di Giulia De Cunto.
«Le migliaia di morti, feriti e senzatetto rendono il terremoto dell’Irpinia del 23 novembre 1980 il più disastroso della recente storia italiana», scrive Gabriele Moscaritolo, autore di Memorie dal cratere. Storia sociale del terremoto in Irpinia, di cui pubblichiamo qui la recensione scritta per noi da Giulia De Cunto.
Ho incontrato per la prima volta il lavoro di Gabriele Moscaritolo sul terremoto in Irpinia del 1980 un paio d’anni fa, quando ancora non c’era un libro ma una raccolta di interviste e qualche articolo, e io ero impegnata a mettere in piedi la mia tesi di laurea in urbanistica sulla ricostruzione. Mentre ero affannata a cercare di capire le scelte politiche che portano ad una ricostruzione fedele al passato, oppure a forme urbane e architettoniche completamente nuove, mi sono scontrata con una dimensione profondamente più umana e coinvolgente da indagare, che è quella che riguarda le ripercussioni dei cambiamenti radicali nello spazio fisico sulla vita delle persone che abitano i luoghi colpiti dal disastro. Ho trovato nella ricerca di Gabriele, le domande alle quali trovo interessante cercare risposte.
Cosa significa per una comunità scegliere di provare a ricostruire tutto com’era o immaginare di abitare uno spazio completamente nuovo? Come fare ad individuare quali elementi del costruito valga la pena mantenere e cosa invece lasciar andare? Quanto gli abitanti riescono ad avere potere decisionale nella ricostruzione e da cosa dipende la loro capacità di scelta? cosa vuol dire tornare ad abitare un paese nuovo, chiamato allo stesso modo di quello in cui si è sempre vissuto, ma completamente diverso? e tornare invece in un paese che ha le stesse forme ma non è più lo stesso? Credo che nella sua ricerca iniziale, come nel suo lavoro più recente, Gabriele sia sceso nel profondo queste ed altre importanti domande indagando il terremoto nelle vite reali di luoghi e persone.
Memorie dal cratere è un saggio che sa raccontare: il lettore viene accompagnato nella dimensione più intima di una catastrofe fin ora narrata principalmente dall’esterno, della quale conosciamo scandali e malfunzionamenti, quelli che agli occhi di chi passa a cavallo è più facile cogliere. Ma chi passa a cavallo non vere niente, ci ricorda Gabriele. L’obiettivo di questo libro è infatti quello di far emergere gli aspetti più profondi di un’esperienza complessa, che ha segnato le storie, personali e collettive, non solo di quelli che l’hanno vissuta sulla propria pelle ma anche di coloro che hanno conosciuto i luoghi colpiti soltanto dopo il sisma. Quest’importante sfida, viene affrontata attraverso la raccolta di testimonianze orali – sia nella forma di interviste che come conversazioni spontanee nate sul campo di studio – e di fonti d’archivio, inserite all’interno di un quadro storico e politico in evoluzione nelle diverse fasi del disastro. L’esperienza dei testimoni è indagata in profondità attraverso l’analisi di due casi studio scelti tra i Comuni più duramente colpiti, Sant’Angelo dei Lombardi e Conza della Campania, che hanno seguito strade opposte nelle fasi della prima emergenza e della ricostruzione.
Il libro si apre con un excursus sulla storia sismologica del territorio irpino e segue poi l’evoluzione cronologica degli eventi ricostruendo, capitolo dopo capitolo, le criticità che ogni momento del disastro porta con sé cogliendo analogie e differenze nell’affrontarle tra gli abitanti dei due paesi oggetto di studio. Il primo elemento critico rispetto alla narrazione generalista sul terremoto dell’80, è riscontrabile nella descrizione della fase storica che l’Irpinia stava vivendo prima che il terremoto arrivasse. Seppur segnato dalle problematiche di povertà, spopolamento e arretratezza, proprie di territorio interno del sud Italia in quegli anni, si stava attraversando una stagione di lenti ma profondi cambiamenti che stavano portando a significative trasformazioni negli equilibri territoriali. A Conza ad esempio, per la necessità di nuovi alloggi data dal ritorno di molti emigranti, il paese aveva iniziato a spostarsi verso valle, una tendenza che ha giocato un ruolo fondamentale nelle scelte post-sisma. Sant’Angelo invece stava vivendo un momento di particolare vivacità avendo assunto sempre più centralità rispetto ai dintorni, grazie alla presenza di uffici e servizi.
