o poco qualificata, un titolo di studio non superiore al diploma, che vivono in case popolari (dove si è svolta la maggior parte delle interviste) o in aree immediatamente limitrofe»3. Certo qualche parola in più non avrebbe guastato: sul ruolo dei mediatori nel selezionare le persone, che si presume siano state scelte fra quelle in contatto con le organizzazioni sociali menzionate per Milano, Firenze e Roma – un elemento non neutro; sulla diversità delle culture locali – colpisce che alcune fra le opinioni più comprensive nei confronti dell’immigrazione provengano proprio dalla provincia di Firenze, zona di subcultura “rossa”; sulla stessa intervista in profondità – che sembra essere un’intervista non direttiva ma con un certo grado di strutturazione, caratterizzata da domande aperte e rilanci, ma non del tutto biografica e che Rita Bichi, nel suo manuale, definisce come «un oggetto misterioso» per la sua indefinitezza e la molteplicità di etichette che le vengono attribuite4; sul linguaggio utilizzato – dove non è chiaro se e quanto i testimoni si siano espressi in dialetto e/o in italiano – e sulle trascrizioni – che appaiono normalizzate; sull’interpretazione della fonte – portatrice dei propri filtri biografici, memoriali e culturali; sul rapporto intervistato/intervistatore – che non è problematizzato nemmeno per quanto riguarda le provenienze sociali dei due soggetti. Infine, non conosciamo la suddivisione numerica delle interviste per città.
Tuttavia lo storico orale in questo caso è costretto a mordersi la lingua della sua curiosità, comprendendo che il tipo di operazione editoriale e politico-culturale, pur non essendo destinata a un pubblico di massa, ha inteso costruire un prodotto che potesse essere letto da una platea di interessati alla materia – attivisti, politici, sindacalisti, studiosi, giornalisti ecc. – non attirati da questioni metodologiche, che appassionano semmai gli addetti ai lavori.
L’inchiesta – così viene chiamata – ha lavorato su quattro dimensioni, come dichiarano i curatori: la sensibilità al messaggio della destra; l’inclinazione all’autoritarismo culturale; il rapporto tra identità socio-lavorativa e rappresentazione politica; l’atteggiamento verso la partecipazione attiva e i conflitti sociali. Ma, come sostiene Caruso nell’introduzione, l’indagine si è data un respiro ampio: «Abbiamo indagato in che modo le persone si rappresentano la propria condizione sociale, a chi ne attribuiscono le responsabilità, come si rappresentano il potere e il suo ruolo nella società, chi temono, chi stimano, chi disprezzano, quando e perché si identificano in qualcosa e in qualcuno, quali siano le paure e le speranze, come si informano, quali pensano che siano le priorità politiche e sociali dell’Italia»5. Per quanto attiene alle condizioni materiali, i ricercatori hanno cercato di capire a quali venga data più importanza e se l’eventuale rabbia si indirizzi verso l’alto o verso il basso e come sia percepito l’alto, cioè da chi sia costituito il potere. Attenzione è stata posta, in linea con lo spirito del gruppo di ricerca, alla comprensione di cosa sia la “sinistra” per queste persone e il loro atteggiamento verso “la politica”, i consumi mediatici, i modi di informarsi e i riferimenti extrapolitici. Domande e problemi che balenano anche nella mente degli storici orali che seguono le rotte del sociale.
