di Irene Bolzon
Nonostante il dibattito pubblico sul confine orientale negli ultimi 20 anni si sia concentrato quasi in maniera esclusiva sui fatti di sangue avvenuti nella primavera del 1945 e sull’esperienza del profugato italiano nell’immediato dopoguerra, la ricerca portata avanti negli ultimi anni ha permesso di restituire dell’area altoadriatica una stratigrafia di fenomeni estremamente più variegata e complessa. Al di fuori dei perimetri memoriali e tematici tracciati dal calendario civile si snodano percorsi individuali e di comunità che permettono di liberare in sede pubblica la narrazione sul confine orientale, generalmente compressa dalle maglie strette di una cronologia costruita esclusivamente sugli snodi epocali riconducibili al contenitore tutto retorico delle cosiddette “tragedie nazionali”. In questo senso il lavoro di ricerca che da anni l’Irsrec – Istituto Regionale per la Storia della Resistenza e dell’Età contemporanea nel Friuli Venezia Giulia (già Irsml) svolge al fine di ampliare lo sguardo sui problemi che hanno interessato quest’area dalla seconda metà del XIX secolo in poi trova un importante, per quanto parziale, esito nel volume Quando si depongono le armi. Il libro, curato da Anna Maria Vinci, si propone come una raccolta di saggi che fa il punto sullo stato di alcuni cantieri di ricerca aperti, in alcuni casi, ormai da diversi anni e che, se ancora non hanno esaurito il proprio potenziale in termini di dati e informazioni, molto possono già suggerire dal punto di vista della metodologia e delle chiavi di lettura adottate.
L’angolo di visuale che inquadra le vicende del confine orientale è quello della storia sociale, prospettiva che viene chiamata ad indagare un passaggio, quello dalla guerra alla pace, denso di contraddizioni, sofferenze ed esiti tutt’altro che scontati. Al silenzio delle armi non seguì infatti l’immediata pacificazione dei territori giuliani e delle comunità locali, sconvolti, vale la pena ricordarlo, da due guerre totali, dai totalitarismi, dagli spostamenti forzati di popolazione, da guerre civili multiple, dalle persecuzioni razziali e politiche, da stragi ed eccidi, dalle occupazioni militari, da un tentato processo di snazionalizzazione e da un confine la cui definizione era stata, sin dall’inizio, foriera di conflitti.
Nel volume la prospettiva sociale è adottata per esplorare un altro tema storiografico di grande attualità, quello della transizione. La fine del secondo conflitto mondiale nella Venezia Giulia costituisce un laboratorio di grande interesse al fine di studiarne le dinamiche, soprattutto in connessione con i problemi posti da un confine che di fatto costituiva per le comunità locali, più che una linea difficile da tracciare, una ferita aperta. Il dibattito sui destini statuali delle aree coinvolte ha reso inoltre più radicali i problemi connessi tipici delle transizioni postbelliche europee: la ricomposizione dei conflitti civili attraverso la giustizia straordinaria e i processi di pacificazione, il passaggio tra dittatura e democrazia, il ritorno alla legalità, il rapporto con i liberatori (qualsiasi essi fossero a prescindere dal fatto di essere considerati tali), il nodo dell’identità nazionale connessa al difficile percorso a ritroso dalla retorica fascista a quella patriottica in un contesto multietnico avvelenato da conflitti e persecuzioni consumatisi nei decenni precedenti.
L’insieme dei saggi offre soprattutto una disamina approfondita delle fonti utilizzate al fine di affrontare lo studio della Venezia Giulia da una prospettiva così problematizzante. La storia di comunità e soggetti marginali viene indagata innanzitutto attraverso le fonti giudiziarie, ma anche grazie agli archivi di quella pletora di enti assistenziali chiamati a fronteggiare le numerose emergenze, alle carte prodotte dalle associazioni ex combattentistiche, agli archivi di istituzioni centrali e enti locali, così come quelli privati. Molto presenti e trasversali in tutto il volume le fonti orali. Centrali in almeno un saggio, quello di Francesca Bearzatto dedicato al reinserimento nella società degli ex-partigiani e degli ex deportati politici nel pordenonese, esse ritornano, in relazione con altra documentazione d’archivio, nei saggi di Anna Maria Vinci e di Gloria Nemec sui giovani e le donne posti ai margini della società. Come sottolineato anche dalla curatrice del volume all’interno del proprio saggio, le fonti orali si rivelano preziose per disvelare piccole storie rimaste tra le pieghe della grande storia, ossia quella istituzionale e politica sui destini di Trieste e della Venezia Giulia, sotto la cui coltre è tutto un brulicare di fatti che avvengono, per citare Anna Maria Vinci, “sui gradini di casa” (p. 77) , tra figli perduti e problemi di salute (anche) mentale che coinvolgono adulti e minori e che disegnano una storia sociale finora rimasta in ombra.
