di Patrick Urru
La Miséricorde, Università di Fribourg, mi accoglie con un doppio cartello posto alla destra di una delle tante stradine che portano all’ingresso. Noto l’aggiunta della traduzione in tedesco dei nomi delle due vie principali che delimitano lo spazio occupato dall’università; una bella grafia in azzurro, accanto alla dicitura in francese. Per un attimo ripenso ad alcuni cartelli monolingui lungo i sentieri dalle mie parti, dove capita di trovare delle aggiunte in lingua italiana accanto ai nomi delle località riportati in tedesco.
Percorro il vialetto alla ricerca della sala in cui si tiene il secondo convegno organizzato da Oralhistory.ch. Un nome che rivela il suo essere, prima di tutto, una piattaforma web, pensata per dare visibilità ai progetti di storia orale realizzati in Svizzera. Nata nel 2013, in pochi anni si è trasformata in una vera e propria associazione con l’obiettivo di supportare e mettere in comunicazione chi lavora con le fonti orali: enti, associazioni, ma anche singoli ricercatori. Organizza corsi di formazione e seminari per condividere buone pratiche e incentivare la creazione di nuovi progetti di storia orale, con un’attenzione particolare all’archiviazione e alla promozione di queste collezioni.
Alla fine del breve percorso, una freccia mi indica l’ingresso, ma è un’altra aggiunta, questa volta con un pennarello nero, che mi dà informazioni sulla sala in cui si terrà l’evento principale di questa giornata: la relazione di Anne Heimo, professoressa di Folkloristics all’università di Turku (Finlandia), nonché referente per l’Europa dell’International Oral History Association (IOHA).
Lo spazio che attraverso è molto curato e ordinato, mi infilo la mascherina, entro nel palazzo e mi metto in coda per la registrazione. Firmo la presenza, recupero un adesivo con sopra scritto il mio nome e me lo appiccico sul petto. Noto una signora con una valigia, appoggia due pacchi di volantini sul tavolo, accanto al foglio firme. Si tratta della pubblicità di un convegno organizzato da Memoriav – l’associazione per la salvaguardia della memoria audiovisiva svizzera – dedicato alla storia orale come patrimonio audiovisivo.
L’auditorium C è un’aula universitaria piuttosto grande con una struttura a gradoni; una finestra alla fine della scalinata dà la sensazione di poter salire fino al tetto. I saluti iniziali ricordano alla quarantina di partecipanti che, dopo una lunga attesa, c’era proprio la necessità di incontrarsi di persona per questo convegno dedicato al rapporto tra nuove tecnologie e storia orale. Una doppia proiezione alle spalle della relatrice però ci fa capire, se ce ne fosse bisogno, che la pandemia non è ancora un ricordo; l’ospite d’onore infatti ci parlerà via Zoom. La relazione della professoressa Heimo è dedicata alle memorie di famiglia e all’utilizzo delle piattaforme on-line, soprattutto social network, come mezzi di condivisione di queste memorie. L’incontro è stato molto ricco di spunti, mi limiterò a presentare solo alcuni passaggi.
La relazione si è aperta con una serie di considerazioni sul significato di Oral History: registrazione di memorie, esperienze e opinioni, come sostenuto dalla Oral History Society (UK); oppure vero e proprio campo di studi e metodologia storica utilizzata per raccogliere, conservare e interpretare le voci e le memorie delle persone, delle comunità, di chi ha partecipato a eventi storici, come affermato dalla Oral History Association (USA). La memoria come tema centrale, quindi, condiviso con altri filoni di ricerca, come per esempio Cultural Memory Studies e Life writing & autobiographical studies. La relatrice ha poi presentato brevemente alcune collezioni della Finnish Literature Society (SKS) che dal 1831 raccoglie, custodisce, studia e promuove la cultura finlandese; tra i vari materiali conservati ci sono anche migliaia di audio e videoregistrazioni. Riportando le parole di Alessandro Portelli e Michael Frish, la professoressa Heimo ha proseguito la sua relazione sottolineando l’importanza del significato di ciò che viene detto dalla persona intervistata. La storia orale è uno strumento utile per comprendere la natura del processo storico della memoria: come le persone riescono a dare un senso al proprio passato, come collegano la propria esperienza al contesto sociale, come il passato diventa parte del loro presente e come le persone intervistate riescono a interpretare la loro vita e il mondo in cui vivono attraverso il passato.