I problemi principali sentiti nelle periferie popolari che sono emersi sono: lavoro, crisi economica, casa, immigrazione. Intorno a questi nodi si articolano tutti i pensieri. Nel primo saggio Caruso e Bertuzzi ci rivelano che «tra le persone che abbiamo intervistato una cosa è molto chiara: in Italia non comanda la politica; comanda chi ha il potere economico, i grandi imprenditori, le banche, l’alta finanza»6. I politici più che come potenti sono percepiti come privilegiati ed esecutori, per mero interesse personale, dei dettami del potere economico in opposizione agli interessi del “popolo”. Ma, in maniera solo apparentemente paradossale, non c’è una sfiducia verso la politica, ma la convinzione che questa situazione sia una degenerazione degli ultimi decenni che ha investito la politica, i politici e i partiti, diventati indistinguibili fra loro. Un j’accuse che investe soprattutto la sinistra, vista in maniera indifferenziata e scomparsa dalle loro vite, venuta meno alla sua funzione di difesa dell’interesse collettivo e non più portatrice di istanze di cambiamento. Una sfiducia che però traghetta solo a un tiepido sostegno ad altre forze, di ripiego verrebbe da dire, come il M5S. Di fronte al disincanto però gli intervistati esprimono un bisogno di politica, di partiti, di presenza e forza dello Stato – che a quanto pare gode di più sostegno dal basso di quanto il main stream mediatico gliene imputi –, di ordine e di un’autorità delle istituzioni che però non è autoritarismo ma molto più probabilmente richiesta di protezione. C’è voglia di un nuovo partito di massa ma per delega, senza una partecipazione attiva in prima persona, di un qualcosa in cui riconoscersi. Di polarizzazione per orientarsi nello scenario politico ma anche di senso unitario proteso verso il bene comune contro la giungla del quotidiano, dove sono gli altri italiani a essere percepiti come avversari e responsabili dei fenomeni più negativi. Non esiste un “noi” collettivo, nazionale, in cui identificarsi ma c’è voglia di comunità, ed alcuni parlano della necessità di un “risveglio” collettivo per superare l’egoismo. Secondo gli autori in questa babele di idee e contraddizioni trova spazio di inserimento la destra, per due ordini di motivi: perché riesce in forma più compiuta ad evocare un’idea di comunità e perché, anche se le idee espresse propendono più verso il polo progressista anziché verso quello reazionario, i media le dipingono come reazionarie tout court favorendo un’identificazione con i partiti di destra.
Un coacervo di idee quindi, in cui si intravede però un filo conduttore nell’idea di giustizia sociale, un’idea rivolta al passato pur in presenza di una diffusa diffidenza verso tutto quello che odora di “vecchio”. Lo storico orale non può non restare colpito dal fatto che questa ridda di “rivendicazioni” affondi le sue radici in una rappresentazione del passato, di come le cose erano prima e di come non sono più, in un rapporto che è al tempo stesso di mito e diffidenza.
Nel secondo saggio Lorenzo Cini indaga le problematiche legate al lavoro, che legge percepite come “private”, chiedendosi se sia finita l’identificazione delle persone col proprio lavoro. Tuttavia il saggio tradisce in parte questa domanda. Quello che viene indagato è infatti il lavoro come spazio della costruzione politica di soggetti sociali collettivi, del lavoro come strumento per ottenere cambiamenti sociali e politici, un’idea di coscienza di classe data oggi per persa, che tuttavia andrebbe meglio storicizzata, ovvero dichiarando, pur essendo intuibile, a che periodo storico e a quali forme si fa riferimento? Il passato non è contrassegnato da un continuum infinito di coscienza di classe in senso marxista, semmai da momenti, fasi, periodi, ricorrenti e diversi nello spazio e nel tempo, in cui il lavoro è stato agente di aggregazione politica, per cause storiche identificabili e ricostruibili. Gli intervistati raccontano storie di mancanza di lavoro e di precarizzazione, di un’idea del lavoro come “fortuna”, di “cattivo” lavoro che genera sofferenze e sfruttamento. Il lavoro per loro continua ad essere il problema centrale della vita ma non c’è l’idea di cambiare la situazione agendo in prima persona ed in organizzazioni collettive. Sono questioni abbastanza note e più volte rimarcate negli ultimi decenni dalle ricerche e dal dibattito politico e sindacale. È importante ribadire questi temi, ma la domanda sull’identificazione delle persone con il proprio lavoro resta inevasa. C’è il disagio economico e sociale legato al lavoro, ma qual è il rapporto di queste persone con il proprio lavoro, con il lavorare, il fare? Se non indaghiamo questo aspetto non comprendiamo quali siano le forme di identificazione, ancor oggi all’opera, delle persone con il proprio lavoro, le differenze che esistono fra chi ha la fortuna di averne uno stabile, potendosi costruire un’identità di mestiere, e chi invece è imprigionato nel vortice della precarietà e cambia continuamente occupazione, settore e mansioni. Senza mettere a fuoco le identità attuali del lavoro, misurandone il cambiamento in prospettiva storica rispetto a quelle precedenti, non si fanno passi avanti nella comprensione del lavoro nel XXI secolo e i relativi nodi politici diventano fughe in avanti. Rimane comunque da segnalare che anche in questo saggio fa capolino la questione della rappresentazione del passato da parte dei testimoni in merito ai sindacati, negli stessi termini richiamati in precedenza. Nei loro confronti c’è al tempo stesso sfiducia e richiesta di maggior presenza, di tornare ad essere quello che erano e di non restare ancorati al passato, in un mix di rappresentazione e speranza.
