di Federica Lizio
Intellettuali, culture locali, archivi orali: al centro l’idea che la storia orale in Italia sia stata, per alcuni decenni, un movimento largo, che ha mobilitato una generazione di intellettuali “diffusi”, attivi anche al di fuori dei circuiti e dei luoghi più noti, che dagli anni Ottanta in avanti hanno condotto ricerche, scritto libri, fondato associazioni, spesso registrato e conservato interviste.
Di loro sappiamo poco. Li siamo andati a cercare. Abbiamo chiesto loro di raccontarci traiettorie personali di vita e di ricerca e di dirci che cosa è rimasto dei loro archivi, dei documenti che hanno raccolto, e a chi pensano di consegnare la loro “eredità materiale” fatta di nastri e cassette con le mille voci che hanno ascoltato. Ne sono usciti degli incontri singolari, illuminanti, talvolta toccanti.
Dopo Rosarita Colosio, Camillo Pavan, Giovanni Rinaldi, Gastone Pietrucci, Giulio Soravia, il Circolo della Rosa e Mario Davanzo, incontriamo Francesco Pagani, musicista e ricercatore di canzoni e balli popolari nella Lessinia, un’area montana a nord della provincia di Verona. Lo intervista Federica Lizio, studentessa di Antropologia che lo ha conosciuto a Venezia nell’autunno del 2021. Partendo dalla comune passione per la musica e per la danza, il colloquio con Federica porta Francesco a raccontare di sé, delle sue ricerche di storia orale, del suo percorso di vita e anche di un’antica militanza politica che ha trovato nella ricerca storico-sociale e nello spettacolo di strada nuove modalità per esprimersi.
- L’incontro con Francesco Pagani
Incontro Francesco Pagani a Venezia, mentre suona l’organetto insieme a un altro musicista, in occasione della mostra “Ritratti di Commedia… Divina”, presso lo Spazio Espositivo Badoer il 30 ottobre del 2021. Suonano musica folcloristica per cui gli chiedo di restare in contatto per poter seguire le feste popolari nei dintorni. Ci vediamo per provare a organizzare un evento musicale, ma nel presentarsi meglio, Francesco mi racconta della sua avventura in Lessinia, negli anni ’90, alla ricerca di musiche e balli tradizionali nel Veronese. Gli propongo un’intervista e il 27 luglio siamo in Baum – la biblioteca di area umanistica di Ca’ Foscari – a registrare.
- Francesco e la musica
Francesco è nato il 22 luglio 1956, a Verona come i suoi genitori; eredita il cognome da un nonno che parlava il cimbro e proveniva dalla contrada omonima (Contrada Pagani), la più alta della Lessinia. Ha la terza superiore come disegnatore meccanico e non ha potuto continuare a studiare per questioni economiche. Ha passato i primi cinque anni di lavoro nelle acciaierie Galtarossa per poi essere impiegato alle ferrovie per quasi quarant’anni.
È a scuola che approccia la musica e mi racconta di quando, in seconda media, attendeva il suo turno per mettere per la prima volta le mani sulla pianola che l’insegnante aveva portato in classe:
Io ero in ansia… Non avevo mai avuto strumenti perché soldi non ce n’erano. Per me non era un pianetto così, era un organo! Era una roba irraggiungibile. Bene, stava arrivando il mio nome e … suona la campanella! Mi è rimasta lì (indicando la testa) per tutta la vita quella cosa che non avevo suonato quelle tre note lì. Da lì ho cominciato a comprarmi lo scacciapensieri, poi il flauto dolce e attraverso le istruzioni di questa insegnante ho iniziato a suonare il flauto.