Riprendendo alcuni concetti chiave dei Memory studies, la professoressa Heimo si è soffermata sullo studio di una memoria che non ha confini, travelling memory, che deve viaggiare per rimanere viva e avere un impatto sugli individui e sui gruppi. Sono gli oggetti, le pratiche e gli individui portatori di memoria che si spostano (transcultural memory) e lo spazio della condivisione è sempre più spesso quello digitale (transnational memory). Nascono in questo modo, spontaneamente, archivi partecipativi di diverso tipo ed è il ricordo legato alla famiglia (family memory) quello che viene condiviso più spesso: una fotografia di un parente, quella di un luogo oppure quella di un oggetto. Per chiarire l’importanza della memoria famigliare, la professoressa Heimo cita un passaggio tratto da una recente pubblicazione di Radmila Švaříčková Slabáková, Family Memory Practices, Transmissions and Uses in a Global Perspective: «Family is the most important memory community […] Families shape our understanding of individual and collective identities. Stories recounted in families have impact on our historical consciousness». A questo punto la relatrice si chiede, probabilmente un po’ provocatoriamente, se sia ancora necessario intervistare le persone per indagare il tema della memoria. In un mondo che ci vede sempre connessi, in cui ognuno può condividere come e quando vuole la propria storia, i propri ricordi, e costruire un archivio della memoria attraverso un processo partecipativo, che senso ha l’intervista?
Verso la fine della presentazione, la relatrice ci mostra una serie di post pubblicati su Facebook e ci illustra brevemente uno studio che ha realizzato. Emerge abbastanza chiaramente che quello della professoressa Heimo è un approccio etnografico allo studio della memoria, una sorta di osservazione partecipante in ambiente digitale, in cui la ricercatrice interagisce con le persone attraverso dei post oppure si sofferma ad analizzare le relazioni che intercorrono tra chi condivide il proprio ricordo e gli utenti.
Alla fine della presentazione mi avvicino al microfono, perché quell’affermazione sulla presunta inutilità dell’intervista mi ha colpito. Penso: ma è proprio dall’incontro tra intervistato e intervistatore che nasce il racconto. Fin dall’inizio, dai primi contatti, la memoria inizia a richiamare eventi, sensazioni, immagini che, in una qualche forma, andranno a comporre la storia. Il tutto si concretizzerà in un’intervista, una fonte che, auspicabilmente, sarà archiviata. È evidente che la professoressa Heimo non intendesse negare tutto questo, anzi, ma piuttosto ricordare che esistono altri campi di ricerca che indagano lo sfaccettato mondo della memoria. La presentazione si chiude con l’avviso che dopo la pausa inizieranno le sessioni parallele e il pubblico si potrà accomodare nelle aule messe a disposizione dall’università. Per ciascuna sessione – Histoire orale et enseignement/Oral History im Unterricht, Histoire orale et recherche/Oral History und Forschung, Public History – sono stati organizzati due incontri di un’ora e mezza ciascuno, uno al mattino e l’altro dopo la pausa pranzo.
Terminata la pausa caffè, decido di partecipare al workshop dedicato agli archivi, organizzato all’interno della sessione Histoire orale et recherche/Oral History und Forschung. Contemporaneamente si svolgono gli altri due seminari: quello della sessione Histoire orale et enseignement/Oral History im Unterricht, per esempio, illustra le potenzialità di una app gratuita realizzata in francese (Fuir la Shoah) e tedesco (Fliehen vor dem Holocaust); pensata per far interagire gli studenti con le testimonianze delle persone sfuggite alla Shoah. L’incontro della sessione Public History, invece, è dedicato alla piattaforma notreHistoire.ch in cui le persone che si iscrivono possono caricare fotografie, video, audio, e condividere le proprie memorie con il pubblico.