Il terzo saggio di Caciagli è dedicato ai quartieri popolari di periferia. Qui a dominare è il disagio, il degrado della qualità della vita e il senso di abbandono, di cui paradossalmente sono viste come corresponsabili le associazioni di volontariato e il terzo settore che hanno facilitato la ritirata del pubblico dai servizi, riducendo il lavoro competente a volontariato e a lavoro malpagato. Nei quartieri precipitano in forma concreta tutti i nodi legati al lavoro, alla casa, alla sanità, alla sicurezza. Per gli intervistati, la politica presta loro attenzione solo in forma episodica, emergenziale e il più delle volte a fini elettorali. I legami sociali interni ai quartieri sono dipinti come sfilacciati, frammentati, se non assenti, anche a causa delle difficoltà che le persone devono superare per far fronte alla propria esistenza. C’è difficoltà a riconoscersi come quartiere, come comunità. Il futuro è visto con timore, per loro e per i figli, e con disinteresse nei più giovani. E di nuovo appare la visione del passato a cui far riferimento: «Molte persone ci hanno parlato con nostalgia di tempi diversi, in cui la coesione fra abitanti dello stesso luogo c’era, non perché non ci fossero problemi, ma nonostante i problemi»7. Non troppo inaspettatamente, una testimonianza getta luce su un’idea – che forse è un’invidia – probabilmente abbastanza diffusa: «a me piacciono i maghrebini che stanno con le sedie per strada e parlano tra loro. Come si faceva 45 anni fa anche da noi»8.
Il quarto capitolo, di Francesco Campolongo e Valeria Tarditi, si occupa dell’immigrazione e dell’identità nazionale. Vi trova conferma una lettura che si va diffondendo, e condivisa anche da chi scrive, molto lontana dalle rappresentazioni che liquidano, semplicisticamente e spesso in maniera sprezzante, problemi e atteggiamenti complessi sotto l’etichetta di razzismo. Gli autori avvertono che hanno scelto di riportare le opinioni degli intervistati così come erano, comprese le parti dure e politicamente scorrette. Intanto il sentirsi italiani è solo una delle identità che usano i testimoni – e qui non può non venire in mente Hobsbawm con il suo Qual è la patria dei lavoratori?9 – anche se l’italianità come identificazione emerge quando si parla degli immigrati, ma non necessariamente come contrapposizione, funziona più per stabilire la posizione in cui ci si situa nel discorso “io” e gli “altri”, “noi” e “loro”. Pur rifiutando a maggioranza di dirsi razzisti, gli intervistati sottolineano i problemi che vedono legati all’immigrazione, che gli autori raggruppano in «tre tipi di argomentazioni che spesso si intrecciano e si sovrappongono: le difficoltà di convivenza con persone di culture diverse; il timore della criminalità, l’insicurezza e il degrado urbano; la perdita del benessere economico»10. Alcuni temono per la coesione della comunità di appartenenza, altri che l’oggettiva condizione dei migranti possa indurli verso l’illegalità, aumentando la criminalità. Ma sopra a tutto c’è la visione dei migranti come privilegiati, che crea un nesso con la visione dei politici, come notano anche i curatori del libro in apertura. Il privilegio degli immigrati è pero di natura diversa, non più quello antico del notabile rinnovato nel presente, ma, al polo opposto della scala sociale, quello del povero che è più assistito, più facilitato in tutto e anche rispetto alla casa. Un’idea che chi scrive ha incontrato nelle proprie ricerche di storia orale come condivisa anche dagli immigrati di più lungo corso che risiedono in Italia da decenni. Oppure emerge l’immagine della scorrettezza di chi accetta di fare lo stesso lavoro in condizioni peggiori e/o per una paga inferiore – vecchia questione con cui ha dovuto fare i conti il movimento operaio fin dai tempi dei “crumiri” di antica memoria. In sintesi più che un’espressione di puro razzismo qui siamo di fronte al timore dell’immigrato come concorrente, competitor, che può essere ricondotta alla crisi economica e di risorse che ha creato una psicologia da Paese in “fila per il pane”, dove la lotta è fratricida e ogni argomento risulta buono, per risolvere la quale a poco servono le risposte di tipo prettamente culturalista. Una psicologia, un’ansia, su cui i partiti di destra si plasmano a perfezione, contribuendo ad alimentarla e cercando di virarla verso espressioni compiutamente nazionaliste. Scambiare questo tentativo politico per