di Irene Bolzon, Chiara Scarselletti e Paolo Riccardo Oliva
Istantanee dal presente: il fermo immagine di un’esperienza di ricerca ancora in corso
Il presente contributo nasce con l’obiettivo di riflettere sui primi risultati del progetto “Istantanee dal Presente – Testimoni al tempo del Covid19” avviato dal MeVe – Memoriale Veneto della Grande Guerra e dai servizi culturali del Comune di Montebelluna (TV) nella primavera del 2020. Si tratta di un’occasione per fermare nero su bianco un flusso di interrogativi sull’esperienza del fare storia orale a distanza ma soprattutto per registrare a caldo alcune impressioni sul modo in cui il tempo presente, se segnato da significativi eventi sociali e culturali, tende a farsi rapidamente passato quando viene letto attraverso le lenti del ricordo e della memoria dei singoli individui. Le riflessioni che seguiranno proveranno a districare i nodi che inevitabilmente vengono a formarsi tra dinamiche individuali e collettive, tra forme di oblio precoce e ricollocamento delle esperienze vissute.
“Istantanee dal presente” è progetto partito con una call lanciata il 14 aprile 2020, nel pieno del primo lockdown deciso dalle autorità per contrastare la pandemia da Covid19. La call chiedeva alle persone, senza limiti di età e di provenienza, di scegliere da 1 a 10 oggetti in grado di raccontare i cambiamenti e le trasformazioni intercorse nelle loro vite dall’inizio della pandemia, di fotografarli e di inviare ai nostri contatti lo scatto accompagnato da un testo, un video o un audio che spiegasse le ragioni della scelta.
L’esigenza di avviare un progetto di questo tipo rispondeva a un bisogno condiviso con molti studiosi: registrare e documentare quanto stava accadendo in quelle settimane in cui stavamo collettivamente vivendo un’esperienza percepita come unica e, per molti versi, irripetibile. La dimensione dell’eccezionalità ha spinto molti di noi alla documentazione, quasi a voler scongiurare la patina di oblio che ha seppellito le grandi pandemie della storia contemporanea, sfuggite spesso all’attenzione degli stessi studi storici.
Il lockdown, l’isolamento forzato e il venir meno degli strumenti più elementari per condurre ogni tipo di ricerca aprivano inoltre in quelle settimane orizzonti inesplorati dati dalla combinazione di fenomeni inediti: l’assenza, fisica, delle persone e delle esperienze oggetto di studio e al contempo l’azzeramento delle distanze tra studioso e oggetto del proprio studio per chi si stava impegnando a documentare la pandemia mentre accadeva. Un ritrovarsi quindi a camminare pericolosamente lungo il confine facilmente oltrepassabile (o forse impossibile da tracciare) tra l’essere testimoni e al contempo ricercatori di un fenomeno ancora in corso.
La call, che invitava le persone a fermare la memoria di un tempo così eccezionale, da subito ha prospettato ai partecipanti la possibilità di essere intervistati in un secondo momento. L’espediente della call per ricercare “fotografie, oggetti e storie” era stato infatti concepito come il primo passo di un possibile esperimento di storia orale a distanza: nell’impossibilità di individuare un criterio soddisfacente che ci permettesse di selezionare a monte il campione degli intervistati in quella situazione, abbiamo chiesto direttamente ai potenziali interessati di manifestarsi. Un percorso alla rovescia, per certi versi, rispetto a un progetto di ricerca con tutti i crismi, ma che era forse l’unico possibile, in assenza delle mediazioni di solito offerte da enti intermedi come enti, istituti, associazioni libere o di categoria spesso così preziosi per l’avvio di ogni campagna di interviste.
Nel giro di poche settimane il progetto, avviato in collaborazione con AISO e con l’ISTRESCO – Istituto per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea nella Marca Trevigiana – ha raccolto settanta fotografie correlate da altrettanti testi. I partecipanti all’inizio dell’estate costituivano un gruppo abbastanza eterogeneo di testimoni caratterizzato però dalla presenza numericamente significativa di giovani donne che oltre ad aver partecipato in prima persona si erano fatte promotrici del progetto presso i propri familiari, amici o studenti.