Il workshop dedicato al Sozialarchiv di Zurigo è stato utile per avere un’idea del materiale conservato, ma soprattutto per conoscere il punto di vista di un archivio che raccoglie la documentazione prodotta da singoli ricercatori oppure enti. L’archivio si pone infatti come punto di riferimento per tutti coloro che si occupano di temi legati ai cambiamenti e alle questioni sociali, ai movimenti, etc. Non raccoglie solo fonti orali, ma varie tipologie di documenti, da manoscritti a fotografie digitali. Non è stata dedicata una sezione particolare alle fonti orali che quindi si trovano sia in fondi di specifici progetti di storia orale, sia in fondi personali oppure di enti. Per questo motivo non è semplice trovare l’informazione relativa a questa documentazione all’interno del catalogo on-line. Alcuni fondi di interviste sono stati completamente digitalizzati ed è possibile ascoltarne un frammento caricato sul catalogo. Per consultare l’intera intervista, ma anche la trascrizione oppure altra documentazione di corredo è necessario recarsi in archivio. Su questo punto, il relatore ha sottolineato un tema interessante legato al fatto che oggi i prodotti della ricerca debbano essere il più possibile open access; conciliare questo aspetto con la necessità di tutelare chi ha rilasciato l’intervista rimane un nodo da risolvere. È stato sottolineato più volte dal relatore che tutte le questioni legali che coinvolgono intervistatore, intervistato e istituzioni partner della ricerca, devono essere chiarite prima che il materiale entri a far parte dell’archivio. È importante sapere chi sono le persone intervistate, chi è l’intervistatore e se la documentazione consegnata è completa; chiariti questi aspetti, l’archivio è pronto ad accogliere il materiale per procedere all’inventariazione ed, eventualmente, alla digitalizzazione.
Al termine della presentazione ci attende un buffet, preparato in corridoio, proprio di fronte agli ingressi delle aule in cui si svolgono i seminari. È possibile prendere cibi e bevande da consumare all’aperto, seduti sulle scale del cortile subito fuori dall’ingresso dell’università.
Passo gran parte della pausa pranzo in compagnia di due storiche: Renate e Ursula. Commentiamo i seminari del mattino, ma sono curioso di conoscere lo stato dell’arte della storia orale in Svizzera. Secondo Renate si è agli inizi, si stanno scoprendo le potenzialità di questa metodologia, cercando di vincere le resistenze del mondo accademico. Resistenze di cui mi aveva parlato anche un’altra ricercatrice durante la pausa del mattino. Partecipava al convegno per prendere contatti con il Sozialarchiv, in cui voleva depositare le interviste che stava svolgendo per il suo progetto dedicato alle migrazioni in Svizzera.
Renate aggiunge che uno dei temi più indagati attraverso le interviste è quello della Seconda guerra mondiale. Le persone hanno voglia di raccontare, hanno voglia di testimoniare la loro presenza, quasi a voler dire che essere “neutrali” non significa non far parte della storia. Inoltre, uno dei problemi legati al fare interviste in Svizzera è la lingua. Quando si raccoglie una storia raccontata in tedesco svizzero come si trascrive? Non tutti lo capiscono e poi non è uguale in tutti i Cantoni. Bisogna tradurlo in Hochdeutsch, quello che si impara a scuola.
Parliamo delle iniziative del pomeriggio. Ursula è interessata al museo, come me; Renate, invece, seguirà il seminario dal titolo Histoire orale – une méthode de recherche participative?/Oral History – eine partizipative Forschungsmethode?, dedicato al ruolo delle fonti orali nel progetto della Commissione peritale indipendente (CPI) internamenti amministrativi. Il terzo seminario, invece, è dedicato all’utilizzo della storia orale nell’insegnamento della storia ambientale. Viene presentata una proposta didattica pensata per gli studenti della scuola secondaria che si pone l’obiettivo di far conoscere i luoghi attraverso l’esperienza e l’incontro con chi li conosce e li abita. Gli studenti diventano anche protagonisti del paesaggio nel momento in cui si trovano a restituire l’esperienza che hanno vissuto attraverso, per esempio, la costruzione del proprio paesaggio sonoro.
