In questo numero:
NOTIZIE AISO
Convegno nazionale AISO
LIBRI & VIDEO
La generazione della guerra d’Algeria, Testimoni e postmemoria, Operai in croce, Omosessuali a fumetti, Luisa Passerini tradotta in sloveno
IN SCENA
Operai oggi
INCONTRI A…
Milano, Roma, Torino, Reggio Emilia, Venezia
PAROLA DI…
Arlette Farge
APPROFONDIMENTI
Storia culturale e storia orale: un dibattito
REDAZIONE
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NOTIZIE AISO
Convegno nazionale AISO – Il secondo convegno nazionale dell’Associazione Italiana di Storia Orale dal titolo “Una memoria fondata sul lavoro” si terrà a Padova il 14-15 maggio 2009. Info www.aisoitalia.org.
LIBRI & VIDEO
Ludivine Bantigny, Le plus bel âge? Jeunes et jeunesse en France de l’aube des “Trente Glorieuses” à la guerre d’Algérie, Fayard, Paris 2007, pp. 498.
«Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita»: così si apre Le plus bel âge?, con la celebre frase del giovane precettore Paul Nizan (1905-1940), di ritorno da un lungo soggiorno nello Yemen (Aden Arabie, Rieder, Paris 1931, p. 11). Rielaborazione di una tesi di dottorato condotta sotto la guida di uno dei migliori specialisti della histoire culturelle d’oltralpe (J.-F. Sirinelli, IEP Paris), la ricerca pone al centro dell’indagine la generazione di francesi nati tra il 1932 e il 1942, compresi nella fascia d’età dei 14-22 anni, che all’epoca corrispondono grosso modo all’ingresso nel mondo del lavoro e al termine del servizio militare. Con grande consapevolezza metodologica, l’A. mette a fuoco il proprio oggetto oltre la semplice classe d’età (biologica): infatti «le generazioni, come è noto, non esistono in natura» (G. Sabatucci, «Parolechiave», 1998, n. 16, p. 115). Sono tre i catalizzatori che concorrono alla «misteriosa alchimia» che crea la generazione nella e per mezzo della congiuntura storica: a) nel dopoguerra i giovani diventano oggetto di sapere scientifico e di specifiche politiche di disciplinamento da parte dello Stato; b) assistono partecipi alle profonde trasformazioni socioeconomiche che portano la Francia nell’epoca trionfante della tecnica e del consumo; c) dopo un’infanzia segnata dalle miserie della seconda guerra mondiale («l’esodo e l’Occupazione, il freddo e la fame, i bombardamenti, gli arresti, le privazioni materiali ben oltre la fine del conflitto», p. 35), si trovarono gettati, ancora adolescenti, in un’altra guerra, quella d’Algeria (1954-62). Lo choc dei due conflitti fu senz’altro determinante nel forgiare la «coscienza di un’identità generazionale» (p. 16): per quelli che combatterono la guerra con il contingente di leva come per quelli che vi si implicarono o vi si opposero, nelle riunioni politiche, nei licei, nelle università. Poi, la generazione immediatamente successiva, quella del maggio, prenderà tutta la scena per sé. La decolonizzazione era ormai un fatto compiuto (prima ancora che un’ubriacatura ideologica) e la génération des djebels risultava incomprensibile, come venuta da un altro mondo (e lo era), meritandosi da parte dei più giovani uno sguardo diffidente, alle volte canzonatorio quando non di violenta accusa.
La gamma delle fonti d’archivio maneggiate dall’A. è quanto mai vasta: ministeri (Educazione nazionale, Gioventù e sport, Interni, Salute, Lavoro), licei, tribunali, esercito, partiti, sindacati, associazioni e diocesi. A queste vanno ad aggiungersi le fonti “classiche” della storia culturale, come quotidiani e periodici (anche locali), trasmissioni televisive e film (analizzati con grande finezza). Il tutto montato in una struttura argomentativa solida, che grazie anche a una penna particolarmente felice rende facilmente digeribile la mole del volume. Perché parlare qui di questo libro? Perché l’A. si avvale anche di 33 interviste (2 sole donne) da lei realizzate tra il 2001 e il 2006 (cioè all’epoca del laptop wifi e dell’ipod), ma poi sorprendentemente montate come se fossero coeve ai fatti narrati, quelli del transistor e delle prime TV in bianco e nero. Proprio nel caso di una ricercatrice così avvertita nel maneggiare gli attrezzi “tradizionali” del mestiere, l’ignoranza dei rudimenti della storia orale appare rivelatrice di quella cattiva abitudine – ancora diffusa anche nella storiografia francese – che neutralizza la fonte orale nel registro dell’accessorio, del decorativo. (Andrea Brazzoduro)
David Bidussa, Dopo l’ultimo testimone, Einaudi, Torino 2009, pp. 132.