Storia sociale e transizione nella Venezia Giulia del secondo dopoguerra: persone, associazioni, istituzioni
Dall’incastro tra i problemi posti dalla transizione, dal focus posto su un’area di confine e dalla prospettiva della storia sociale ha origine uno scenario che vede dilatate e modificate le cronologie tradizionali che di solito definiscono la “questione di Trieste”: se il volume si inscrive complessivamente nel periodo compreso tra il 1945 e il 1954 (anno in cui viene siglato il Trattato di Londra che sancisce la cessione definitiva dei territori dell’Istria, della Dalmazia e del Quarnaro alla Jugoslavia), i singoli saggi dimostrano come le vicende individuali e la storia degli enti preposti al loro accompagnamento sfuggano alle cronologie manualistiche, con questioni che si sfilacciano fino a lambire gli anni ’60 e anche oltre.
La prospettiva della storia sociale in relazione alla transizione permette innanzitutto di prendere consapevolezza di come le vicende diplomatiche e statuali e i meccanismi di riedificazione dello Stato e di ritorno alla legalità impattino sulle persone e sui territori, infrangendosi in una quantità incommensurabile di schegge spesso difficili da ricomporre in un quadro ordinato. Viene posto infatti al centro di tutti i lavori il punto di vista delle vittime, dei profughi, di chi era tornato o fuggito. La deflagrazione del tessuto sociale in una miriade di situazioni in cerca di ricomposizione è quanto emerge dal saggio di Fabio Verardo dedicato al Tribunale del popolo di Trieste. Operativo nei 40 giorni di occupazione jugoslava per iniziativa dei poteri popolari, il Tribunale lavora incessantemente, producendo una gran quantità di materiale istruttorio che in seguito confluirà nella Corte d’Assise Straordinaria (CAS) di Trieste, organo della giustizia di transizione italiana finalizzata alla punizione dei crimini di collaborazionismo con i tedeschi. Quello che emerge dal saggio di Verardo è l’effetto di conflitti innescati ben prima della guerra, dallo squadrismo di confine e dalle politiche italiane di snazionalizzazione della comunità slovena e croata. Conflitti poi irrimediabilmente acuiti dalle condotte criminali italiane attuate sui territori a partire dal 6 aprile del 1941 e dai collaborazionisti fascisti durante l’occupazione nazista. La giustizia politica concepita come strumento per ricomporre in sede istituzionale i conflitti e sancire e legittimare nuovi corsi politici si sposa anche con le istanze riparatrici delle vittime, spesso frustrate dal corso degli eventi e dai meccanismi di pacificazione. Sempre ai tribunali si rivolgono i pochi ebrei che, una volta rientrati dai campi o tramite procuratori, tentano di riacquisire i beni loro sottratti e le case occupate a seguito della loro deportazione, spesso provocata da denunce interessate. Alle loro vicende è dedicato il saggio di Silva Bon, che si occupa di spoliazione dei beni ebraici a partire dai documenti della CAS di Trieste. Fonti, quelle della giustizia straordinaria, che sono tra le più vicine a quelle orali per la loro capacità di fermare in forma scritta deposizioni e dibattimenti verbali, che riportano a galla destini individuali spezzati dagli interessi particolari, dal mercato nero e dagli affari che ruotano in città tra guerra e dopoguerra attorno ai beni ebraici. Destini che si riannodano quando i pochi sopravvissuti tornano, dovendosi confrontare in tribunale con i propri delatori.
