La sede della Casa della Memoria del rione Sanità si apre sulla strada, riprendendo uno dei tratti del quartiere che per primo è saltato ai nostri occhi: la fluidità tra spazio interno e spazio esterno, come se quest’ultimo fosse parte del primo – un prolungamento di ciò che ci appartiene nell’intimità ma che non abbiamo ritrosie a mostrare a tutti gli ospiti. E così via della Sanità 36 non fa eccezione: la porta vetrata si apre sul ciottolato scuro, accoglie profumi e rumori, e li integra dove si svolge la Scuola del territorio napoletana. Prima cappella votiva, poi officina, oggi è affidata all’associazione no profit Napoli inVita perché accolga le memorie di un quartiere ricco di storia e di storie, di cui i narratori di comunità intendono ricucire le trame, attraverso la Scuola condotta da Aiso con conduttori e docenti esperti.
Siamo pieni di entusiasmo quando ci incontriamo il giorno prima dell’inizio dei laboratori, un entusiasmo dettato dal progetto che ci unisce, ma anche dalla possibilità di vederci in presenza e costruire assieme idee e percorsi. «I lavori qui li abbiamo fatti tutti assieme, con l’aiuto delle persone del posto. Chi ha portato attrezzatura, chi il caffè e le paste, chi ancora il suo sorriso o la sua curiosità: tutti si sono accorti che questo spazio stava riprendendo vita, e stanno collaborando alla sua piena funzionalità», ci raccontano Luigi, Roberta e Lavinia, i ragazzi di Napoli inVita. E così, mentre definiamo gli ultimi particolari per il giorno successivo, entrano a trovarci il fornaio, dal lato opposto della strada, e un amico dell’associazione che, assieme a Luigi, dà un’ultima mano di tinta. Sembra sin da subito un posto di tutti, e questo fa già comunità.
Il giorno dopo piove, ma non ci spaventiamo: ci aspetta l’ex OPG, grande struttura che nasce come monastero, diviene poi carcere ed infine ospedale psichiatrico giudiziario, abbandonato nel 2000 e dal 2015 occupato da un collettivo di attivisti che ne ha riempito sale e silenzi con corsi di ogni tipo per l’aggregazione sociale e l’assistenza formativa e sanitaria nella zona di Materdei. Anche questo spazio si regge su una stratificazione di narrazioni, e sembra idealmente connettersi a ciò che proviamo a fare con questa Scuola. C’è più di quello che si vede: leggiamo sul muro bianco dell’aula in cui si tiene la prima lezione del laboratorio. Adottiamo questa frase come motto del nostro percorso laboratoriale, che da novembre – con i corsi di geoesplorazione, storia orale e digital storytelling, e con le visite di formazione a Reggio Calabria e Corleone – a marzo porterà all’inaugurazione della Casa della Memoria ed alla presentazione del lavoro compiuto a tutto il quartiere, cercando di restituire proprio ciò che non si vede ad occhio nudo.
I ragazzi e le ragazze che si sono avvicinati alla Scuola si siedono in semicerchio e, prima timidamente, poi con sempre più confidenza, prendono a raccontarci perché sono qui, quali aspettative e desideri li portano a voler ricostruire le storie della Sanità: alcuni hanno vissuto o vivono nel quartiere, altri amano raccogliere memorie e conoscono la storia orale, altri ancora sono curiosi, vogliono sapere di più di un luogo di cui si è parlato e scritto tanto e che è al centro di una nuova rappresentazione della Napoli turistica, in cui i quartieri insicuri sono divenuti epicentro di un’offerta culturale nuova, o forse antica, come la città ed i suoi abitanti. La prima considerazione che emerge da quanto Gabriella Gribaudi e Anna Maria Zaccaria raccontano, nel corso della lezione dialogata, sottolinea proprio questo aspetto: «Da quartiere chiuso, limite della città greco-romana, città dei morti perché luogo deputato a cimiteri e catacombe, oggi la Sanità è esempio di rivitalizzazione sociale e rinascita culturale attraverso fondazioni e cooperative che rendono attrattivo il quartiere, smontando l’aura della criminalità – che non compare nei racconti dei residenti, ma affolla le fonti giudiziarie – che spingeva le persone ad evitarla». Oggi per un aperitivo, per fotografare il Palazzo dello Spagnolo, visitare le catacombe o assaporare un dolce da Poppella, la Sanità ha aperto le sue porte a cittadini e non, mostrando anche la contaminazione con i nuovi abitanti che hanno deciso di determinare proprio lì la meta della loro migrazione. Non compare immediatamente, invece, il quartiere artigiano, cuore della produzione di guanti e prodotti in cuoio di alta qualità: a raccontarlo, anche attraverso il bel mediometraggio Mani di pelle è Antonio Caiafa, che affascina i partecipanti con le sue considerazioni, mai scontate, sul presente e passato del quartiere.
La geoesplorazione del giorno successivo è salutata dal sole e dalla voglia degli abitanti di raccontare e fermarsi a parlare con i neo-narratori di comunità: il quartiere viene suddiviso in tre macro aree – Fontanelle, Vergini e Miracoli/Cristallini – e, tra vicoli e volti, le domande si intensificano anziché diradarsi: quali economie reggono il quartiere? Sopravvive la produzione di scarpe e oggetti in cuoio oppure è definitivamente tramontata? Quale ruolo hanno le donne nella vita del quartiere? Quanto incidono le associazioni e cooperative sociali e culturali sul richiamo turistico? Qual è il rapporto tra gli abitanti ed il Comune? E gli spazi, come sono vissuti? Qual è il confine tra pubblico e privato, tra esterno ed interno, legale ed illegale, straniero e locale? Emerge l’idea di tracciare una mappa costruita dal basso, costituita dai luoghi pregnanti sinora incontrati nell’esplorazione del quartiere: una Sanità camminata dal basso, a piedi scalzi, oltre stereotipi e pregiudizi.
L’apertura e l’accoglienza nelle case da parte di potenziali testimoni ha colpito tutti noi: scorriamo le parole raccolte durante la geoesplorazione, le scandagliamo ed analizziamo, trovando ogni volta un senso altro da indagare, altre domande da porre, silenzi da ascoltare, sguardi da rispettare. Eccoci arrivati alla fine del primo laboratorio assieme e, consapevoli di essere solo all’inizio degli appuntamenti laboratoriali con la scuola del territorio, ci teniamo stretta la certezza che ogni ricerca è, per definizione, aperta, complessa, stratificata, e la nostra non fa eccezione.