Pubblichiamo qui un contributo di Greta Gorzoni tratto dalla sua tesi triennale in Storia contemporanea dal titolo Le fonti orali alla prova della linguistica dei corpora: il ’77 bolognese tra memorie di dirigenti del Pci e militanti del movimento.
Il confronto fra quelle memorie così lontane, diverse e spesso contrapposte è stato condotto da Greta Gorzoni attraverso un’analisi linguistica dei racconti delle persone intervistate, delle loro parole e della loro sintassi: un’analisi per la quale l’autrice ha utilizzato uno strumento innovativo per la storia orale, la linguistica dei corpora.
In questo articolo per il nostro sito l’autrice ci presenta alcuni dei temi più significativi che sono emersi dal suo lavoro per la tesi e ci accompagna lungo alcuni passaggi di metodo che dimostrano come l’utilizzo della linguistica nell’interpretazione delle interviste possa rappresentare un suggestivo sentiero di ricerca da percorrere nella storia orale.
Incroci e convergenze di metodo
Ciò che il testo ci dice espressamente non costituisce più l’oggetto preferito della nostra attenzione. A noi di solito interessa maggiormente quello che ci lascia intendere, senza averlo voluto dire in maniera esplicita.
(March Bloch, 1969)
Nel 1981, dalle pagine di «Quaderni Storici», Maurizio Gribaudi coglieva in una suggestione di March Bloch il presupposto teorico che accomuna la disciplina linguistica a quella storica: «guardare, e cercare di vedere, al di là del testo, andando alla ricerca non solo del suo significato esplicito, ma di quello più profondo». Nel suo saggio Gribaudi, rivolgendosi con entusiasmo alle potenzialità di un dialogo tra linguistica e storia e accogliendo positivamente la lezione dello strutturalismo linguistico francese, traslava metaforicamente i termini della linguistica saussuriana “parole” e “langue” nella dimensione storica, come categorie, la prima, di «comportamenti individuali» e, la seconda, di «insieme astratto di regole interiorizzate da un gruppo o da una categoria sociale». A Gribaudi sarebbe seguita un’importante rivoluzione metodologica nel campo degli studi della linguistica, con l’implemento dell’apporto dell’informatica alla linguistica dei corpora – intesa come lo studio delle regolarità linguistiche presenti in una raccolta di testi in formato elettronico – che avrebbe avuto risvolti importanti in discipline letterarie e sociali.
Cercando di abbracciare una dimensione interdisciplinare mi è sembrato che un significativo punto di tangenza tra storia e linguistica dei corpora potesse essere rintracciato in una prospettiva empirica comune, che avvicina le due discipline anche da un punto di vista metodologico: la ricerca, l’osservazione e la raccolta di materiale linguistico autentico, realmente prodotto. Imprescindibile per il proposito del mio lavoro di tesi e per comprendere come le due discipline potessero sinergicamente dialogare è stata la lettura di «Sessantotto. Due generazioni» di Francesca Socrate. È stato fondamentale osservare come, attraverso le ricorrenze linguistiche delle testimonianze dei suoi intervistati, Socrate avesse colto gli impliciti significati di quanto, a un’analisi impressionistica delle fonti orali, sarebbe rimasto sommerso nel linguaggio.
Mi è parso che un simile approccio potesse risultare utile anche in risposta alle difficoltà di storicizzazione della memoria contesa sul ‘77. Forse, la linguistica dei corpora poteva permettere di mantenere la centralità delle narrazioni prodotte dai partecipanti delle dinamiche che si sono susseguite a Bologna nel ’77 – tra i fatti di marzo e il convegno di settembre –, indagando le parole che nel racconto autobiografico tradiscono le sfumature e le ombre. Sono così emerse in questo tentativo di analisi le lacerazioni e le contraddizioni che permangono nella memoria, nelle elaborazioni e rielaborazioni del lungo ’77 bolognese, da parte di chi lo ha animato e osservato da prospettive particolari.