Che significato ha assunto, oggi, il Giorno della memoria? Quali domande pone alla comunità degli storici e, più in generale, alla società italiana? Il breve saggio di David Bidussa cerca di rispondere a queste domande. Questo tentativo porta, inevitabilmente, a constatare e a denunciare una crisi del Giorno della memoria, una crisi che si manifesta almeno sotto tre aspetti: nella trasmissione della conoscenza del genocidio ebraico delegata ai testimoni diretti, nella prevalenza del “dovere della memoria” rispetto alla dimensione della conoscenza critica storica e nel rapporto squilibrato tra memoria e storia che implica un rovesciamento e dunque la messa in questione della memoria stessa.
Al di là di queste constatazioni, però, l’autore si rende rapidamente conto che intorno al Giorno della memoria si addensano questioni ben più ampie, questioni che chiamano in campo la definizione dello statuto della testimonianza, il rapporto fra il testimone e lo storico, la formazione memoria collettiva e l’uso pubblico del passato. Inoltre, affrontare la storia del genocidio ebraico richiede di indagare la storia politica, culturale, civile della società italiana, porta a chiedersi che cosa significhi sollecitare una riflessione pubblica sul genocidio degli ebrei e come i tempi e i modi della memoria possano costituire l’agenda culturale di un’intera collettività. Ci si interroga sulla capacità della società civile di saper intravvedere nel passato, anche prossimo, non solo le domande o le inquietudini, ma anche le remore, le autocensure che riguardano il presente.
L’autore pone questa ampia gamma di questioni all’interno di un contesto nuovo che – ipotizzando il superamento di quell’era del testimone descritta da Annette Wievorka – potrebbe essere definito l’era della postmemoria. «Una volta che le voci testimoniali di un evento scompariranno che cosa avremo in mano? Come elaboreremo quel vuoto? E allo stesso tempo come rifletteremo?» In questo contesto, Bidussa pone in particolare il problema del rapporto tra testimonianza e storia. In che modo gli storici si rapporteranno con «l’enorme cumulo di storie, immagini, voci» a cui sarà necessario dare un ordine?
Discutere oggi sulla questione della scomparsa dei testimoni significa, per Bidussa, affrontare un «discorso pubblico sull’uso politico del passato, di come questo si ricostruisce, di come viene confezionato e musealizzato e dunque contemporaneamente “esaltato”, “neutralizzato” e “trivializzato”».
Senza mettere in dubbio la centralità delle problematiche poste dall’autore, durante la lettura di questo breve libro – e forse proprio per la sua brevità – si sente, alle volte, un certo disagio. Un disagio che deriva probabilmente dall’eccessiva quantità di questioni messe in campo. Questioni teoriche e pratiche estremamente complesse – che riguardano non solo un’ipotetica era della postmemoria ma anche, pienamente, l’era del testimone – riguardo alle quali si sente la necessità di una trattazione più ampia e approfondita che porti ad una maggiore sistematizzazione. (Alessandro Cattunar)
Alessandro Casellato, Gilda Zazzara (a cura di), Operai in croce. Inchiesta sul lavoro malato, «Venetica. Rivista di storia contemporanea», 18/2008, pp. 236.
«Degli operai si parla solo quando muoiono». Rare volte suscitano l’interesse degli storici. Nel 2007 in Italia sono morte sul lavoro più di tre persone al giorno: il triplo dei libri recensiti dall’annale della Società per lo Studio della Storia Contemporanea. Se questa proporzione si invertisse (almeno), vedremmo finalmente ridimensionata la strage di braccia e di intelligenze che si verifica da sempre e in ogni luogo della geografia del nostro paese e avremmo forse un maggiore numero di saggi su una tematica colpevolmente poco indagata. Mentre non sono ancora spenti la rabbia e il clamore per il rogo della TyssenKrupp e si apre a Torino il processo alla Eternit, imputata della morte di migliaia di lavoratori per mesotelioma da inalazione di amianto, al dipartimento di storia dell’università di Venezia si svolge con la collaborazione della Cgil-Veneto il corso Storia del lavoro e del movimento operaio. Un primo risultato è il numero monografico di «Venetica», Operai in croce, che mantiene bassi i toni e ritorna nei luoghi di lavoro in uno sforzo eziologico di sottile eppure vivida denuncia.
Si scende in officina e si ricostruiscono con sobria serietà le condizioni reali, normali, fatte di turni, tagli di tempi e cannelli ossiacetilenici, di scelte quasi sempre obbligate, che presiedono al dramma personale e sociale di vite recise dalle còclee di un miscelatore o dall’alta tensione, dall’amianto delle navi in riparazione alla Giudecca o dal cloruro di vinile monomero del Petrolchimico di Porto Marghera. Nei contributi al volume (all’introduzione dei curatori seguono i saggi di Cecilia Biasiato e di Gilda Zazzara, e undici interviste) oltre alla dimensione dell’inchiesta, ce n’è un’altra rivolta alla percezione del rischio e al rapporto con la malattia e con la morte. Emergono sentimenti ambigui, sospesi tra la blanda intuizione della nocività e l’incoscienza esorcizzante del male – complice l’interessata scarsa informazione da parte dell’azienda –, tra rimozione e presa di coscienza di un pericolo estremo condiviso da tutti.