Ricorrendo all’intreccio tra fonti giudiziarie e fonti orali Anna Maria Vinci e Gloria Nemec riportano in superficie il racconto delle famiglie poste ai margini della società, una prospettiva che mette al centro soprattutto la condizione delle donne, dei minori abbandonati, ma anche di uomini a vario titolo assenti: perché dispersi, morti o semplicemente ritornati in condizioni tali da non essere in grado di prendersi cura delle proprie famiglie. A gravare su Trieste e la Venezia Giulia non solo però il peso di chi era rimasto, spesso in condizione di grave indigenza, ma anche delle migliaia di profughi che, con ondate scandite dalla progressiva definizione del confine, lasciavano l’Istria e la Dalmazia per restare in territorio italiano. In questa situazione la Venezia Giulia permette, pur con gravi ritardi, contraddizioni e continuità con il passato, l’avvio di quello che Gloria Nemec definisce un “laboratorio di nuove esperienze di gestione dei minori, in ambito laico e confessionale” (p. 21). Trieste diviene così uno dei banchi di prova su cui testare un sistema di welfare non più rispondente alle esigenze di controllo e consenso del regime ma orientato verso le forme moderne del decentramento e del potenziamento dei servizi sociali territoriali.
Da tutti i saggi emerge comunque il peso di una transizione politica e istituzionale in cui i termini della “questione di Trieste” dilatano i tempi della normalizzazione. Se tanto precoce si era dimostrata la frontiera nordorientale italiana nel recepire le nascenti forme della violenza politica, favorendo una presa del potere da parte del fascismo rapida e densa di anticipazioni per il futuro di tutto il Paese, non altrettanto rapida si dimostra la presa dei processi democratici. A rallentare la transizione le dinamiche proprie della guerra fredda e la prospettiva anticomunista e antislava che pervade l’azione di Roma nei confronti della sua periferia contesa. Il saggio di Anna Digianantonio sull’Ufficio Zone Confine mette in luce ancora una volta l’azione sui territori promossa da questo organo di coordinamento interministeriale al fine di orientare risorse e denaro finalizzati alla propaganda e al sovvenzionamento di enti e associazioni schiettamente filoitaliane e anticomuniste, senza sottrarsi dall’alimentare il mondo dell’eversione nera e neofascista.
In questo quadro diventano più chiari i passaggi di una ricomposizione tutt’altro che lineare dei conflitti tra le diverse identità nazionali e politiche presenti sul territorio, come ben illustrato dal saggio di Franco Cecotti sulle associazioni resistenziali nella Venezia Giulia tra i 1945 e il 1965, ma ancora di più l’uso strumentale del welfare come strumento di definizione sul territorio di comunità politicamente affidabili. È quanto emerge dal saggio di Chiara Fragiacomo sulla gestione delle politiche giovanili in area isontina. Se da una parte sui giovani occorreva agire garantendo una formazione capace di promuovere l’esercizio della cittadinanza in un paese finalmente democratico, dall’altra le politiche assistenziali erano orientate al fine di marginalizzare famiglie bisognose segnalate come contigue all’attivismo politico di sinistra. Una linea di intervento sposata sia da associazioni laiche sia cattoliche, per le quali, in un «clima da Guerra Fredda, le scelte educative s’inasprivano e il nazionalismo era ancora la via da perseguire» (p. 58). Una situazione che si protrae nella Venezia Giulia ben oltre la prospettiva reale della Guerra Fredda. Da un punto di vista diplomatico l’uscita nel 1948 della Jugoslavia di Tito dal Cominform aveva infatti ridimensionato la disputa sui destini di Trieste da questione di primo piano per gli equilibri internazionali a problema bilaterale dei rapporti italo-jugolsavi, portando fuori precocemente Trieste dal perimetro della Cortina di ferro. Tuttavia la battaglia tutta politica e a uso interno condotta da Roma per l’italianità della Venezia Giulia attraverso la propaganda e le associazioni locali si è protratta almeno fino al 1954 (anno in cui, a seguito del Memorandum di Londra, venne soppresso anche l’UZC).