Il ‘77 a Bologna: la memoria protagonista
A che punto è la città?
La città in un angolo singhiozza.
Improvvisamente da Via Saragozza
le autoblindo entrano a Bologna.
C’è un ragazzo sul marmo, giustiziato.
A che punto è la città?
La città si ferisce
camminando
sopra i cristalli di cento vetrine.
(Roberto Roversi, 1977)
Bologna, via Mascarella. Civico 37, sul muro i fori lasciati dai proiettili sparati l’11 marzo 1977, attorno i cerchi di gesso tracciati dagli inquirenti, uno di questi contorna il solco del proiettile calibro 9 che uccise Francesco Lorusso. Francesco, studente e militante di Lotta Continua, cade inerme a terra e assieme a lui sprofonda l’apparente illusione che potesse mantenersi vivo un dialogo tra i comunisti della Federazione bolognese del Pci e i “non garantiti” che animavano le fila del Movimento in città. Oggi, sotto il portico, l’incedere dei passi è regolare, procede imperturbato nonostante le fessure nel muro – nascoste da una lastra di vetro, oramai simili a un cimelio museale –, ma l’eco di una drammatica lacerazione ancora aperta solca dirompente le vie del contemporaneo.
I tragici eventi delle giornate di marzo ricorrono fulminei nella memoria dei suoi protagonisti, come fotogrammi che si susseguono veloci: l’omicidio da parte delle forze dell’ordine di Francesco Lorusso l’11 marzo, la guerriglia urbana che ne è scaturita nei giorni seguenti, l’innalzamento del livello dello scontro, l’arrivo dei blindati in città. La pervasività del trauma che si consuma nella dimensione bolognese e la specificità del conflitto tra giovani del Movimento e la Federazione bolognese del partito non è da rintracciare solo nell’elevata drammaticità dell’uccisione del giovane militante di Lotta Continua, ma è – più profondamente – intrinsecamente legata al ruolo e alla storia politica del Pci in città.
L’intransigente difesa legalitaria portata avanti dal partito contro la dimensione di violenza della guerriglia urbana, oltre che alla legittimazione della propria posizione nell’arco costituzionale su scala nazionale, nella dimensione locale bolognese si lega all’impossibilità – o incapacità – di accettare una messa in discussione di Bologna come “città rossa”, modello dell’esperienza comunista emiliana, da parte del magma di una nuova forza sociale che il partito non solo non è più grado di controllare, ma ancor più gravemente di comprendere. Tra le schegge di vetro della guerriglia urbana di marzo rimane, apparentemente, intatta la “vetrina rossa” di Via Barberia, sede del Pci, ma è più dirompente l’irrecuperabile frattura che si infrange nel dialogo politico, da cui scaturisce la definitiva rottura col Partito comunista italiano.
Nell’acceso dibattito nazionale, i fatti del marzo bolognese travalicano la dimensione cittadina, diventando la scintilla della fiamma di discussione internazionale che si accende attorno al tema della repressione animata (tra gli altri) in Francia da Sartre, de Beauvoir, Foucault, Deleuze e Guattari. Dalle pagine di «Lotta Continua» che ospitano l’appello degli intellettuali francesi, al convegno contro la repressione organizzato in settembre a Bologna, l’amministrazione comunista bolognese tenta di rinstaurare un legame con la dimensione giovanile, dimostrandosi collaborativa nell’organizzazione del convegno. Tra l’acceso dibattito politico al Palasport, gli happening che animano diverse soggettività nelle strade, l’esplosione di gioia e di rabbia del convegno si chiude con l’intervento di Dario Fo in piazza VIII agosto. Il Movimento, che aveva rifiutato e decostruito gli schemi e i rituali tradizionali, rivendicando un ruolo non passivo attraverso il protagonismo assoluto degli spettatori, alla conclusione del convegno resta immortalato – nella celebre immagine di Enrico Scuro – come una moltitudine che stipa la piazza, ma che, emblematicamente, ritorna passiva al ruolo di spettatore sotto al palcoscenico.