Al di là del silenzio dettato dal pudore per la malattia o imposto da relazioni effimere proprie di un mercato del lavoro sempre più fluido, l’intento è di riannodare i fili dell’oralità di cui è fatta la quotidianità di fabbrica ricompattando le memorie e ricostruendo trame di relazioni in grado di veicolare i trucchi del mestiere anche a difesa dagli infortuni. A cavallo tra impegno civile e proposta scientifica, Operai in croce si ricollega a una tradizione di studi sull’area industriale veneziana ancora florida grazie a recentissimi lavori dedicati in particolare a Porto Marghera (Antonella Saccarola, Laura Cerasi, Omar Favaro) e costituisce un significativo tassello nella ricomposizione di una specifica condizione operaia. (Andrea Tappi)
Luca De Santis, Sara Colaone, In Italia sono tutti maschi, Kappa edizioni, Bologna 2008, pp. 173.
Negli ultimi anni, in Italia, abbiamo assistito (anche se in ritardo rispetto ad altri paesi) ad un’improvvisa ed eccezionale diffusione dei graphic novel, cioè di quelle narrazioni a fumetti autoconclusive e non seriali. Ancora più interessante è notare come questo tipo di narrazioni si siano interessate in maniera massiccia alle problematiche della storia e della memoria. In particolare, sembra che il medium del fumetto sia particolarmente adatto – grazie agli specifici codici che stanno alla base del suo linguaggio – per affrontare i complessi legami che si instaurano fra la storia e la memoria individuale.
Un bell’esempio, in questo senso, ci viene fornito dal graphic novel In Italia sono tutti maschi, disegnato da Sara Colaone e scritto da Luca De Santis, che tratta del confino degli omosessuali durante il fascismo. Come sottolineano gli storici Tommaso Giartosio e Gianfranco Goretti (autori della monografia La città e l’isola. Omosessuali al confino nell’Italia Fascista, Roma, Donzelli, 2004) nell’introduzione al fumetto, In Italia sono tutti maschi racconta una di quelle storie che «sembrano non dover mai trovare chi le ripeta, o al massimo rimanere consegnate ai sussurri delle biblioteche universitarie». De Santis e la Colaone raccontano un aspetto della storia italiana poco studiato attraverso una narrazione che si basa su una rigorosa ricerca storica sui documenti ufficiali e sulle fonti orali. Ma i due autori non si limitano a raccontarci la vicenda generale del confino degli “invertiti” (termine in voga all’epoca) e nemmeno si limitano a “illustrare” una specifica storia di vita. Si pongono un problema più ampio, quello di rappresentare i rapporti tra passato e presente e tra il testimone e lo storico rispetto ad una vicenda che non si esaurisce con la caduta del fascismo. Infatti, una volta tornati a casa, gli omosessuali che erano stati confinati dovettero affrontare lo scandalo e il disprezzo delle loro comunità e spesso delle loro famiglie, confrontandosi con un’omofobia latente ed estremamente longeva. Per affrontare questo complesso nodo gli autori strutturano la narrazione “mettendo in scena” anche il momento del confronto tra il testimone e gli intervistatori. L’intera vicenda di Antonio detto Ninnella è inserita in una cornice che fa emergere le dinamiche e le tensioni tipiche del contesto di una videointervista. Gli autori mettono in luce le difficoltà che il testimone affronta quando deve riportare alla memoria vicende dolorose, facendo emergere il problema dei luoghi della memoria e del confronto del testimone con essi. Infine, viene messa in evidenza l’importanza dei vissuti personali di tutti gli attori presenti sulla scena. Affiorano così anche gli errori, alle volte ingenui ma spesso legati al proprio passato, compiuti dagli stessi intervistatori.
La videointervista che viene rappresentata, come hanno ammesso gli stessi autori, non ha avuto effettivamente luogo. Probabilmente è il risultato di un collage di molte interviste e di molti documenti. Ma, forse, è proprio qui che si può trovare uno degli elementi qualificanti del linguaggio del fumetto: nella sua capacità di sintesi e di immediatezza. Qualità che si vanno a sommare alla possibilità di affrontare un complesso insieme di problematiche storiche e metodologiche rivolgendosi ad un pubblico ampio e non specialistico. Un pubblico che probabilmente non ha mai sentito parlare del confino degli omosessuali e che mai si è posto il problema del confronto con un testimone. (Alessandro Cattunar)
Luisa Passerini, Ustna zgodovina, spol in utopija (Storia orale, genere e utopia. Saggi), Studia Humanitatis, Ljubliana 2008, pp. 342.