L’andamento del progetto, nato per documentare in itinere una pandemia ancora in corso, ha visto fasi, tempi e modalità continuamente determinati dallo svolgimento dei fatti. “Lockdown”, “fase due”, “ondata autunnale”, “quarantena”, “terza ondata” sono locuzioni che tuttora costituiscono, nel senso comune, indicatori temporali a cui facciamo riferimento per collocare nel loro susseguirsi le fasi della pandemia. Per noi curatori del progetto “Istantanee” sono divenuti indicatori capaci di mettere in linea i diversi tempi di risposta del pubblico alle fasi del progetto, definendolo nel suo procedere fino ad oggi.
La fine del “lockdown” e l’inizio della cosiddetta “fase due” hanno provocato, per esempio, alla fine del mese di maggio, la brusca interruzione dell’invio delle fotografie. Erano venute meno molto probabilmente alcune delle condizioni che avevano reso possibile fino ad allora il progetto: il lento ritorno alla vita normale, gravato da difficoltà e da innumerevoli protocolli per chi riapriva le proprie attività, aveva sottratto alle persone il tempo dilatato del lockdown e gli spazi aperti alle riflessioni sulla propria esperienza o più semplicemente alle forme di svago offerte sul web, a vario titolo, anche dalle stesse istituzioni culturali nei mesi di chiusura forzata.
L’estate si è portata dietro anche la progressiva riattivazione di quei soggetti mediatori la cui presenza era stata annullata dal lockdown: per esempio l’Auser Monza-Brianza ha inviato il proprio corpus di fotografie, frutto di un lavoro collettivo, proprio all’inizio dell’estate proponendosi anche come partner fondamentale per la riuscita di una parte consistente del progetto.
Il venir meno delle fotografie ha portato all’avvio della seconda fase del progetto, con le interviste a quei partecipanti che si erano resi disponibili per incontrarci, chi da remoto (nel caso soprattutto dei testimoni geograficamente più lontani), chi in presenza. L’imbocco dell’autunno e l’aumento del numero di interviste effettuate si è sposata al rapido precipitare degli eventi, puntualmente registrato dalle parole dei partecipanti e dalle domande di noi intervistatori. Il ri-ascolto delle interviste in sequenza cronologica permetterebbe di cogliere prima le apprensioni per un possibile peggioramento del quadro e poi le paure o l’autentico sconforto e la disillusione generati dalle nuove chiusure, dalle zone gialle, rosse o arancioni e dallo scompaginamento di abitudini e relazioni dovuto ai provvedimenti presi nel periodo delle festività natalizie. Se molti degli intervistati nel corso dell’autunno facevano parte del nucleo originario di partecipanti alla call per la fotografia, molti nuovi testimoni si sono avvicinati nel corso dell’inverno grazie alla mediazione di soggetti come l’UTEM – Università della Terza Età di Montebelluna – o di persone che, avvicinatesi al progetto per svariate ragioni, anche professionali, hanno esortato conoscenti o colleghi a farsi avanti per rilasciare un’intervista.
L’ondata autunnale ha anche imposto al progetto tempistiche tutte da rivedere e domande di ricerca nuove: il DPCM 3 novembre 2020 richiudeva infatti i musei e sfumava del tutto l’ipotesi di inaugurare presso il MeVe una mostra dedicata al progetto programmata per il 27 novembre. A rendere impossibile la mostra c’era non solo la chiusura al pubblico del MeVe ma anche la constatazione di un umore pubblico ben diverso rispetto alla primavera: gli arcobaleni e le scritte “Andrà tutto Bene” sostituite dai disordini di piazza, il manifestarsi soprattutto via web di posizioni negazioniste e le numerose e più che legittime attestazioni di sofferenza da parte dei settori più colpiti come servizi alla persona, palestre, bar, ristoranti, strutture ricettive, agenzie di viaggio e il vasto e poliforme mondo della cultura. Per questo, anche sfruttando i contatti personali del gruppo di ricerca1, l’attenzione si è spostata verso i mondi più duramente colpiti dai danni prodotti dalle chiusure, provando inoltre ad intercettare un gruppo di soggetti del tutto (o quasi) assente tra i partecipanti della fase “primaverile” del progetto: coloro che avevano contratto il Covid19.