Da questa premessa, muove il mio tentativo di ricomporre un dialogo – ideale – tra le due anime protagoniste di questo trauma, per domandarsi cosa abbiano realmente rappresentato i drammatici fatti del ‘77 bolognese nelle singole biografie politiche. Per tentare di rispondere a tali quesiti mi sono messa sulle tracce di una memoria autobiografica e per lo più orale, di raccolte di interviste depositate in archivi diversi, da sottoporre agli strumenti statistici dell’analisi linguistica.
La Federazione bolognese del Pci è stata un’interlocutrice spesso assente nella memorialistica sul ‘77, ma rappresenta un soggetto fondamentale per comprendere le controverse specificità delle dinamiche bolognesi di questo nevralgico anno. Nella ricerca di testimonianze che fossero rappresentative della memoria dei comunisti bolognesi, ho incontrato il ricchissimo archivio di memorie audio-visive costituito dalle ricerche della Fondazione Gramsci Emilia Romagna tra il 2014 e il 2017, realizzato da un gruppo di ricerca – composta da Matilde Altichieri, Elena Davigo, Jacopo Frey, Teresa Malice, Alfredo Mignini, Tullio Ottolini, Enrico Pontieri, Toni Rovatti e coordinato da Paolo Capuzzo –, con l’intento di cogliere e interpretare le riflessioni che caratterizzano la memoria collettiva di comunisti bolognesi, esponenti del Pci o figure che vi hanno significativamente gravitato attorno tra gli anni Sessanta e Ottanta. L’archivio compone un mosaico di storie di vita di ampio respiro, che ho ascoltato e selezionato, trascrivendo esclusivamente le parti relative alle riflessioni sul ‘77 bolognese.
La memoria del Movimento del ‘77 l’ho incrociata attraverso il Centro di documentazione dei movimenti Lorusso – Giuliani, nello spazio autogestito VAG 61, consultando un progetto di raccolta di fonti orali da loro condotto nel 2007. Anche in questo caso ho ascoltato e trascritto le interviste, con il proposito di costituire un corpus confrontabile per omogeneità di grandezza e criteri di bilanciamento con quello precedentemente presentato. Ho riscontrato che i due differenti corpora di interviste, seppur provenienti da due progetti di ricerca estremamente diversi – distanti anche sul piano temporale, non si discostassero nell’intento generale di ricostruzione della biografia e dell’esperienza politica dei singoli intervistati. In entrambi i corpora spesso le esperienze di vita personale si fondono alla narrazione di momenti e snodi storici, in particolare di quelli percepiti come più drammatici e traumatici.
Nella costruzione della raccolta di interviste della Fondazione Gramsci Emilia-Romagna è esplicito l’intento di lavorare alla costituzione di un nucleo di documenti destinato all’utilizzo da parte di terzi. Il fondo delle interviste sul Pci si dota anche di un significativo corredo di informazioni, mentre più difficile è stata la ricostruzione dei profili degli intervistati del fondo dei militanti del ‘77, realizzato solo su mezzo sonoro, dove le diverse voci del dialogo tra intervistato e intervistatore spesso hanno rappresentato il solo veicolo per approcciarsi alla memoria dei militanti.
