di Elisa Geremia
La storia di vita di una donna che ha saputo raccontare con lucidità e ironia il passaggio dalla giovinezza all’età adulta rivelando il dramma della condizione femminile e la difficile quotidianità dei contadini emigrati in Australia.
Non è un paese per regine
Elena Carniato, classe 1931, è una nonna e bisnonna, ha una corporatura robusta, la permanente che rende voluminosi i suoi bianchi capelli, il rosario che scorre tra le dita mentre guarda la televisione e una voce ironica e fascinatoria che la rende un’eccellente narratrice di storie. Ha raccontato la sua a Stefania Pavan – con cui avevo fatto amicizia proprio durante il corso universitario di Storia Orale – che ha saputo non solo ascoltarla con empatia e attenzione, ma anche tradurla e riportarla nel mondo della scrittura valorizzandone la vivacità e l’immenso valore storico e sociale.
Par ‘ndar a far l’inferno è il titolo scelto per la sua storia di vita nella quale l’esperienza migratoria, che per cinque anni la condusse in Australia, rappresenta il fulcro di un’esistenza segnata dal lavoro, dalla fatica e dalla sottomissione alla figura del marito. La consapevolezza e la giusta distanza dettate dalla vecchiaia rendono Elena capace di un’analisi lucida non solo dei suoi anni di lavoro in Australia, ma anche della sua condizione di donna:
[L’Australia] è un ricordo amaro. Avevo fatto il calvario in Australia! Se era adesso … tre giorni una donna non sta con uno così! E dopo dici che sono matta! Ma ringraziamo Dio, perché a ottantaquattro anni sono ancora un po’ accettabile. Bisognava che stessi zitta e basta! Far quello che diceva lui e basta. Se fosse adesso neanche un giorno farei quella vita là. Scherziamo?! […] Non era vivere, porca miseria, mai! Non ho fatto una bella vita, ma anche per la mia ignoranza. Ma una volta era così perché eravamo ignoranti. Perché se mi facevo rispettare non mi pestavano mica così! Così la mia vita. Un calvario. Non lo auguro alla bestia peggiore, a nessuno.
Con queste parole vibranti Stefania Pavan decide di concludere la testimonianza di Elena e con queste decido di iniziare la mia recensione per sottolineare fin da subito uno dei maggiori punti di forza del libro: la grande potenza narrativa di questa voce.
La Terra della Regina
Elena sbarcò a Sidney il 18 febbraio del 1958: aveva ventisei anni, due figlie piccole e un marito che già da due anni l’aspettava nella regione del Queensland, la Terra della Regina, nel nord-est dell’Australia.
Erano trascorsi circa duecento anni dalla prima colonizzazione inglese dell’isola e settantasette dalla nascita di Cèa Venèssia – poi denominata New Italy – il primo insediamento di italiani, pressoché tutti veneti, nell’attuale città di Lismore nella regione del Nuovo Galles del Sud, a circa ventitré ore di auto da Mereeba, dove abitò Elena. Ma il primo consistente flusso di immigrazione italiana si ebbe negli anni Venti del Novecento, da un lato in conseguenza del freno legislativo posto dagli Stati Uniti nel 1924 che imponeva delle “quote” per contenere gli accessi al paese, dall’altro in conseguenza della crisi economica di Argentina e Brasile. Il viaggio di Elena si inserisce invece nella seconda ondata migratoria, la più corposa, che si ebbe a partire dal secondo dopoguerra e che, assieme alle persone, vide un grande flusso di lettere e fotografie che contribuirono a costruire l’immaginario di una terra promessa, fertile e ricca, dove poter davvero iniziare una nuova vita:
[I miei cugini] scrivevano lettere, avevano trovato l’America. Mostravano macchine grandi, che facevano vita da signori, che facevano soldi a palate […] e lui [il marito] si è lasciato abbindolare. E io son dovuta andare perché ero sposata con lui. Una volta, settant’anni fa, una femmina che dicesse che non voleva andare [fa il gesto del matto] eravamo schiave degli uomini. [E tutto] per andare a far l’inferno. Rovinati secchi, perché se stavamo qua … Quando siamo tornati indietro noi, già l’Italia stava riprendendosi e tutti si facevano la casa senza andare in Australia a far quelle vite là in mezzo ai boschi, come le bestie.
Il racconto della vita in Australia si intreccia strettamente con la vita matrimoniale di Elena – il ruolo dominante del marito, oltretutto geloso, l’obbedienza e la sottomissione imposte alle donne, il carico di lavoro domestico che si sommava a quello nella farma (il termine inglese adattato al dialetto veneto per indicare l’azienda agricola dove coltivarono prima la canna da zucchero e poi il tabacco) – e con la scarsa scolarizzazione della popolazione contadina che lei descrive come un’ignoranza foriera solamente di ulteriore miseria:
Ma una volta eravamo cretine.