A oggi il progetto ha raggiunto 102 persone e conta 78 istantanee e 31 interviste realizzate. Per quanto riguarda le fotografie acquisite, come ricordato, si tratta per lo più di progetti provenienti da giovani donne tra i 19 e i 40 anni, con un alto livello di istruzione e nella maggior parte dei casi attive nel settore dei servizi e della cultura. Più eterogeneo risulta invece il nucleo degli intervistati, che vede una più consistente presenza maschile e una più elevata età media. Un dato da considerare è che diversi contributi ricevuti sono stati realizzati da soggetti collettivi, una modalità di partecipazione nata spontaneamente dal pubblico che ha aderito alla call: famiglie, gruppi classe, associazioni di volontariato, addirittura intere comunità2.
L’esigenza di restituire il senso del materiale raccolto arricchito dalle nostre riflessioni ai partecipanti e al pubblico ci ha spinti a immaginare una mostra, che verrà inaugurata il 4 marzo 2021 al MeVe.
Ricordare il presente: un viaggio tra memoria individuale e memoria collettiva
All’interno di un corpus di testimonianze piuttosto ampio e variegato la sezione di maggior interesse per indagare i meccanismi di ricordo e rimozione è costituita senza ombra di dubbio dalle interviste fatte a chi in primavera aveva mandato la propria fotografia.
Gli scambi con le persone intervistate rivelano innanzitutto una generalizzata e condivisa alterazione della percezione del tempo passato. Chi è stato intervistato in autunno si riferisce al periodo di marzo e del primo lockdown come se fosse un tempo molto lontano, nonostante siano passati in realtà pochi mesi. Mesi tuttavia caratterizzati da una vita densa e ad alta intensità, che per contrasto sembra rendere ancora più rarefatta la percezione dello scorrere del tempo proprio del lockdown (un tempo così dilatato da dover essere riempito – non senza fatica in alcuni casi – da film, canzoni, pensieri, riflessioni, passioni prima sopite, affetti…).
È proprio la fatica la sensazione che emerge dalle parole di Chiara Favaro, 30 anni, receptionist in un hotel di Parigi, che ha trascorso la quarantena assieme al marito e alla figlia piccola. La preoccupazione di «intrattenere» la bambina in modi sempre diversi e creativi si accompagna qui a una considerazione sull’uso del proprio tempo.
A volte era un tempo lungo, nel senso… che non passava perché non sapevo come riempirlo oppure mi era faticoso riempirlo, e a volte ho trovato che era un tempo… è come se recuperassi forse dall’altra parte del tempo che di solito non avevo o che non mi rendevo conto di avere. A volte si è talmente presi dal ritmo, ma è normale, della vita che non ci si pensa neanche magari a volte di occupare il tempo in un certo modo… ha fatto un po’ uscire dagli schemi, forse, della routine3.
Diversa è la definizione che offre Francesca Poggetti, archivista, per la quale i mesi di quarantena hanno coinciso con la gravidanza. Privata di una parte del suo lavoro, la donna scandisce il lockdown dedicando il fine settimana alla realizzazione di abiti per la figlia ed è proprio questo tempo, che lei definisce i «giorni del cucito», che viene descritto nella sua istantanea:
Per me è stato anche un tempo dolce, a livello personale, alla fine, perché… siamo rimasti a casa, si è creata un’atmosfera molto… quasi di protezione. […] Un tempo di attesa, sì, di attesa della gravidanza che è un’attesa, e ci si aspettava che le cose migliorassero e che si arrivasse a poter uscire4.
Molto spesso, nel corso delle interviste, emerge il ricordo dei ritmi frenetici che scandivano la vita prima del lockdown. Ritmi certamente non rimpianti, tanto che la possibilità di rallentare, se non anche di fermarsi, viene generalmente considerata in modo positivo e, in qualche caso, ricordata quasi con nostalgia.