La casa editrice Studia Humanitatis ha tradotto in sloveno diversi saggi di Luisa Passerini, ripresi dalle opere dell’autrice dal 1984 fino ad oggi (Fascismo e ordine simbolico nella quotidianità; Ferite della memoria; Il genere è ancora una categoria utile per la storia orale?; Il passato, la ricerca). In occasione della pubblicazione del volume Ustna zgodovina, spol in utopija, la prof.ssa Passerini è venuta a Ljubljana e ha tenuto nella capitale slovena due lezioni. La prima si è tenuta all’Istituto Italiano di Cultura in Slovenia sul tema Le molteplici radici dell’identità europea, la seconda il giorno seguente alla Facoltà di lettere con il titolo Metodologia della storia orale. I due eventi e la presentazione del libro sono stati introdotti e gestiti dalla prof.ssa Marta Verginella, la quale ha scritto anche il saggio introduttivo al libro. (Kaja Sirok)
IN SCENA
Operai oggi – Scritto e diretto da Stefano Angelucci Marino (Teatro del Sangro) e interpretato assieme a Francesca D’Este (Questa Nave) Operai oggi propone un registro comico e popolare, basato sull’uso del dialetto, per raccontare la cassa integrazione di una giovane coppia di operai a Torino. Lavorano entrambi in una fabbrica di sanitari: lui è abruzzese di campagna e operaio specializzato; lei, che per una mansione di magazziniera ha perso la sua “professionalità” di commessa, è veneziana di terraferma. La loro prima giornata di cassa integrazione comincia in una cucina spoglia, dove Tommaso, in attesa che la moglie gli serva il caffelatte, si ritocca le sopracciglia. Il tempo che la cassa integrazione riconsegna brutalmente al privato mette in crisi la divisione dei ruoli, libera desideri e immaginari soffocati nella quotidianità, fa esplodere la difficoltà di dare senso all’esperienza della vita. Il cortocircuito si indirizza fuori da sé, verso il personaggio invisibile di una colf rumena che convoglia sul suo corpo di giovane donna sottomessa – tra stereotipi razzisti, frustrazioni sessuali e aspirazioni di ascesa sociale – un disagio che non trova altre vie di riconoscimento. Perché la cassa integrazione di Tommaso e Chiara non è raccontata come tassello di un dramma collettivo, né come metafora di una sconfitta in qualche senso politica; né è il pretesto per mettere in scena mutamenti interiori: è solo l’occasione per guardarli nell’intimità quotidiana e prosaica della loro cucina. Tommaso e Chiara riescono a far ridere, nella loro messa in scena di una coppia italianissima formata da un “terrone” maschilista e una “polentona” emancipata solo nel lavoro, ed entrambi eterni figli di mamma e papà, ma quando, per brevi lampi, fanno cadere la maschera, inquietano molto: sono soli, sono ignoranti, non si fidano di nessuno, non provano nemmeno a capire ciò che accade attorno a loro, nemmeno si sognano di essere diversi, sono sostanzialmente razzisti. Sono “deboli, debolissimi”, come dice Chiara alla giovane rumena, cacciata perché oggetto dei desideri morbosi di entrambi i coniugi. Anche se il testo è a volte sul filo della volgarità, Operai oggi ha però la forza di uno sguardo disincantato, desacralizzante, privo di intellettualismo o snobismo dell’impegno, e che perciò restituisce tratti veri di un’antropologia operaia contemporanea. Ciò riesce soprattutto per il personaggio di Tommaso, per il quale Angelucci Marino ha in mente la cultura, il linguaggio e i gesti di una classe operaia che pochi conoscono, quella dei 5.000 metalmeccanici della Sevel (Fiat) di Val di Sangro, provenienti da zone agricole, povere, prive di radicate tradizioni industriali, sindacali, associative e politiche, se non quella di granitico feudo democristiano. Una classe operaia che parla poco, che mette in crisi gli idealtipi settentrionali della “tuta blu”, e che nessuno racconta mai. (Gilda Zazzara)
INCONTRI A…