I due fondi di interviste si differenziano per l’età anagrafica degli intervistati e mostrano come in quelle giornate a Bologna non si scontrino solo la natura innovativa e intransigente del Movimento con le rigide categorie interpretative del partito, ma contemporaneamente anche due differenti generazioni. I dirigenti e funzionari del Pci intervistati sono nati tutti prima della fine del secondo conflitto mondiale (escludendo una sola eccezione nel 1946), circa la metà del campione è nata nella seconda metà degli anni ‘30, la restante parte nella prima metà degli anni ‘40. Si tratta di una generazione che spesso ha animato il ‘68 tra le fila della Sezione universitaria comunista. Per quanto concerne il fondo di interviste ai militanti del ‘77 per alcuni di essi non è stato possibile ricostruire un preciso profilo biografico, ma complessivamente si delinea una generazione differente nata tra gli anni ‘50 e ‘60 (la maggior parte nella seconda metà di questo decennio), che ha quindi esperienze di vita e strumenti interpretativi profondamente differenti per elaborare le vicende di cui è protagonista. Fin dal primo ascolto delle interviste ho notato che nel corpus dei comunisti bolognesi le vicende del ‘77 vengono richiamate in associazione al movimento del ‘68, come matrice attraverso il filtro della quale leggere e elaborare il ‘77 bolognese. Ma come interpretare questa specificità generazionale nel meccanismo della memoria? Oltre ai dati biografici, altri elementi extra-linguistici, come il sesso degli intervistati, la loro professione o il grado di scolarità, caratterizzano i due corpora e possono influenzare la narrazione dei protagonisti. Il corpus dei comunisti bolognesi è composto da 15 interviste, il campione si divide in 11 uomini e 4 donne per un totale di 2499 parole, intese come le diverse unità linguistiche e di contenuto, e 12255 tokens, intesi come il numero complessivo di unità di base del testo digitale; mentre quello dei militanti del Movimento del ’77 strutturato su 11 interviste, di cui 4 a donne e 7 a uomini, consta di 2479 parole e 12399 tokens.
Tra frammenti di esperienze politiche e biografie, nell’apparente disordine in cui i meccanismi della memoria operano, ho tentato di indagare attraverso i veicoli primari di espressione del ricordo – le parole – un significato recondito. Cosa può significare per l’analisi storica rendere esplicito quanto nel linguaggio resta implicito?
Sulle tracce delle parole
L’impressione, ascoltando e trascrivendo le testimonianze, era che venisse a comporsi un mosaico di parole che restituivano percezioni varie e composite: parole diverse per elaborazioni differenti. Mi è sembrato che potesse essere proficuo mettersi sulle tracce di come le parole si scelgono, si relazionano tra loro, indagando quindi – attraverso la linguistica dei corpora – i collocati, ovvero quelle parole che si “preferiscono semanticamente” e con cui il termine cercato ricorre insieme più spesso di quanto statisticamente atteso.
Per tentare di analizzare i due corpora da cui muove questa ipotesi di lavoro ho utilizzato AntConc: un software per la consultazione e l’analisi di corpora. Si tratta di uno strumento informatico per l’analisi automatica dei testi attraverso il quale è possibile, ad esempio, indagare la frequenza delle parole in un corpus. Mediante l’approccio quantitativo della logica statistica con cui il software lavora è possibile scorgere le regolarità linguistiche che emergono dai testi. Il software permette inoltre di visualizzare le parole oggetto di indagine nel loro contesto e risalire al file da cui provengono, ovvero alla narrazione o al narratore/narratrice che le ha pronunciate. Attraverso questa funzione tramite cui da ogni occorrenza si è in grado di risalire quindi al contesto della singola intervista da cui è tratta, mi sembrava che fosse possibile operare, nella prospettiva di mantenere un dialogo tra analisi quantitativa e qualitativa, fondamentale nella dimensione delle fonti orali.
Da software come AntConc, attraverso la ricerca di un termine specifico – query – è possibile, tra le numerose funzionalità, estrarne automaticamente i collocati. Si evidenzia in questo modo come nella costruzione narrativa degli intervistati l’elaborazione della memoria operi delle scelte, connotando in modo particolare il significato delle parole. Ho tentato di avviare l’analisi cercando di mantenere centrale il contenuto delle interviste e ricercando come query, attraverso lo strumento informatico del software, quelle parole che percepivo come nodi centrali nelle narrazioni. Mi è sembrato che si potesse così mantenere centrale l’aspetto qualitativo dell’ascolto delle interviste e le suggestioni che inevitabilmente da esse si traggono ancor prima dell’effettiva analisi linguistica, senza però fermarsi alla superficie impressionistica, ma ricercando nella lingua evidenze oggettive e quantitative delle ipotesi interpretative.