Dominik Streiff, oltre che essere curatore e vicedirettore del museo storico di Thurgau è anche co-presidente dell’associazione di storia orale svizzera. La prima parte della relazione è dedicata alla presentazione di due progetti che compaiono anche tra quelli presentati sul sito dell’associazione. Il primo è L’Histoire c’est moi. Questo è il titolo della mostra realizzata a partire dalle videointerviste raccolte per uno dei progetti di storia orale più importanti del paese; oltre 500 storie dedicate al ruolo della Svizzera durante la Seconda guerra mondiale. Da questo progetto sono stati realizzati anche una serie di documentari, ma anche materiali didattici. Questa grande campagna di raccolta di interviste, iniziata alla fine degli anni Novanta, ha dato il via al secondo progetto che ci viene presentato: Humem. Una serie di videointerviste con persone che nella vita si sono dedicate a progetti nel settore degli aiuti umanitari oppure in quello dei diritti umani. Anche in questo caso ne è nata una mostra e le interviste sono state depositate nell’Archiv für Zeitgeschichte. L’ultimo progetto, invece, nasce all’interno del museo di Thurgau nel 2014 ed è dedicato alla storia industriale della città. Un sito internet raccoglie gli spezzoni di alcune videointerviste realizzate fino a questo momento, ma anche fotografie di oggetti legati alla produzione industriale. L’intento è quello di mettere insieme varie tipologie di fonti all’interno di uno spazio virtuale costruito anche grazie all’aiuto dei cittadini. In questo caso però l’idea non è quella di consentire all’utente di caricare autonomamente i contenuti, ma di spingere le persone a contattate il museo per condividere la propria storia oppure consegnare un oggetto o una fotografia. Il relatore prosegue evidenziando alcune criticità. La prima, dove salvare il materiale digitale per garantire una conservazione a lungo termine? Ci sono delle difficoltà nell’utilizzo dei server dell’amministrazione cantonale, quindi è necessario individuare dei servizi esterni, scelta che pone però un problema di trasferimento dei dati. Altra questione: come comunicare il progetto? La maggior parte delle persone intervistate sono anziane e potrebbero avere delle difficoltà a utilizzare il sito. La soluzione è quella di creare degli eventi aperti al pubblico, come per esempio presentazioni, mostre ed Erzählcafé per raccontare il progetto e restituirlo alla comunità. L’ultimo tema affrontato riguarda il museo. Il relatore si chiede se questa istituzione sia quella più idonea a conservare fonti orali. Forse esistono altre realtà sul territorio che possono occuparsi della gestione di questo materiale. Sì, ma quali? Un’altra domanda lasciata al dibattito finale riguarda il ruolo del museo nella raccolta di interviste. Può un museo produrre fonti orali? Se sì, a quale scopo? Il pubblico, evidentemente a conoscenza delle caratteristiche del museo e del territorio in cui opera, era d’accordo nel ritenere che l’ente potesse e dovesse continuare a occuparsi di progetti di questo tipo, considerati una via interessante per avvicinare l’istituzione alla comunità.
Fuori dall’aula incontro Renate. Mi dice di essere rimasta piacevolmente colpita dal seminario dedicato al progetto sulle memorie degli internati amministrativi. Nel frattempo ci raggiunge anche Ursula e insieme ci incamminiamo verso l’uscita. Chiedo a Renate cosa l’ha colpita di questo seminario sugli internati. Una questione di soldi. I coordinatori del progetto sono stati pagati per fare le interviste, perché agli internati non è stato dato nulla? Insomma, hanno dedicato il loro tempo a questo progetto, perché chi fa le interviste sì e loro no? Non conosco nulla di questa vicenda, ma, sulle prime, queste domande mi indispongono. Rimango senza parole, ma in fondo, mi sembra una questione più che legittima. Ci salutiamo e ci scambiamo i contatti. Tiro fuori una penna per scrivere il mio indirizzo e-mail. Ursula e Renate mi porgono un biglietto da visita.
Prima di andare in albergo, giro senza una meta precisa. Le vie della città sono deserte, i negozi chiudono presto il sabato pomeriggio, quasi tutti intorno alle quattro. Su alcuni balconi sono ancora esposte le bandiere arcobaleno con la scritta “Oui, je le veux”; ricordo del referendum sul “matrimonio per tutti”. Ripenso a questa giornata così intensa, a tutte le finestre che mi si sono aperte su realtà e progetti molto interessanti. Penso con grande piacere alle molte sollecitazioni che hanno messo in discussione alcune certezze su questo mondo che chiamiamo storia orale.