1. Milano – L’Associazione Duccio Bigazzi per la ricerca sulla storia dell’impresa e del lavoro organizza un ciclo di seminari intitolato Il lavoro narrato. Metodologie, ricerche e raccolte, rappresentazione visiva: si tratta di 6 incontri pomeridiani dedicati a un confronto e dialogo sull’interpretazione della realtà industriale e del lavoro attraverso le testimonianze. Gli incontri si terranno a Milano, lunedì 20 aprile, 4-11-18-25 maggio 2009, dalle ore 15 alle 18.30. L’approccio è quello multidisciplinare che incrocia la ricerca storica e sociale, l’indagine antropologica, le forme della rappresentazione visiva, per recuperare secondo nuove prospettive l’esperienza pionieristica di Bigazzi e la sua intuizione secondo cui «Il ricorso alle fonti orali dovrà essere e sarà in futuro un’arma essenziale della ricerca» (1993). La prima giornata introduce al dibattito teorico, particolarmente intenso in questi anni, sui temi della memoria autobiografica e della narrazione; il secondo modulo propone concrete esperienze e pratiche di ricerca, nonché alcuni archivi e raccolte di testimonianze; la terza e ultima parte è dedicata all’utilizzo delle testimonianze orali nel documentario d’autore. Tra gli altri interverranno Alessandro Portelli, Giovanni Contini, Pietro Clemente, Renata Meazza, Roberta Garruccio, Luca Mosso, Sergio Bologna, Marco Bertozzi, Peppino Ortoleva, Bruno Cartosio, Francesca Comencini, Cesare Bermani. Info, programma e iscrizioni: www.associazionebigazzi.it (Sara Zanisi)
2. Roma – dal 5 al 7 maggio 2009, alla Biblioteca nazionale centrale di Roma, si terrà il convegno L’intervista fonte di documentazione, tre giornate dedicate rispettivamente a storia orale, antropologia, giornalismo e sociologia. Il convegno riprende i temi di quello del 1986: L’intervista strumento di documentazione. Giornalismo, antropologia, storia orale. – www.bncrm.librari.beniculturali.it. Info. 06 4989-339/344 , ufficiostampa@bnc.roma.sbn.it.
3. Torino – sabato 16 maggio 2009, alle ore 14.30, nella XXII Fiera Internazionale del Libro di Torino presso lo Spazio Autori A Khaled Fouad Allam e Laura Peretti presenteranno il libro Periferie. Da problema a risorsa, Sandro Teti Editore, Roma 2009, di Franco Ferrarotti e Maria Immacolata Macioti.
4. Venezia – venerdì 22 maggio 2009, ore 14, nell’ambito del seminario di Storia del lavoro e del movimento operaio Alessandro Portelli (Università di Roma) presenterà il suo libro Acciai speciali. Terni, la ThyssenKrupp, la globalizzazione, Donzelli, Roma 2008, presso il Dipartimento di Studi Storici dell’Università Ca’ Foscari Venezia.
5. Castelnuovo di Sotto (Reggio Emilia) – venerdì 22 maggio 2009, la sera, presso il Municipio di Castelnovo Sotto, sarà presentato il libro di Antonio Canovi Pianure migranti. Un’inchiesta geostorica tra Italia e Argentina, Diabasis 2009, una ricerca-azione condotta tra le reti migratorie emiliane in Argentina. Tra gli invitati: Vanni Blengino (prefatore) e Mirella Giai, senatrice eletta Circoscrizione Estero (Rosario).
6. Venezia – lunedì 25 maggio 2009, ore 10-17, seminario su Ernesto de Martino nel centenario della nascita con la partecipazione di Amalia Signorelli (Università Federico II, Napoli), Sergio Berardini (Università di Trento), Alessandro Casellato, Giovanni Dore, Giorgio Politi, Glauco Sanga (Università Ca’ Foscari di Venezia).
7. Roma – La Facoltà di Scienze delle comunicazioni de La Sapienza organizza per il 3 e 4 giugno 2009, al Centro Congressi de La Sapienza, via Salaria 113, un convegno su Come comunicare la ricerca. Chi fosse interessato a partecipare con una comunicazione può mettersi in contatto con la direttrice Maria Immacolata Macioti mariaimmacolata.macioti@uniroma1.it.
PAROLA DI…
Arlette Farge (da: Quel bruit ferons-nous?, Les Prairies ordinaires, Paris 2005).