Francesco parte, dunque, da quelle nozioni di teoria musicale imparate a scuola per iniziare a studiare il flauto e ogni volta che s’interessa a uno strumento lo fa con curiosità. Il bambino che non ha potuto suonare quelle poche note adesso ha fame di accordi, di melodie e di errori; che le note siano perfettamente intonate o meno non importa. Per lui, ciò che conta è quello che la musica trasmette e quindi, di rimando, ciò che si trasmette allo strumento:
Suonavo sempre al buio perché esalta di più il suono e ascolto quello che suono… Senza distrazioni, senza la distrazione dello spartito. Devo sentire il suono, svuotare la mente […] deve essere una cosa automatica quasi, come mangiare. La mente deve star concentrata sulla melodia e non su cose diverse.
Passa poi alla chitarra, studia sempre da autodidatta la pianola e qualche anno più tardi si appassiona all’organetto diatonico:
Ho visto che un amico aveva preso un organetto diatonico usato e voleva prenderne uno migliore. Mi ha incuriosito anche se non lo capivo bene. Ma da curioso, mi piaceva imparare anche l’impossibile; tutti possono arrivare a qualsiasi livello in base alle proprie possibilità; magari sono stonato ma posso cantare per esempio, posso imparare a farlo e raggiungere un livello dignitoso per il mio punto di partenza. L’ho comprata per 250 mila lire. E mi trovo questa cosa qua che non ci capivo un fico secco.
Prende lezioni con vari insegnanti, partecipa ad alcune residenze di studio intensive a Treviso e inizia a studiare lo strumento, per poi “mollare tutto” e imparare a suonare “ad orecchio”, perché così vedeva fare:
Tutto il repertorio tradizionale lo sto mettendo in pratica. E riesco perché prima l’ho assimilato, ho assimilato il modo di fare musica dato dall’improvvisazione, a orecchio. Se avessi studiato gli spartiti non avrei fatto ‘sta roba, invece così riesco a farla… La musica ce l’ho nella testa e va nelle dita.
L’organetto diventa così il suo strumento di riferimento, con il quale si esibisce ormai da lungo tempo: dal 1994 suona in un gruppo di musica popolare veronese e veneta di nome “Cantafilò” e da circa quindici anni accompagna musicalmente le performance del burattinaio Maurizio Gioco, in giro per l’Italia. Il repertorio cui accenna Francesco è proprio quello che ha cercato, documentato e praticato durante la sua ricerca in Lessinia alla fine degli anni ’80.
- Com’è cominciata la ricerca
Tutto è partito da quando ha iniziato a occuparsi di danza; su invito di un amico si unisce a un corso di balli folcloristici quasi per gioco, finendo poi per appassionarsi e diventando successivamente anche insegnante di danze popolari.
Si ballava in campagna perché non c’erano palestre. […] E lì ho cominciato ad avere contatti col ballo tradizionale, balli che provengono da Israele e così via. Mi è piaciuto, ho iniziato a seguire corsi in giro per l’Italia. Poi nell’ ‘85 volevo saperne di più e allora mi sono iscritto per diventare istruttore di danza tradizionale etnica. Mi sono iscritto con Pino Gala, sono stato due anni e ho avuto come insegnanti Roberto Leydi, etnomusicologi [come] Antonio Sparagna, altri ancora. E lì mi sono perfezionato su come fare le interviste. Pino Gala ci portava a vedere i saltarelli, ci faceva vedere i video e sono entrato in un mondo diverso da quello che si poteva avere in palestra. Mi è piaciuto e da lì son partito con queste ricerche.
Entrare in contatto con questi ricercatori, con le loro pratiche mentre s’interessava alle danze popolari ha fatto sì che in lui sorgesse l’esigenza di investigare maggiormente le tradizioni coreutiche del suo luogo di appartenenza, che nel sentire comune – mi racconta – s’immaginavano oramai perdute:
Tutti dicevano che il ballo a Verona era scomparso ma io pensavo che se il canto era sopravvissuto, allora ci doveva essere anche il ballo… Possibile che si balla dappertutto e non si balla a Verona?
La ricerca prende così avvio, nel tentativo di ritrovare insieme ai balli, assopiti tra le memorie delle vette, anche una parte della sua identità.