Emblematico è il ricordo di Vanessa Cescon, studentessa di 19 anni, che pone proprio una riflessione tra il prima e quella pausa dettata proprio dal lockdown:
Io ho sempre avuto una vita molto frenetica, molto fatta di orari, schemi, per andare in più posti, o della scuola, lo sport, quest’ultimo anno l’autoscuola, ci sono stati un sacco di… più la vita, insomma, privata, sociale, che può avere una ragazza della mia età. E avere un po’ questo periodo mi ha permesso letteralmente di staccare, di prendermi e fermarmi, una cosa che, un po’ lo stacco dalla routine, ecco, e questo mi ha fatto bene5.
Di carattere opposto è la percezione di Valentina Rotta, 33 anni, segretaria dell’AUSER Monza-Brianza. Mentre il Paese si fermava, i volontari dell’associazione si organizzavano per proteggere gli anziani dal Covid portando loro spesa e farmaci a domicilio. Lo scoppio della pandemia ha quindi moltiplicato le richieste di assistenza e di conseguenza il lavoro organizzativo gestito da Valentina ha subito un notevole incremento tanto da farle probabilmente provare una certa invidia per chi invece disponeva, quasi suo malgrado, di giornate libere da incombenze.
Io lavoravo sempre. Giorno, notte, mattina, sera, sabato, domenica, cioè… l’unico giorno… perché mi ero stufata di vedere foto di tutti che facevano le torte, la pasta, gli gnocchi, ho detto: «Adesso faccio anch’io gli gnocchi!». […] Da una parte un po’ mi è mancato non avere questo tempo da buttar via, dove “buttar via” in senso buono, eh, non in senso spregiativo, ma da dire: «Oh… cosa faccio? Stamattina non faccio niente». Cioè quello che probabilmente a tanti è pesato a me un po’ è mancato non viverla così6.
Un denominatore comune a tutti gli intervistati è la percezione di non aver perso il tempo a disposizione ma di averlo riempito in modo consapevole, di averlo reso, ciascuno a proprio modo, fecondo. Queste sono ad esempio le parole di Tosco Giannessi, 72 anni, presidente dell’AUSER Monza-Brianza.
Io l’ho vissuto, cioè… non l’ho sprecato, l’ho vissuto, pur nelle difficoltà l’ho vissuto, appunto, nel rivisitare me stesso, nel, ecco, non ho dei vuoti, non ho perso tempo, l’ho vissuto, appunto… e questo mi porta a dire che è breve, nella mia visione non è un tempo lungo, è un tempo breve, proprio perché l’ho vissuto non l’ho sprecato. Non mi ha pesato7.
Se quindi, per le ragioni esposte, il tempo del lockdown primaverile viene già collocato in un passato apparentemente remoto e ammantato di un’aura che sembra quasi mitica, l’oggi ha contorni tutt’altro che definiti. Il ritmo viene ora dato dall’alternarsi delle restrizioni e delle quarantene personali e familiari, l’incertezza permea il quotidiano. Per la maggior parte degli intervistati l’insicurezza è vissuta con un certo disagio ma non per questo il tempo del presente assume meno valore o un valore soltanto negativo. Significative sono, a questo proposito, le parole di Mirca Da Riva, 49 anni, bibliotecaria e mamma di un bambino di otto anni.
E poi abbiamo cercato di… proprio in queste ultime settimane, con questa sensazione, no, di “arriva, arriva”, di stare con le persone. I nostri amici, sì… i figli dei nostri amici, di prendere tutte le scuse buone, ma non per far baldoria… mascherina, tutto quello che serve, però di vivere un po’ vicini se dopo ci separano, ecco. Di fare socialità di vicinanza, non so come dire. Non è sprecato stare un’ora fuori dai bambini che fanno basket a parlare con gli altri genitori, non è tempo perso, ha un valore8.
In questa dimensione la pandemia sembra assumere una capacità periodizzante assoluta: esiste una vita prima del Covid19 e una vita dopo il Covid19, come sottolinea scherzosamente Veronica Favaro: «Magari in un film si scambiano il bicchiere e dico: “Adesso non lo potresti più fare…!” e mi dico: “Ma guardati il film! Ma cosa ti perdi a pensare a ste robe assurde!”»9.