In questo senso, ho tentato di utilizzare la linguistica dei corpora per cercare di indagare più in profondità l’associazione mnemonica che gli intervistati del Pci attuano tra le contestazioni del ‘68 e il Movimento del ‘77. I dati biografici, descrivendo un campione di intervistati che ha animato il ‘68 o vi si è trovato in dialogo influenzano, probabilmente, le testimonianze della raccolta di fonti orali della Fondazione Gramsci:
Soprattutto le cose del ’77 sono state veramente il primo momento duro di scontro. Perché il ’68 con il Movimento è stata un’altra cosa, è stata veramente un’altra cosa perché la realtà di Bologna ha, a un certo punto, assorbito molto… è uscita sostanzialmente bene dal ’68… la realtà anche di partito, perché dentro il partito c’erano delle anime che facevano parte del Movimento. [Corpus Pci: Aureliana Alberici, nata nel 1941, dal 1975 riveste l’assessorato all’istruzione nella giunta del sindaco Zangheri. Raccolta della Fondazione Gramsci Emilia-Romagna (d’ora in avanti FG), intervista condotta da M. Altichieri e T. Malice il 10/03/2016.]
Ma come interpretare questa suggestione proveniente dall’ascolto delle interviste? Partendo dal termine «‘68», i primi tre collocati che emergono sono: «salto», «degenerativo» e «timore».
… ho difeso il Pci di allora contro il ’77. Perché il ’77 era la degenerazione del ’68 per me. […] È un aspetto degenerativo, un filone degenerativo del ’68, che invece è stata un grande cosa, una grande rivoluzione il ’68 per me. [Corpus Pci: Fiorenzo Guidoreni, nato nel 1938, responsabile culturale del Circolo Leopardi di Bologna. FG, intervista condotta da A. Mignini e T. Rovatti il 14/12/2017.]
Analizzati nel contesto della narrazione, questi termini rivelano in chi racconta e ricorda la percezione di uno scarto negativo tra il ’77 e l’esperienza di contestazione precedente – spesso legata a un coinvolgimento personale. Si evidenzia un forte spaesamento, un significativo timore per l’incedere di dinamiche nuove e non assimilabili ai paradigmi con cui era stato incanalato il movimento precedente.
[..] perché in fondo il ’68 così assembleare, così… è un’esperienza leninista, non so come dire, una cosa… nel suo modus operandi, quello di superficie non quello più profondo che invece funziona in un altro modo, è perfettamente riconducibile agli schemi classici della lotta di movimento. Il ’77 è una cosa che con quegli schemi è assolutamente incomprensibile. [Corpus Pci: Antonio La Forgia, nato nel 1944, primo segretario della Sezione universitaria comunista, assessore. FG, intervista condotta da E. Davigo e T. Malice il 16/02/2015.]
Un disorientamento che deve essere analizzato in relazione all’insorgere, nella dimensione politica, di soggetti sociali nuovi: i non garantiti – come sintetizza Luca Falciola «disoccupati intellettuali figli della crisi dell’istruzione di massa». Il partito percepisce di dover fare i conti con una, quanto meno parziale, sconfitta del ’68, alla luce della quale leggere il Movimento del ‘77. Sul solco della crisi del post- fordismo, la disarticolazione della fabbrica introduce una nuova dimensione del lavoro, intermittente e spesso a domicilio, distante dall’identità̀ che il mondo operaio aveva raggiunto dopo decenni di lotte sindacali.