la reale espressione della cultura delle classi popolari, come spesso avviene, è però fuorviante. Gli stessi autori nelle conclusioni del saggio sottolineano che «il sentimento identitario nazionale dei nostri intervistati è debole in se stesso: non emerge infatti una rivendicazione orgogliosa di appartenenza simbolico-culturale alla nazione, che anzi viene descritta spesso come decadente. Tale sentimento però si fortifica nella relazione con chi proviene dall’esterno e serve a rivendicare la precedenza su molti diritti, in un gioco a somma zero»11 per poi approdare alla conclusione che «il “razzismo” sembra essere la forma storica che assume il disagio economico e sociale, e non il risultato di ignoranza e cattiveria così come suggeriscono alcune narrazioni […]. Il problema, dunque, non è l’immigrazione, ma le condizioni materiali di precarietà che accomunano italiani e migranti favorendo l’emergere di tensioni sociali»12. A riprova, il fatto che gli intervistati in diverse occasioni esprimano anche senso di comprensione, vicinanza e solidarietà verso gli immigrati quando non visti nella forma di competitor ma di persone in difficoltà, poveri, profughi ecc., e quindi come loro.
Infine l’ultimo saggio di Michele Sorice, quello sull’informazione, affronta un tema su cui negli ultimi tre decenni sono stati spesi fiumi di parole. Pur non offrendo un’analisi compiuta del rapporto con internet e la televisione, ne emerge un quadro più sfaccettato e articolato rispetto a quello che viene di norma veicolato di una popolazione imbambolata davanti alla TV, preda di qualsiasi fake news in rete, arrabbiata sui social e manipolata a piene mani. Gli intervistati sanno muoversi sia fra i canali televisivi che in rete, scelgono cosa guardare, diffidano di quello che sentono o guardano quello che già sanno essere in sintonia con i loro pensieri, adottano strategie. In poche parole fanno un uso ragionato dei media comunicativi.
Tirando le somme, si tratta di un libro che racconta il malessere popolare e delle periferie. Fuori dagli stereotipi dell’analfabetismo funzionale, della massa stupida e ignorante, dimostra che queste persone sono, oggi come ieri, in grado di articolare la propria visione del mondo in cui vivono. Certo i “subalterni” non parlano nel senso di Spivak, cioè come classe, e nemmeno nel senso di Laclau come “popolo”13, ma nondimeno sono in grado filtrare, decifrare e interpretare i propri contesti di vita e farsi le proprie idee, creare la propria “cultura”.
Una constatazione che è la stessa da cui muovono i fondamenti della storia orale, che proprio nella capacità di comprensione del mondo del soggetto, e quindi dalla sua capacità di articolare una narrazione ragionata anche se non necessariamente coerente, dipana la sua indagine, a cui si aggiungono altri nodi problematici, primo fra tutti la memoria e la sua costruzione. Come detto in apertura, il libro è interessante anche perché permette agli storici orali di mettere a fuoco le specificità della propria disciplina per indagare il popolare di oggi in prospettiva storica, portandovi un valore aggiunto. Nel lavoro che abbiamo discusso colpiscono alcuni aspetti in questo senso. Gli intervistati sembrano non avere un passato, sono come “fotografati” in un presente senza relazioni temporali, mancano di una biografia, di una storia di vita che ne riveli le esperienze personali, la cultura, i filtri mentali. Se per i giovanissimi il peso di questa assenza si fa sentire meno – ma non scompare – per i più avanti con gli anni ci priva di informazioni importanti ai fini della comprensione. Lo stesso dicasi per i luoghi, i quartieri, privi di una storia, della propria microstoria, capace di renderci conto di come arrivano all’oggi. Lo storico, orale nell’indagare i quartieri della periferia, non può prescindere dalla loro storia e dalla biografia del testimone legata a quel luogo, che a nostro avviso apporterebbe elementi di maggior conoscenza in chiave comparativa anche nel caso di ricerche come questa, che prendono a campione quattro diverse città italiane sull’asse nord-sud. Dire che i territori hanno una propria storia significa anche dire che hanno una propria cultura e subcultura, un proprio “paesaggio” umano, storico, memoriale, fatto di relazioni che mutano nel tempo. Ne abbiamo trovato traccia qua e là: quando, come e perché a Tor Pignattara si è smesso di stare con le sedie per strada a parlare?