Diversi, poi, fanno fatica a collocare nel tempo la partecipazione al progetto, «potrebbe essere i primi di aprile? Non so non me lo ricordo»10, o ancora «sicuramente penso fosse il periodo di marzo deduco»11. L’indicazione del mese di marzo e dei primi giorni di aprile forse può suggerire qualche osservazione interessante: si tratta del mese in cui è iniziato il lockdown generalizzato e totale (ben diverso dalle forme più morbide e diluite che hanno caratterizzato la fase dell’autunno/inverno successivi), in cui si è diffusa forse una delle foto simbolo di tutta la pandemia (quella con i mezzi militari che trasportavano il gran numero di bare in Lombardia) e in cui la novità di quanto stava accadendo ha segnato in maniera indelebile le percezioni individuali e collettive. Nonostante i dati spaventosi della cosiddetta seconda ondata, l’attenzione generale sembra essersi soffermata a partire da ottobre su altre questioni: quarantene e tamponi per chi aveva i figli a scuola, proteste per la DAD o per le difficili condizioni di lavoro per diverse categorie, preoccupazione e autentico dolore per la prospettiva di un Natale distante dai propri cari. Marzo scontava l’impreparazione generale, ottobre vede invece le persone ormai abituate ai comportamenti imposti dal distanziamento sociale così come ai tragici bollettini con i dati di morti e contagi. L’autunno respira inoltre la rassegnazione generalizzata rispetto a una pandemia di difficile riassorbimento, contro la generalizzata convinzione primaverile di un fenomeno che si sarebbe risolto velocemente: «A differenza della prima ondata della pandemia, che pensavo si sarebbe risolta in pochi mesi, adesso provo angoscia di fronte a un futuro che mi sembra molto più incerto e nebuloso»12.
Molti testimoni, inoltre, a distanza di mesi non ricordano cosa hanno messo nelle fotografie, suscitando in alcuni riflessioni anche molto profonde sui meccanismi della memoria. È ad esempio il caso di Stefania Pavan, 36 anni, insegnante e storica orale:
Non sono andata a rivedermela apposta [l’istantanea] perché ho detto: «Vuoi che in così poco tempo ho già rimosso tutto?» e in effetti sì. Cioè, è questa secondo me la cosa… forte e anche un po’ spaventosa secondo me di tutta questa situazione. Perché quando si dice che “abbiamo la memoria corta”, abbiamo proprio la memoria corta. […] La dice lunga… non vorrei andare, diciamo, fuori dal seminato, però… è anche forse l’emblema, un po’ di quello che noi studiamo, del fatto che continuano a ripetersi le stesse cose, perché? Perché non ce se le ricorda!13.
Potrebbe in ogni caso trattarsi di un meccanismo fisiologico: ripreso il flusso di una quotidianità resa per molti aspetti difficile proprio dal Covid19, la partecipazione a un progetto che per qualcuno può aver costituito un’occasione di svago, più che di profonda esplorazione interiore, è senza ombra di dubbio un evento del tutto secondario, il cui ricordo è facile da sovrascrivere con altre emozioni o eventi successivi più incisivi. Tuttavia in molti casi l’istantanea primaverile ha rivelato il disvelamento di meccanismi interiori molto profondi: il tempo a disposizione, unito a questa inattesa occasione di testimonianza, ha permesso la manifestazione di percorsi interiori travagliati e di bisogni latenti di ascolto e di ridefinizione di sé stessi. Proprio per questo motivo colpiscono, nel caso dei testimoni più sensibili, anche i meccanismi di mancato riconoscimento. Ci sono testimoni che oggi non scatterebbero più una foto come quella, o che userebbero, per raccontare il tempo in cui si colloca l’intervista, temi o parole chiave del tutto diversi.
Un caso emblematico è, ancora una volta, Veronica Favero. La giovane donna e la sua famiglia hanno vissuto in prima persona l’esperienza del contagio proprio nella fase autunnale. La durezza dell’esperienza e le incertezze lavorative, unite al turbamento provocato proprio dal dibattito “negazionista” scatenatosi sui social in quelle stesse settimane, ha ingenerato un meccanismo di forte disillusione:
Quando il Covid mi ha toccato nel vivo, quando ho vissuto quei cinquanta giorni d’inferno, ho sofferto proprio tanto a leggere post nei social di cosiddetti negazionisti, mettiamola così. Mi ha proprio fatto male fisicamente. Quando ho fatto questa foto pensavo che ne saremmo usciti migliorati, avremmo magari apprezzato di più la vita, avremmo apprezzato di più gli altri, avremmo imparato a rispettare gli altri, avremmo imparato a rispettare il lavoro degli altri […]. Non so se il Covid ci migliorerà, non so se il Covid farà vedere il meglio di noi, perché quello che ho visto non è il meglio di noi: quello che ho visto è… tanta ignoranza14.