Nella regione alto adriatica attraversata da lutti, separazioni e ricomposizioni familiari non sempre a lieto fine, la questione del ritorno non riguarda solo gli ebrei scampati all’esperienza dei campi di sterminio. Rientrano infatti dopo lunghe peregrinazioni anche i deportati politici, gli IMI e tornano alla vita civile, spesso dopo anni di clandestinità, anche i partigiani. Il reinserimento di queste persone, nel già citato saggio di Francesca Bearzatto, si rivela, attraverso le parole dei testimoni, da subito problematico. L’impatto dei reduci e degli ex deportati politici con chi aveva subito gli effetti devastanti dell’occupazione nazista e della guerra civile vede relazioni segnate da incomprensioni e diffidenze reciproche. Malcelato è il rimprovero di chi era rimasto nei confronti di chi, con la propria disobbedienza politica, aveva rotto lo schema di rodate consuetudini sociali e culturali a lungo sedimentate nella realtà contadina. Il contesto di studio proposto nel saggio di Francesca Bearzatto si sposta dalla Venezia Giulia, collocandosi “nelle retrovie” del confine conteso, nei territori della Destra Tagliamento. Si tratta di un’area rurale, violentemente segnata dalla repressione nazista e dove la guerra partigiana ha scritto pagine importantissime per la Resistenza dell’area nord-orientale del paese. Il saggio, attraverso le parole dei testimoni interpellati nell’arco di una ricerca che si svolge ormai da diversi anni, pone in luce le dinamiche di questi difficili rientri. Il ritorno a casa azzera le a lungo odiate distanze fisiche imposte da anni di guerra, prigionia o clandestinità. Ma le persone che tornano ad incontrarsi dopo tanto tempo sono assai cambiate dal tempo dell’ultimo saluto. Da una parte reduci con forme di un Disturbo da stress post traumatico tanto evidente a posteriori quanto non diagnosticabile, per il semplice fatto di essere stato descritto per la prima volta solo nel 1980. Un disturbo a cui si somma l’amarezza per l’emarginazione politica e lavorativa che colpisce, ancora una volta, soprattutto i militanti comunisti e socialisti. Mentre il Paese cambia con le sue istituzioni, con i tempi lunghi di un iter di radicale trasformazione dell’assetto statuale, la povertà e la disoccupazione impongono di decidere in fretta quale percorso individuale imboccare, incuranti degli strascichi che la guerra ha lasciato sui corpi e sulla psiche dei reduci. Per molti la via scelta è quella dell’emigrazione, motivata dagli esiti di una guerra di liberazione considerati inconsistenti e al contempo da condizioni di marginalità sociale e lavorativa insostenibili. Dall’altra parte però anche la comunità di partenza fa fatica a riaccogliere coloro che se ne sono allontanati. La cultura contadina, costruita su processi irreversibili, vede nei ribelli la causa principale delle stragi compiute da fascisti e nazisti e interpreta le sofferenze da loro patite come naturale conseguenza di scelte compiute per ragioni politiche. In questo modo la dinamica di colpevolizzazione e il silenzio, adottato da entrambe le parti, sulle violenze subite impediscono la ricomposizione di una comunità capace di accogliere, condividere ed elaborare i traumi dei reduci ed ex internati politici perché, a sua volta, ferita nel più profondo dalla guerra civile e dall’occupazione nazista.
Il volume rappresenta, attraverso i saggi che lo compongono, la restituzione di prospettive di ricerca aperte e dati che cominciano a tracciare i contorni di un quadro via via più definito su questioni fino ad oggi solo parzialmente messe a fuoco. Come dichiarato anche nell’introduzione al volume curata da Anna Maria Vinci resta molto da studiare, in relazione alla stagnazione economica dell’area giuliana e al forte fenomeno migratorio che colpì tutta la regione. Restano inoltre ancora da seguire fino in fondo i fili di vicende biografiche che imboccano gli anni Sessanta e Settanta e di come queste abbiano impattato sulle generazioni successive. Perché la prospettiva della storia sociale porta la ricerca a camminare sul crinale di domande che riguardano spazi e relazioni che hanno a che vedere con gli aspetti più profondi di vissuti individuali e collettivi, trovando risposta solo dall’incontro di fonti diverse tra loro, capaci di rimettere al centro dell’attenzione storie solo in apparenza marginali.
Quando si depongono le armi. Spunti di ricerca nell’area al confine orientale. 1945-1954
A cura di Anna Maria Vinci
Irsrec – Istituto Regionale per la Storia dell’Età Contemporanea nel Friuli Venezia Giulia
Trieste, 2020
pp. 209
€ 20,00
Riferimenti bibliografici
D. D’Amelio, A. Di Michele, G. Mezzalira (a cura di), La difesa dell’italianità. L’Ufficio Per Le Zone Di Confine A Bolzano, Trento E Trieste (1945-1954), Il Mulino, Bologna 2015;
G. Fulvetti e P. Pezzino (a cura di), Zone di guerra, geografie di sangue. L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia (1943-1945), Il Mulino, Bologna 2016;
Anna Maria Vinci (a cura di), Il difficile cammino della Resistenza di confine. Nuove prospettive di ricerca e fonti inedite per una storia della Resistenza nel Friuli Venezia Giulia, Irsml, Trieste 2016.