Che stupida! Quanto ignorante, quanto scema ero?
Non mancano però episodi di rivincita nei quali il suo carattere forte e determinato riesce ad emergere facendosi strada tra la rigidità delle convenzioni e la gerarchia dei ruoli sociali: come quando si rifiutò di sottomettersi alle strane indicazioni del medico durante una delle visite di controllo effettuate prima della partenza, oppure quando decise da sola di accettare l’offerta di lavoro in una nuova fattoria anche se il marito non era d’accordo o infine quando si fece valere per riscuotere la pensione d’invalidità per il marito ormai morente:
«Alle vedove date la pensione! A un disgraziato che ha quarantacinque anni, che sta aspettando la morte, che non vuole mangiare perché mi mantenga io, a quello no non date la pensione! Datela a lui, che non vedete che sta morendo?!». Insomma, ho fatto la fine del mondo; mi ha detto Silvana: «Mamma, non so come hanno fatto a non buttarti fuori!». Ho fatto sta scenata e mi hanno mandato tutti i soldi, gli hanno dato subito la pensione.
Le parole di Elena rendono la sua storia di vita estremamente avvincente e i dettagli conservati nella sua memoria restituiscono immagini così nitide e intense che pare di toccare ciò che descrive: sembra di vederlo il dolore di suo padre quando la accompagna al porto Genova; e i gesti compiuti per costruirsi un lavello con un pezzo di eternit, uno di nylon, due casse e una mastella; come le due bottiglie di latte che lasciava nella culla del suo terzo e ultimo figlio – nato proprio in Australia – fasciato ben stretto e quasi abbandonato a sé stesso se non fosse stato per l’aiuto della padrona e della figlia maggiore.
Elena, Rina e Anisja: lontane e allo stesso tempo vicine
La stessa potenza narrativa e tematiche simili, le ho trovate in altri due libri che ho letto prima e dopo Par ‘ndar a far l’inferno: il primo di un’autrice definita l’unica scrittrice contadina italiana, Rina Gatti, vissuta in Umbria tra il 1923 e il 2005 e che scoprì il mondo della scrittura a sessantacinque anni, grazie al riposo creativo della pensione; il secondo scritto dalla cognata di Lev Tolstoj, Tat’jana Andreevna Kuzminskaja, e che raccoglie la testimonianza di una donna contadina di fine Ottocento, Aksin’ja Tjurinaja. Non credo sia stato un caso: molto spesso i libri si chiamano tra loro e sanno quando è il momento di catturare la nostra attenzione. Stanze vuote e Memorie di una contadina si sono parlati da una mensola all’altra della mia libreria e si sono aperti davanti a me, finalmente pronta per sfogliarli con le antenne della giusta lunghezza.
Ognuna delle tre pubblicazioni è scaturita da un approccio diverso alla testimonianza: Stefania Pavan ha registrato i suoi incontri con Elena, li ha poi trascritti e riordinati scegliendo un ordine cronologico; la vita di Rina Gatti, invece, è stata scritta da lei stessa partendo da una serie di appunti autobiografici che poi si sono trasformati in un oggetto letterario suddiviso per stanze; Tat’jana Andreevna Kuzminskaja, infine, ha scritto parola per parola la testimonianza della contadina con cui aveva stabilito un rapporto ispirato da un affetto quasi paterno per poi correggerne la forma e alcuni passi assieme al cognato Lev Tolstoj.
Come la giustapposizione di alcuni colori li fa vibrare rendendoli più accesi e belli, così la giustapposizione di questi tre libri – tra Veneto, Australia, Umbria e Russia – mi ha permesso di cogliere in queste voci l’urgenza di ascoltare e custodire le loro storie, soprattutto quelle delle donne. Storie che, nonostante i decenni che le separano, portano con sé la stessa energia vitale e concreta, che le rende ricche di emozioni e dettagli; la stessa visione salvifica del mondo che ha permesso alle tre donne di sopravvivere alla miseria, ai soprusi e al peso della quotidianità; la stessa vena ironica, che ha dato potenza a narrazioni che facilmente avrebbero potuto scivolare nell’autocommiserazione; e infine la stessa, autentica, voglia di amare e di essere amate che ha dovuto fare i conti con l’istituzione del matrimonio:
Che cosa facevo? Una volta non era come adesso […] Non è giusto stare insieme e fare una vita come quella che ho fatto io! Pensa dove sono finita! Ho ancora i nervi per quella mastella! Abituata come figlia unica, mia madre mi trattava come una regina; ero figlia sua, lavavo la roba piccola, ma le lenzuola no. Ho sempre lavorato, anche con mio padre – avevamo cinque campi di terra –, ma a lavorare da cristiani.