La raccolta di testimonianze ha fino ad oggi evidenziato anche un altro importante meccanismo: l’influenza esercitata dalle narrazioni pubbliche e collettive sul racconto della propria esperienza individuale. Molte fotografie mettono al centro arcobaleni e la celebre espressione “Andrà tutto bene”, più volte citata anche nei testi che accompagnano le istantanee.
Altrettanto presente è la retorica bellica:
Ti trovi ammalato e non sai neanche dov’è questa malattia, non si sa dove… da dove arriva… e ti passa davanti tutta la tua vita, sostanzialmente, per quanto mi riguarda, e quindi da quando, la notte che mi hanno detto, la sera, la notte che mi hanno detto che ero positivo, lì ho cominciato a focalizzare, a pensare che «eh, adesso comincia – diciamo – la battaglia»15.
Ricorrenti sono anche le espressioni belliche rivolte al Covid19, presentato come un nemico contro cui fare quadrato in maniera compatta, mettendo da parte ritrosie e individualismi.
Alcune delle “immagini simbolo” proposte dalla stampa soprattutto durante il primo lockdown si imprimono nei ricordi, fornendo spunti per una periodizzazione dei propri ricordi:
Una notte (una delle tante insonni) sono in cucina e invece di leggere o fare parole crociate, accendo la TV su RAINEWS 24. Proprio in quel momento stanno trasmettendo le riprese di una lugubre fila di camion militari che trasferiscono di notte, quasi in modo furtivo, le bare con i primi numerosi morti da Covid19, prevalentemente anziani. Lì ho capito la gravità di quanto stava succedendo16.
Non a caso marzo costituisce per molti il mese spartiacque, il tempo della consapevolezza e della comprensione. Mese che finisce per alterare anche la cronologia di alcuni eventi successivi: chiamati a collocare il momento in cui sono state scattate le istantanee molti testimoni indicano il mese di marzo, dimenticando che il progetto è partito ad aprile inoltrato.
Una presenza da non sottovalutare nell’elaborazione dei ricordi è senza ombra di dubbio quella dei social, per eccellenza punto di congiunzione tra un’«autobiografia culturale collettiva» e le «memoria autobiografica»17. Senza pretesa di risposta in questa sede, non è possibile eludere la domanda rispetto a come i tempi e i modi di un’autobiografia collettiva, che si esercita dall’alto attraverso la comunicazione politica e dal basso attraverso i social, influenzi i testimoni, i loro ricordi e la loro disponibilità a manifestarsi. Il fatto che a Natale non sia arrivata nessuna fotografia, nonostante i rilanci della call, è da mettere in relazione al fatto che non comparivano più dolci e lievitati sui social? In che modo un dibattito pubblico più concentrato sui vaccini, sulla politica e le sue crisi, sul piano economico ha spostato l’attenzione verso altre questioni distogliendola dalla rielaborazione di un’esperienza personale? Questi umori pubblici hanno distolto i singoli dall’ascolto di sé stessi così a lungo praticato durante i mesi del lockdown primaverile?