Il tema dell’immigrazione a sua volta deve ormai essere storicizzato. Gli immigrati dall’estero ci sono da decenni, almeno dalla fine degli anni ’70. L’immigrazione ha una sua storia, con ondate diverse provenienti da paesi diversi. E ha una storia anche il rapporto degli italiani con l’immigrazione e con gli immigrati che da tempo vivono accanto a loro. Non possiamo continuarla a trattarla solo nella dimensione del presente. Com’è andata questa convivenza nei decenni trascorsi? Cosa ha funzionato e cosa no? Come e perché emergono le tensioni attuali? Sono davvero più forti rispetto a quelle del passato, ad esempio a quelle dopo la grande ondata degli albanesi a fine anni ’90? O dopo l’11 settembre? Cosa hanno di specifico le tensioni attuali? Potremmo continuare ad elencare domande, ma ci pare che il senso sia chiaro, così come è chiaro che per studiare questi temi oggi la storia orale sia uno degli strumenti più utili alla storiografia e più in generale alle scienze umane e sociali.
E poi c’è la questione del passato, che emerge con frequenza, della memoria del passato, della sua rappresentazione, della nostalgia, del mito. Un passato che da una parte appare un luogo indistinto e dall’altro sembra riferirsi molto precisamente alla Prima Repubblica. Un passato che fa da riferimento per misurare cosa è cambiato in peggio e ci riporta alle suggestioni thompsoniane sulla “rottura dell’economia morale”14. La storia orale può offrire un contributo unico nel ricostruire e decifrare questo rapporto e queste letture, per capire da cosa è costituito questo riferimento, come si è andato sedimentando, a quali valori rimandi, quanto c’è di vero e quanto di mitologico. Ed infine perché quel passato sia al tempo stesso terra agognata e luogo da cui fuggire, nostalgia e nostofobia come sostenuto da Lucy Taksa in un articolo di alcuni anni fa15, e quanto questo possa essere fattore di attivazione sociale e politica oppure freno e inibizione. Sono problematiche che il libro non tematizza né affronta ma che non sfuggiranno agli storici orali italiani e che possono costituire un proficuo campo d’indagine per il futuro.
1 Popolo chi? Classi popolari, periferie e politica in Italia, a cura di N. Bertuzzi, C. Cagiagli e L. Caruso, Roma, Ediesse, 2019, p. 11.
2 G. C. Spivak, Can the Subaltern Speak?, in C. Nelson L. Crossberg (eds), Marxism and the Interpretation of Culture, Houndmills-London, Macmillan Ecudation, 1988, pp. 271-313.
3 Popolo chi?…, cit. pp. 32-33.
4 R. Bichi, La conduzione delle interviste nella ricerca sociale, Roma, Carocci, 2007, pp. 23-24.
5 Popolo chi?…, cit. p. 31.
6 Ivi p. 44.
7 Ivi pp. 94-95.
8 Ivi p. 95.
9 Cfr: E. J. Hobsbawm, Qual è la patria dei lavoratori?, in Id., Lavoro, cultura e mentalità nella società industriale, Roma-Bari, Laterza, 1986, pp. 59-77.
10 Popolo chi?…, cit. p. 111.
11 Ivi p. 125.
12 Ivi p. 126.
13 Cfr: E. Laclau, La ragione populista, Roma-Bari, Laterza, 2008.
14 Cfr: E. P. Thompson, L’economia morale delle classi popolari inglesi nel secolo 18°, Milano, et al, 2009.
15 Cfr: L. Taksa, Labor History and Public History in Australia: Allies or Uneasy Bedfellows?, in «International Labor and Working-Class History», 76, 2009, pp. 82-84.