- Muoversi, ascoltare, restituire
Così inizia a documentarsi alla Biblioteca Civica di Verona passando circa due anni a raccogliere informazioni su tutto ciò che riguardasse la musica popolare veneta:
Quando andavo in biblioteca e leggevo una poesia o un canto, andavo nella bibliografia e cercavo tutto quello che riguardava [il ballo], andavo a cercare i libri e da lì partivo e cercavo ancora. Altrimenti come facevo a sapere dove andare? […] Ogni giorno finivo dal lavoro, andavo in biblioteca e passavo un paio d’ore lì. Mi scrivevo i titoli e pian piano cercavo i libri da consultare. E così ho trovato un po’ di nomi, manoscritti che ho fotocopiato nel libro. Chiaramente ho fotocopiato quello che mi interessava e allora ero indirizzato sui balli.
Insieme ad alcuni amici tra cui il coautore del libro Davide Fiorini, iniziano a muoversi tra i borghi della Lessinia per provare a incontrare vecchi suonatori della zona, custodi della memoria collettiva di canti e balli popolari autoctoni che vantano talvolta una storia secolare.
Ed è proprio qui che la musica gioca un ruolo centrale nella ricerca su campo di Francesco, perché ponendosi come allievo musicista – pronto a registrare, provare e ripetere di volta in volta le melodie – gli è stato possibile costruire una relazione molto più diretta, alla pari, semplice e immediata rispetto a quanto sarebbe accaduto senza. In questo senso la musica è stata una chiave fondamentale per la sua ricerca su campo, un elemento che ha contribuito ad accelerare le dinamiche relazionali: ha ridotto la diffidenza che si genera nell’incontro etnografico, trasformando l’intervista in un momento di condivisione, di gioco, di scambio reciproco. Per intercettare i possibili testimoni, i due ricercatori si rivolgono a due figure che, secondo loro, possono facilitare la ricerca:
Andavamo nelle contrade, dal prete e al bar. Il prete conosce tutti e tutti vanno al bar. Allora andavi lì e chiedevi se nell’altra contrada c’erano musicisti o danzatori e allora ci indirizzavano e si andava.
Rivolgersi a queste persone aveva un altro vantaggio perché permetteva loro di presentarsi con la loro referenza, guadagnando fin da subito un po’ di fiducia in più:
Spesso [gli anziani] ti scambiavano per gente che voleva sapere i loro affari oppure perché pensavano fossi l’esattore delle tasse o qualcuno che voleva fregarli in qualche maniera. Allora dovevi essere accompagnato da un nome che era quello del prete o del barista. Allora si andava da qualcuno indicato, si faceva capire la prima volta chi eri, chi ti aveva mandato, cosa volevi, cosa ti interessava. E loro sistematicamente dicevano “non mi ricordo niente, so poco”, e io dicevo “Beh, posso tornare. Magari tra qualche mese”. “Eh, se mi viene in mente qualcosa…”. Io passavo, facevo una chiacchiera e via.
Così Francesco ritornava dai cantori dopo qualche settimana, chiedeva se ricordassero altro rispetto a musiche e canti che solevano praticare, suonava con loro, chiedeva dei balli e scriveva tutto a mano inizialmente, su foglietti sparsi. Poi riuscì a procurarsi un registratore a cassette e iniziò anche a filmare interviste, esecuzioni musicali e spiegazioni dei balli ad esse annessi. Purtroppo non tutto è rimasto fisso sui nastri perché, una volta che aveva acquisito le informazioni che gli interessavano, Francesco seguiva a riutilizzare quegli stessi nastri per imprimerci nuove informazioni. Ritornava più e più volte dai suoi informatori nel tentativo di riempire lacune, sistemare le informazioni precedenti e verificare quanto era stato detto, riproponendo le stesse domande che aveva già fatto per valutare che gli intervistati rispondessero allo stesso modo:
Ritornavo per verificare se c’erano varianti in quello che mi avevano detto prima. Questo perché i ricordi, dopo anni e anni possono cambiare, non possono essere lucidi. […] Loro erano fermi da 30 anni e magari possono avere delle difficoltà per ricordarsi.