«Consapevolmente, come opzione metodologica, non lavoro con l’apporto della psicanalisi. Ma sta lì, presente, e me ne servo probabilmente senza saperlo, anche se ha creato a lungo una frattura profonda tra l’individuo e la storia, il contesto sociale e economico di colui che essa osserva. La psicanalisi ha riflettuto sull’individuo determinato dal complesso edipico e l’architettura famigliare, servendosi soprattutto della memoria individuale: rari sono gli psicanalisti – fortunatamente esistono – che reintegrano la memoria individuale nella memoria collettiva, sociale, nella storicità della vita dei loro pazienti. Sono stata spinta ad invitare una psicanalista, Marie Moscovici, a partecipare la mio seminario a l’Ehess. Ha studiato il caso di una ragazza di venticinque anni che, malata, non poteva uscire senza sentire degli scricchiolii sotto i suoi piedi. Avendo abitato a Metz, era sempre stata convinta di camminare su delle ossa, quelle dei cadaveri e dei carnai della guerra del ’14. Attraverso questo racconto, Marie Moscovici ha mostrato cosa poteva rappresentare la storia collettiva di una regione o di un popolo nella vita di un individuo, singolare e anonimo». [p. 163]
«La parola singolare è decisamente alla moda: come si ama il pesce fresco, si ama la parola fresca, ma la moltiplicazione delle testimonianze nasconde un’assenza profonda di analisi e riferimenti; perché tutte le testimonianze sono pensate come equivalenti, quindi senza valore proprio né gerarchia, senza riflessione su quello che è stato detto». [p. 169]
«[…] Il compito dello storico consiste in effetti nel raccogliere e ascoltare le parole e nel risituarle, conservandone tutte le asperità, nel racconto della storia. Questa contestualizzazione della testimonianza non deve far dimenticare che se queste parole non riflettono necessariamente la verità, non per questo hanno minor valore. Dal semplice fatto che qualche cosa sia detta, bisogna concludere che qualche cosa storicamente rilevante è accaduto, qualche cosa di cui lo storico deve rendere conto. L’ascolto di una testimonianza è paragonabile alla lettura degli archivi, bisogna sforzarsi di coglierne il senso storico e di integrarla alla collettività da cui proviene». [p. 170] (Andrea Brazzoduro)
APPOFONDIMENTI
Storia culturale e storia orale: un dibattito
Il 12 marzo 2009 è stato inaugurato il Centro Interuniversitario di Storia Culturale (www.centrostoriaculturale.unipd.it). C’è stato un convegno, a Padova. Ero presente come socio fondatore del CSC e come uditore del convegno, quindi nella doppia posizione di osservatore e osservato insieme. Ho scritto alcune impressioni e le ho inviate alla redazione del Notiziario, invitando all’iscrizione al CSC per dar voce – quale espressione più appropriata? – alla storia orale.
Il Centro è partito alla grande: molta gente, ospiti importanti, belle relazioni, palpabile interesse tra gli astanti, un bellissimo sito web. La prima considerazione nasce dal confronto con la nostra Aiso. Il fatto di essere incardinato in quattro università (PD, VE, PI, BO) gli consente risorse, opportunità e motivazioni che un’associazione come la nostra non può avere. D’altra parte le dinamiche accademiche erano evidenti. La prima delle quali è forse proprio alla base dell’idea stessa di costituire un centro dedicato alla “storia culturale”, aprendo – e quindi occupando – un campo di studi nuovi, in espansione a livello internazionale, in grado di esercitare un appeal che altre declinazioni della storia sembrano aver perso, nonché capace di sparigliare le vecchie gerarchie e reti di relazione tra gli studiosi e attivarne di nuove.
Sono emerse due linee: la prima tendeva a rintracciare alcune genealogie lunghe della storia culturale, ovvero a riconoscere che essa ha radici nella “storia sociale” degli anni ’60 e ’70 (da E.P. Thompson a R. Darnton), e non solo all’estero ma anche in Italia; la seconda metteva l’accento sulla discontinuità e la novità dell’approccio culturalista e le interrelazioni – più che con la storia – con gli altri “studi culturali” (antropologia, letteratura, visual e media studies). Se da una parte si chiedeva che gli studi sull’immaginario, le narrazioni, i simboli fossero ben ancorati a un contesto spazio-temporale specifico, dall’altra si evidenziava l’attenuarsi dell’idea di confine – in tutti i sensi: geografico, temporale, sociale, politico – che consente/richiede di studiare le connessioni delle mappe mentali che disegnano il mondo, più che i singoli ancoraggi specifici.
Della storia orale non si è parlato. Non solo non è stata tematizzata, ma direi anzi che la si è ignorata, tranne per un cenno fatto all’uso delle fonti orali per storia delle classi subalterne negli anni ’50-’60 (de Martino, Bosio…). L’unica storica orale citata è stata Luisa Passerini (ma esclusivamente per il coté femminista e per gli studi più recenti sull’amore, l’Europa, ecc.). In sede di dibattito finale ho suggerito che qualche altro oralista (come Nuto Revelli, per non dir dei viventi) poteva essere inserito tra i padri e le madri nobili della storia culturale, ma la proposta non ha incontrato molto consenso.
Mi sono chiesto come mai questa rimozione della s.o., che pure è diffusamente riconosciuta come una delle strade d’accesso alla svolta culturalista ed è anzi essa stessa – come notava Gabriella Gribaudi nel suo report da New York («Storia orale. Notiziario AISO», n. 2, maggio-giugno 2008) – una pratica ormai assai poco legata alla storia tradizionalmente intesa.
La prima – forse debole, non so – è la genesi a suo tempo militante della storia orale, specie in Italia: un tratto che non è scomparso del tutto e che significa grosso modo che non si vuole solo interpretare il mondo ma contribuire a trasformarlo, almeno un po’ (al limite estremo, nello spazio del dialogo/intervista). Mi sembra invece che questo orizzonte non sia contemplato dalla storia culturale così come è stata presentata a Padova, e che anzi si vogliano marcare le distanze.