Un tempo interrotto dal brivido geologico che nella sera di un insolitamente caldo 23 novembre ha diviso le vite degli abitanti di questi loghi in un prima ed un dopo. Un momento, quello dell’impatto, che viene raccontato con dramma e commozione, ma del quale gli abitanti ricordano anche la grande lucidità e la forza di reazione inattesa che si sprigiona fin dai primi minuti. I lutti, il dramma del ritardo nei soccorsi, la confusione che tutto il Paese ha vissuto davanti ai cumuli di macerie trasmessi dai media nei giorni successivi, sono tra i passaggi più intensi del libro. Poi il primo anno, quello dell’organizzazione degli alloggi provvisori, affrontato in maniera radicalmente diversa nei due casi studio analizzati, porta con sé importanti riflessioni su come riuscire a coltivare coesione all’interno delle comunità colpite, nei lunghi anni della ricostruzione. E quindi le scelte sulla strada da percorrere per la ricostruzione: a Sant’Angelo si scegliere di voler tornare ad essere come prima, a Conza non si può far altro che trasformarsi. Eppure i suoi abitanti, pur consapevoli di star scegliendo un sito e un’organizzazione dello spazio totalmente nuovi rispetto al passato, ci tengono a mantenere in qualche modo la loro forma di abitare, una necessità che si scorge ad esempio nella ferma richiesta fatta ai progettisti del nuovo insediamento, di mantenere un impianto di case unifamiliari. Chissà se negli spazi della nuova Conza, profondamente diversi da quelli del centro storico distrutto, è ancora possibile sentire l’odore di cucinato, come una delle testimoni ricorda avvenisse del paese di prima.
Gli anni della ricostruzione sono lunghi e mutevoli, sono gli anni di vita nei prefabbricati, dove i rapporti tra persone e gruppi familiari si modificano più volte, prima del rientro per alcuni in un paese totalmente nuovo, e per altri in un paese uguale, ma comunque diverso.
Trasversali alla progressione degli eventi ci sono poi dei temi costanti e complessi che Gabriele porta avanti aggiungendo man mano elementi per scendere più in profondità. Il rapporto tra il prima e il dopo ad esempio, o i ragionamenti su come la memoria delle persone elabori questi ricordi, sono alcuni degli aspetti che l’autore tiene ad analizzare con cura. La trasmissione dell’evento traumatico tra le diverse generazioni e il tema di come i giovani, anche quelli nati dopo il terremoto, siano indissolubilmente legati all’esperienza del sisma vissuta dalla collettività, appare un nodo chiave dell’analisi. I figli del terremoto, sono la generazione nata tra prefabbricati e macerie, una generazione per cui gli scenari della ricostruzione sono vita quotidiana:
“…Esiste un altro luogo, sicuramente meno esplorato, dove le tracce della catastrofe sono impresse con forza, segni che a distanza di anni ancora caratterizzano vita, visioni, cultura, linguaggio e immaginario di intere popolazioni. Questo luogo corrisponde alla memoria. Come se le vibrazioni provenienti dal sottosuolo si fossero ripercosse ben al di là delle abitazioni per estendersi nella vita di persone e intere collettività; onde lunghe per via delle quali la parola terremoto per decenni è stata, ed è ancora, quella che può spiegare gran parte della vita di individui e famiglie, fatti e vicende del passato e del presente. Un evento che circonda e avvolge ogni cosa, che ancora risuona, scuote e dà senso a corsi individuali e collettivi.”
Difficile è tenere così bene insieme, come Gabriele ha saputo fare, la sfera privata della catastrofe e l’ampio quadro d’analisi in ambito sociologico, storico e politico. Tutto trova il proprio posto, la propria radice, negli eventi raccontati. Un libro di ricerca consapevole, insieme personale e plurale.