Pian piano però tutto questo materiale iniziava ad accumularsi, formando un corpus di testimonianze orali di cui Francesco era l’unico depositario e che sentiva l’urgenza di restituire alla comunità veronese. Così, tra la curiosità, il gioco e la sfida personale (si riteneva difficile se non impossibile riuscire a recuperare queste fonti), Francesco e Davide decidono di raccogliere tutto in un libro:
Ho scelto di scrivere il libro perché ero io l’unico ad avere in mano tutto questo materiale – tra video, registrazioni – tutto questo materiale sul ballo veronese. Non c’era niente del genere e mi sentivo responsabile. […] Non l’ho fatto per avere soldi, ma per non perdere la mia identità. Tu con questi balli, ritrovando i canti, i balli, ritrovi te stesso alla fine. Questa è la cosa che mi interessava e mi interessa.
Nel 1998 pubblica Strumenti, musiche e balli tradizionali della provincia di Verona, stampato da Azimut Edizioni (la pubblicazione fu possibile grazie a uno sponsor, Castagnari, una fabbrica di fisarmoniche dove Pagani si recava per aggiustare i suoi strumenti). Davide Fiorini ha cura della sezione dedicata agli strumenti mentre Francesco organizza il resto, selezionando il corpus di dati che riteneva più pregnante e dividendolo in tre sezioni. Nella parte dedicata a “Balli e coreografie” è interessante osservare le descrizioni grafiche dei movimenti di danza. Francesco Pagani, infatti, ha inventato un sistema grafico semplice e immediato – rispetto ai codici già esistenti – affinché tutti, non solo gli esperti, fossero in grado di capire e mettere in pratica:
Ho pensato a un sistema facile e veloce [che consiste nel] ricalcare, ricalcare i piedini e le note, era l’unica cosa. Ci sono anche dei numeri che corrispondono al battere o levare del piede, del movimento.
Nella sezione “Musiche”, Pagani trascrive, oltre ad alcuni manoscritti di L. Barell (materiali reperiti nella raccolta “Memorie musicali” di Ettore Scipione Righi, conservati presso la Biblioteca Civica del Comune di Verona e pubblicati nel 1873), alcune musiche registrate dal vivo con gli informatori – opportunamente indicati – e certi manoscritti ritrovati “nella soffitta di una casa di via Duomo a Verona nel 1989”.
L’ultima parte, “Archivio della ricerca”, è invece dedicata alle descrizioni che gli informatori hanno fatto delle danze. Nella “Nota dell’autore”, Francesco specifica che: Il lavoro di ricerca che viene qui presentato è stato eseguito nel rispetto degli informatori cercando di dare i giusti meriti a ciò che hanno trasmesso, indicando il nome, la località d’origine e l’anno di registrazione.
Per molti degli informatori sono riportate anche una breve presentazione e una fotografia che li ritrae con il loro strumento.
Alcune delle testimonianze sono molto stringate e quanto trascritto è suddiviso per immediatezza in paragrafi titolati col nome della danza cui facevano riferimento. Altri invece riportano anche racconti legati ad alcune feste o giochi tradizionali, talvolta calati nei contesti quotidiani in cui questi erano immersi. Le testimonianze sono riportate in dialetto e non tradotte (tranne che per l’intervista a Domenico Anselmi, detto “El Minci” che in realtà è l’unica a non essere stata realizzata dall’autore ma concessa per la pubblicazione da Ezio Bonomi, insegnante e studioso delle tradizioni popolari locali).
Il libro si chiude con la bibliografia e un piccolo glossario per facilitare la lettura delle interviste in dialetto.