La seconda risposta rimanda al fatto che la storia orale non può prescindere da un contesto: le narrazioni non fluttuano nell’aere indefinito, ma sono il frutto di un incontro con una persona specifica, in carne e ossa (anzi, tra due persone), ognuna portatrice di una propria biografia e collocata in una serie di rapporti sociali dai quali non si può prescindere nel lavoro interpretativo.
Dallo scambio di idee con varie persone – alcune presenti al convegno, altre interpellate solo via posta elettronica – sono venute altre considerazioni, che estrapolo e riporto qui sotto mantenendone intatto il carattere “semiorale” tipico delle e-mail. In coda, una replica di Carlotta Sorba, membro del direttivo del CSC. (Alessandro Casellato)
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Gilda Zazzara: Ho trovato comunque poca riflessione sulla soggettività degli storici stessi, sul senso di quello che fanno e, in relazione a ciò, sul perché chiamano le discipline in un modo o in un altro. Era tutto molto interno, genealogico. In generale ho percepito, nei discorsi e nel modo di farli, un’idea dello storico come interprete al di sopra della mischia e allo stesso tempo abbastanza onnipotente nello scegliere le proprie fonti. Un po’ genio creatore… Io 300 [il film sulla battaglia delle Termopili citato da Alberto Banti nella sua relazione] non l’ho visto, e mi affascina l’analogia con la pedagogia risorgimentale, però mi interessa anche sapere perché tot persone vanno a vederlo, chi sono, come (e se) lo traducono nei conflitti presenti con lo straniero, se forse vedere quel film conferma modi di pensare che danno luogo a gesti e scelte (votare, stare con la propria moglie, andare in chiesa, pagare le tasse, viaggiare) e quindi magari vado a intervistarli e leggo i blog dove si esprimono direttamente. Si può studiare la cosa in termini di mappe mentali, ma anche l’altra è storia culturale.
Gabriella Gribaudi: La storia culturale è largamente dominata dallo studio delle “narrative” nazionali e dalle memorie pubbliche. Spesso se ne fa la decostruzione a partire da altre macro narrative, oppure si ipotizzano valori e codici culturali popolari senza studiarli cioè senza affrontare lo studio di fonti che diano la possibilità di accedere a questi livelli. Poi c’è l’eterno disprezzo della scuola italiana per la storia orale e l’ignoranza delle metodologie utilizzate dagli scienziati sociali per studiare gli individui e i gruppi sociali.
Gloria Nemec: Come ben sapete c’è una forte gerarchizzazione nelle storie, quella culturale forse ambisce alle buone posizioni e non vuole troppi legami con pratiche di base. Il paradosso è che mentre dilaga una domanda collettiva di memoria/identità, la storia orale rimane in posizione di nicchia, sebbene anche sulle grandi narrazioni nazionali abbia qualcosa da dire. Mi preoccupa ancor più l’allentamento del legame con la storia sociale, particolarmente vistoso da quando classi subalterne e altre sono diventate brutte parole. Mi spiace non esser stata al convegno, credo che molti apporti – anche di vivace discussione – possano venire da quel fronte, troviamo un momento per parlarne.
Andrea Brazzoduro: Il dibattito sui cultural studies mi pare una copia di quello già visto in Francia contro i postcolonial studies. Si tratta in fin dei conti di schermaglie accademiche per preservare feudi, domini di caccia e recinzioni. Poi ci sono anche delle questioni più di fondo, ma non so se a Padova sono venute fuori: per esempio a proposito dei “postcolonial” (che come i “cultural” sono una galassia talmente variegata che già il fatto di parlarne come una sola cosa rivela un intento polemico) Jean-François Bayart non ha esitato a dire: “Du point de vue des sciences sociales, les études postcoloniales sont à la fois utiles, superflues, assez pauvrement heuristiques et politiquement dangereuses” (La novlangue de l’archipel universitaire, in La situation postcoloniale. Les postcolonial sutides dans le debat français, a cura di Marie-Claude Smouts, FNSP, Paris 2007, p. 269). Sorprendentemente, anche Giovanni Levi – nello stesso convegno, organizzato a SciencePo a Parigi – si è unito ai detrattori dei “postcolonial”, a partire da una lettura molto classica di Can the subaltern speak? e del baubau “decostruzionista”: il testo di Spivak sarebbe insomma un peana all’irrazionalismo compiaciuto dell’impossibilità dei e delle subalterne di parlare e ancor più di capirle. Ma soprattutto per Levi la critica postcoloniale è inutile perché non ci aiuta a capire Berlusconi, che (ça va sans dire) è il problema costitutivo del presente globale. “Or la question fondamentale – et, je pense, un problème européen intéressant – c’est de comprendre pourquoi les italiens on produit Berlusconi. Ce problème fondamentale ne peut pas être étudié si on utilises les postcolonial studies” (p. 287).