L’infanzia e la giovinezza di Elena – che si possono leggere nella prima parte della testimonianza – non sono state certo facili, ma nei suoi ricordi aleggia inconfondibile l’amore con cui la sua famiglia la circondò trattandola con rispetto e sostenendola nei momenti più difficili. A partire dal matrimonio, invece, finì la sua vita da regina e la speranza di trovare un luogo degno di essere chiamato regno. Lo stesso si può dire per Rina e Anisja: la scrittura di Rina infatti cambia radicalmente tra il suo primo libro dedicato all’infanzia e alla giovinezza e il secondo che inizia proprio con il matrimonio; mentre Anisja inizia la sua storia chiarendo subito la sua posizione:
Mi sono sposata controvoglia. Non avevo ancora diciassette anni, che già si erano messi a cercarmi marito […] Vivevo nella casa dei miei e non mi mancava niente. Si stava bene, né ricchi né poveri. I grandi andavano a fare la corvè nei campi e io badavo ai polli alla fattoria. Si era liberi, e si stava bene. Da ragazza ero allegra, a cantare, a ballare, la prima in tutto.
Le similitudini quindi sono tali che spesso tendo a confondermi quando cerco di ricordare chi sia la protagonista di alcuni episodi letti: Anisja, Rina o Elena?
Stefania, il suo sguardo e la sua penna
Faccio ora un passo indietro per soddisfare la curiosità di tutti coloro che si occupano di storia orale – ma anche di storie di vita, di microstoria o di storia delle donne – e che si stanno chiedendo perché Stefania Pavan si sia interessata a questa vicenda e come abbia svolto il suo lavoro di ascolto e riscrittura.
Innanzitutto, la testimonianza raccolta da Stefania Pavan nel corso di quattro interviste realizzate nel 2016 si inserisce in una relazione più ampia e lunga poiché Elena Carniato è la nonna di suo marito. Il legame tra nonna e nipote, quindi, si è arricchito delle sfumature del legame tra testimone e ricercatrice in occasione di una tesina per il corso universitario di Storia delle donne. A partire da quella base, Stefania ha poi ampliato il suo sguardo abbracciando tutta la vita di Elena e in particolar modo l’esperienza migratoria cercando di capire «in che modo il periodo trascorso all’estero – così come il ritorno in patria – avesse influenzato l’esistenza e soprattutto l’identità di una donna e, di riflesso, della sua famiglia».
Come racconta la stessa Pavan nell’introduzione del libro, le interviste si sono svolte in dialetto trevigiano – per cui è stata necessaria poi anche una traduzione, oltre alla riscrittura – e sono sempre state accompagnate dalle fotografie d’epoca conservate negli album di famiglia. In questo modo il racconto ha preso ancora più corpo arricchendosi di alcune intraducibili espressioni vernacolari e di dettagli visivi e informazioni interessanti relative all’immagine di sé che la famiglia emigrata voleva dare a chi era rimasto a casa.
Stefania Pavan ha poi eseguito un raffinato lavoro di montaggio con l’obiettivo di
riportare la testimonianza di Elena Carniato alla maniera di Nuto Revelli, come un lungo racconto mai interrotto dalle mie domande. [Ho cercato] di raggruppare le risposte per nuclei tematici, perciò l’ordine seguito nelle interviste non è fedelmente rispecchiato. Ho creduto in questo modo di rendere più piacevole la lettura di questa storia di vita, conservando in ogni caso sia l’intenzione comunicativa della testimone sia le sue parole precise. Solo quando necessario a comprendere meglio i contenuti ho integrato il racconto con parole mie, che si trovano tra parentesi quadre.
Oltre a queste e altre informazioni sul metodo, all’interno dell’introduzione vengono esplicitate anche le tematiche chiave e alcune linee interpretative che permettono ai lettori di leggere con più chiarezza e consapevolezza la storia di Elena. E di posizionarla, così, all’interno di paesaggi disciplinari più ampi.
Par ‘ndar a far l’inferno. Storia di Elena che emigrò in Australia (1958-1962), a cura di Stefania Pavan, Istresco, Treviso 2021, € 10,00
Elisa Geremia, laureata in Antropologia nel 2007 con una specializzazione in Antropologia del rischio, ha approfondito in particolar modo l’antropologia sociale, quella del paesaggio e la storia orale. Lo studio della vulnerabilità sociale delle comunità e della loro percezione del rischio l’ha portata a collaborare con associazioni (Mondo in Cammino: Progetto Humus, ricerca sulla percezione del rischio radioattivo nelle aree contaminate da Cernobyl) e studi di ricerca (Observa Science in Society: Progetto PAR.CO – Partecipazione e Comunicazione per la tutela ambientale nella Valle del Chiampo). In queste esperienze ha incontrato il mondo delle pratiche partecipative, approfondito poi con un corso di perfezionamento IUAV, che l’ha portata a condurre focus group e workshop e a coordinare gruppi di lavoro culturali. Ha collaborato anche con musei e fondazioni in veste di ricercatrice, catalogatrice e come segreteria organizzativa di eventi. Il suo ultimo progetto si chiama giardini di parole.