- L’archivio
Francesco Pagani è anche un appassionato collezionista; oltre ai suoi strumenti musicali (chitarre, ocarine, banjo, pianole, violini, organetti, …) colleziona libri, monete, cd e audiocassette. Per cui risulta difficile anche per lui definire con certezza quanto sia vasto il suo archivio. Durante l’intervista egli ha portato con sé alcune delle audiocassette – riguardanti il lavoro di ricerca e non – tra le circa cinquecento conservate in garage:
Ne ho portate alcune qui, che sono le più significative per la ricerca. Ce ne sono altre ma queste le ho usate per il libro. C’è quella di Enzo Bonomi che mi ha dato, ci sono video […]; questa è l’intervista ad Arturo Zardini, anche lui morto, son tutti morti. […] C’è anche un archivio del Trentino sulle musiche nel periodo napoleonico, poi c’è il canzoniere veronese, dopo ho filmato i tetti di canna a Campofontana nel ‘94, vicino Contrada Pagani, gli ultimi che ho visto. […] Questi qua non li ho scaricati [nel computer], li ho visti ma non li ho disponibili. Di [materiale] scaricato ho sicuramente i balli. […] C’erano altre cose che non ho trascritto perché quelle non m’interessavano. A me interessava il canto e il ballo; altre cose te le ho dette ma non ci sono scritte.
L’archivio che custodisce Francesco non è solo musicale e la sua attività di ricerca non si è conclusa sui monti della Lessinia; ha pubblicato vari articoli – che si possono consultare alla Biblioteca Civica di Verona – e contribuito come ricercatore a un altro libro, intitolato Eravamo ribelli:
Ho fatto anche una ricerca sulla resistenza dal ‘43 al ‘45 all’interno delle officine ferroviarie di Porta Vescovo a Verona, dove lavoravo. Lì c’era il quartiere nazista e da lì partivano le informazioni sui bombardamenti a Verona.
Pubblicato nel 2004 da Cierre Edizioni di Verona per conto dell’Istituto Veronese per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea, Eravamo ribelli è frutto del lavoro condiviso di ricerca da parte di dipendenti ed ex dipendenti dell’Officina e fortemente voluto anche dalla Biblioteca dell’Officina, come necessario tributo alla memoria del trascorso di militanza antifascista del luogo.
Parla appunto di questi lavoratori dal ‘43 al ‘45, degli atti di sabotaggio dentro l’officina ferroviaria di Verona Porta Vescovo. Lì venivano le segnalazioni agli alleati – c’erano anche i capi partigiani. E li ho intervistati e seguivo i sabotaggi.
La resistenza antifascista ha influenzato l’impegno di Francesco nella lotta operaia a cui ha preso parte insieme anche a suo padre:
Mi ricordo l’ultimo anno che ho lavorato nelle acciaierie di Galtarossa: in tre mesi di lavoro ho fatto un mese e mezzo di sciopero. Si andava a bloccare le autostrade, le strade… a casa arrivava mezzo stipendio. Mio padre andava a sdraiarsi sui binari dei treni. La mia famiglia è operaia.
Col tempo però, questo legame con la lotta politica e sociale assume altre forme:
Mi piace fare politica ma in modo diverso, ad esempio facendo questa roba qua, creando momenti di aggregazione ed è per questo che insegno balli popolari – perché questo crea aggregazione: la gente è insieme e fa cose insieme. Da soi se more soi. Insieme ci si aiuta.
Ma ciò di cui si rammarica Francesco adesso è che quest’archivio possa andar perduto perché da solo non riesce a trascrivere i file su supporti di più facile utilizzo. La sua ricerca, al tempo, incuriosì abbastanza Verona, dice: «Per cui gli studiosi, gli appassionati mi conoscono sia a Verona che in giro per il Veneto, tanti mi chiedono, tanti attingono». Ma, nonostante ciò, il suo archivio resta un paesaggio – linguistico, musicale, coreutico – quasi inesplorato e che rischia di andar perduto. Il maggior riconoscimento che possiamo fare a ricercatori indipendenti come Francesco Pagani è proprio quello di provare a tenere traccia di questi lavori – che potrebbero servire ad altre studiose e studiosi anche in diversi ambiti di studio – tentando di creare ponti con altri archivi, che potrebbero trovare in questo tipo di voci delle fonti preziose di documentazione sonora, visiva e umana.