Non possiamo inoltre, crediamo, ignorare un’ulteriore questione: il passato autobiografico è frutto di una ricostruzione che attribuisce una collocazione ai ricordi e delinea i confini dell’oblio. Tendenzialmente la memoria umana si preoccupa di plasmare ciò che è passato e quindi ciò che può definirsi concluso e collocabile in una dimensione diversa dal qui e ora. Rievocarlo dopo lungo tempo significa richiamare al presente ciò che una persona decide di ricordare e di condividere con gli altri il proprio vissuto e il modo in cui lo ha interpretato. “Istantanee” ha probabilmente “interferito” con i tempi normali di rielaborazione del ricordo, congelando in itinere dei fermo-immagine di eventi ancora in corso. Noi studiosi e i testimoni siamo ancora immersi in una vicenda tutt’altro che conclusa, ponendoci al centro di numerosi effetti deformanti: probabilmente ciò che sembra dimenticato semplicemente non è stato ancora messo a fuoco dai tempi della memoria. Probabilmente non riusciamo a definire i contorni di fenomeni a noi molto vicini perché siamo impegnati a processare il presente immediato e i suoi stimoli. L’intero progetto ci permette di registrare e fissare gli eventi prima che questi siano fatti oggetto di un bilancio da parte dei testimoni: fare storia del tempo presente, intervistare le persone mentre sono “dentro” agli eventi è dunque un modo per giocare d’anticipo rispetto ai meccanismi dell’autorappresentazione? Il rifiuto dell’intervista da parte di chi ha sostenuto di non avere ancora le idee chiare su quanto accaduto o da chi chiedeva di poter dimenticare le difficili esperienze dei mesi appena trascorsi forse spinge a rispondere affermativamente a questa domanda, ma il dibattito in merito è ancora tutto da sviluppare.
Accanto all’elaborazione privata degli eventi e al suo interagire con dinamiche collettive va annotata un’altra questione di estremo interesse, ossia quella dei monumenti dedicati alle vittime del Covid19. Ci limiteremo in qui a citare due esempi emblematici e geograficamente vicini tra loro: la lapide posta nel cimitero di Codogno dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella il 2 giugno 2020 e il monumento “Sassi di memoria e comunanza” eretto nella vicina Casalpusterlengo.
La lapide dedicata dal Presidente ai «Caduti del Covid19» rappresenta il momento in cui il presente si istituzionalizza e diventa memoria. Due sono gli elementi che colpiscono: il ricorso alla retorica bellica dei «caduti» e l’assenza di un riferimento geografico. La stessa lapide, insomma, si sarebbe potuta apporre altrove nella medesima occasione – a Bergamo, per esempio – senza tuttavia mutare di significato: la più alta carica dello Stato rende omaggio a una comunità diventata simbolo della pandemia, un tempo che viene indicato come passato, anche se l’emergenza è ancora in corso18.
Per introdurre il monumento di Casalpusterlengo inaugurato a fine agosto 2020, invece, riportiamo le parole di Ottorino Buttarelli, 72 anni, ex preside, pittore, scultore e presidente dell’associazione Compagnia Casale Nostra, promotrice dell’iniziativa19.
Durante il periodo del lockdown eravamo in una situazione stressante, tutti chiusi in casa e vedevamo però una generazione della nostra città che stava scomparendo proprio così all’improvviso con uno stacco violento tutti assieme e ci sentivamo impotenti. […] All’inizio abbiamo buttato lì proprio una prima proposta sui social locali, abbiamo detto che dovevamo ricordarli in qualche modo. […] Pian piano è venuta avanti la prima proposta, ancora molto embrionale, abbiamo detto: «Cominciamo a portare dei sassi». Dei sassi di fiume, perché noi abbiamo vicino qui l’Adda e soprattutto il Po, e abbiamo detto: «Sassi del fiume Po», che erano i sassi del fiume locali nostri. E l’idea era di fare un cumulo, un cumulo di pietre20.
L’idea di costruire un monumento nasce quindi dal basso, dalla cittadinanza, che sente l’esigenza di ricordare, se non anche di celebrare, un’intera generazione che sta morendo (da ciò lo spunto della piramide spezzata). Alla necessità di fare memoria se ne accompagna un’altra:
Non dimentichiamo che in quel periodo lì avvenivano le morti senza, spesso, i funerali, senza un momento di ricordo, sono spariti anche i manifesti funebri perché si creava assembramento quindi veramente queste persone morivano veramente sole, eccetera21.
Il monumento diventa quindi una strategia di elaborazione del lutto individuale e collettivo in un tempo in cui i funerali non venivano celebrati e le notizie sul luogo di sepoltura dei propri cari erano difficili da ottenere. Passeggiando – magari in solitudine o con la famiglia – sul greto del Po alla ricerca della pietra più bella e scrivendo il nome del proprio familiare si compie quindi un percorso individuale che diventa comunitario quando essa viene posta assieme alle altre.
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