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Intanto grazie dell’attenzione rivolta al nostro nuovo Centro e della ospitalità accordata a questa mia “risposta” nel Notiziario dell’AISO.
Proprio perché in realtà un dialogo mi/ci interessa particolarmente, nonostante l’effettiva assenza di riferimenti specifici alla storia orale durante la giornata citata, vorrei precisare in modo davvero informale alcuni elementi che forse possono dare una immagine più realistica di cosa siamo o vorremmo essere.
Abbiamo inaugurato il mese scorso il nostro CSC con grande entusiasmo, dopo un lungo iter burocratico di attivazione, ma anche con pochi soldi, ben poco “potere” accademico e molto timore di fronte ad una cosa nuova e ancora aperta a molti possibili, come si è visto credo nella giornata di apertura.
Non si trattava di occupare posti e spazi (scientifici o accademici che fossero) ma di attivare , attraverso un percorso e una realtà istituzionale come è un centro interuniversitario, un meccanismo virtuoso che innescasse finalmente anche in Italia una discussione intorno alla storia culturale e una valorizzazione di questo terreno di ricerca che è effettivamente da noi in notevole ritardo.
Quali dunque i primi obiettivi? La creazione di uno spazio che ci permettesse di uscire dalle pastoie e dalle secche delle questioni terminologiche e delle etichette: in tutto il mondo questo impasto di non facile definizione viene chiamato storia culturale, sono nate associazioni nazionali e internazionali ad essa dedicate, dove si discute sia sulle opportunità che sui limiti e sui rischi di un approccio culturalista, e in Italia ancora si fatica a riconoscere che esiste qualcosa che può chiamarsi storia culturale.
Si trattava anche, cosa che abbiamo cercato di fare nei limiti di un’occasione inaugural-celebrativa, di recuperare una sorta di genealogia italiana, che ne mostrasse, come ha ben evidenziato Alessandro, le sue anime diverse. Che ovviamente rimarranno tali, perché si tratta comunque di uno spazio aperto, del tutto privo di ortodossie, certo non militante ma nemmeno apolitico. Piuttosto impegnato a mostrare, se mai ce ne fosse bisogno, che per capire l’Italia di Berlusconi, come ha sostenuto lo stesso Banti nella sua relazione, la storia economica e quella sociale molto difficilmente possono bastare…
C’è quindi voglia di discutere, sia nel merito che nella metodologia (il nostro prossimo seminario avrà come ospite Patrick Joyce che ci verrà a parlare di Putting the social back into social and cultural history ), uscendo però da quel gioco di accuse alla cieca sulle “derive” culturaliste che spesso poco consapevolmente sono rivolte a qualsiasi approccio che abbia anche solo il sentore di mappe mentali, immaginari, narrative o simbologie…
Per concludere, vi dirò che certo ha ragione Alessandro lamentando l’assenza della storia orale da questa giornata fondativa, anche se come spesso accade il gioco delle assenze può allargarsi a dismisura.
Una delle ragioni più dirette anche se poco elevate consiste nel fatto che molti di noi sono di fatto ottocentisti e quindi purtroppo lontani dalle sue metodologie specifiche. E vi assicuro che non dico purtroppo per caso, perché sono convinta che sia invece oggi uno dei terreni più interessanti e più fruttuosi che si aprono anche per chi privilegi un approccio di storia culturale (e non fluttui nell’aere).
Ben vengano allora le discussioni su storia culturale e storia orale, anzi sarebbe interessante organizzare un incontro su questo. Ci incroceremo comunque presto perché il seminario di Joyce di cui vi dicevo sarà a Padova il pomeriggio del 14 maggio, in contemporanea al vostro convegno, e questo ci permetterà spero qualche scambio. Molto cordialmente. (Carlotta Sorba)
REDAZIONE
Barbara Bechelloni (Roma), Andrea Brazzoduro (Paris), Antonio Canovi (Reggio Emilia), Alessandro Casellato (Venezia), Alessandro Cattunar (Bologna), David Celetti (Padova), Mara Clemente (Roma), Luisa Del Giudice (Los Angeles), Stefania Ficacci (Roma), Manja Finnberg (Dresden), Silvia Inaudi (Torino), Gloria Nemec (Trieste), Massimo Novi (Pisa), Mattia Pelli (Trento), Vanessa Roghi (Roma), Ricardo Santhiago (São Paolo), Igiaba Scego (Roma), Sofia Serenelli (London), Kaja Sirok (Nova Gorica), Sara Zanisi (Milano). La redazione è aperta. Per idee, proposte, commenti, collaborazioni scrivere a storiaorale@googlegroups.com.