Il ’77 […] era l’ultima resistenza, perché il ’68 non aveva vinto, questo era sicuro. Non c’è stato un rinnovamento culturale tanto quanto ce n’era bisogno, ma non solo da noi, in tutto il mondo. Questo è particolarmente pesante riconstatarlo. […] Non c’è stato salto culturale, il ’68 è stato il momento in cui in tutto il mondo i giovani premevano per dire basta. Nel ’77 c’è la constatazione che non ce l’avevamo fatta. [Corpus Pci: Giancarla Codrignani, nata nel 1930, parlamentare. FG, intervista condotta da J. Frey e T. Ottolini il 19/12/2014 e 30/01/2015.]
Analizzando invece nello specifico le vicende del ‘77, nei due corpora oggetto di analisi i termini che ricorrono, ovviamente, con significativa frequenza sono quelli attorno ai quali si costruisce la descrizione dei principali eventi che animano questo lungo anno: «Bologna», «settembre», «convegno». L’estrazione dei collocati può restituire immediatamente una sintesi delle associazioni semantiche attraverso cui il contesto bolognese del ‘77 viene percepito dai suoi protagonisti. Nel corpus dei comunisti «Bologna» ricorre significativamente assieme a termini come «traumatico», «occupata», «militarmente», «militarizzata».
Lì la cosa molto seria fu che per Bologna fu veramente traumatico, ma non solo per i fatti che accaddero, ma soprattutto perché si ruppe un equilibrio che aveva retto dal ’45 fino ad allora, mostrando che esisteva una parte di società che non si riconosceva in questo governo democratico progressista. [Corpus Pci: Vittorio Boarini, nato nel 1935, dirigente del settore cultura del Comune di Bologna, esce dal Pci nel 1966. Direttore della Mostra Internazionale del Cinema Libero di Porretta Terme e fondatore della Cineteca di Bologna. FG, intervista condotta da J. Frey nel 23/07/2015 e 10/09/2015]
In queste ricostruzioni la dimensione del marzo diventa totalizzante, si instaura una relazione biunivoca tra la città e la frattura traumatica che scaturisce da quelle giornate. L’analisi linguistica evidenzia un panorama differente invece per i militanti del Movimento, dove tra i primi collocati troviamo, per il lemma «Bologna», «sindacale» e «ricca». Per i militanti del Movimento prevale, rispetto al dramma delle giornate che li vede protagonisti, la restituzione di una frattura apertasi, per loro, prima del marzo. La città viene caratterizzata per la conflittualità tra la natura innovativa e intransigente del Movimento, l’identità novecentesca del Partito comunista e delle sigle sindacali della sinistra istituzionale.
[…] il marzo del ’77 è un momento che ha seguito tutto il periodo precedente. Il periodo precedente era un periodo che già dall’autunno vedeva lotte studentesche degli studenti fuori sede. Aveva visto un excursus nazionale con la cacciata di Lama ed era un discorso che a Bologna contro la vetrina sindacale... a Bologna l’avevamo già fatto completamente il discorso della funzione del sindacato, quello è un momento in cui noi disveliamo qual era la funzione del sindacato tradizionale confederale all’interno della contrattazione collettiva. [Corpus Movimento del ‘77: P.G., nasce nel 1959, Autonomia Operaia. Raccolta del Centro di documentazione Lorusso-Giuliani (d’ora in avanti Centro doc L-G.]
Le interviste dei militanti descrivono un terreno di scontro che si apre prima dei fatti di marzo, con pratiche di azione politica – come le auto-riduzioni e gli espropri proletari – volte a contrastare una città che il Movimento recepiva distante dai propri bisogni, ritenendo che il Partito comunista avesse abbandonato la sua accezione di partito di lotta, per incontrare un consenso interclassista che abbracciasse la cittadinanza.
[…] le autoriduzioni avevano un significato politico per noi molto preciso. Aumentava tutto, aumentava anche il costo della mensa, aumentavano anche i generi alimentari, aumentava la benzina, insomma… c’era un aumento generalizzato, e quindi, un impoverimento delle nostre tasche; e su questo le forme di contestazione sia all’amministrazione comunale e all’opera universitaria, che gestiva direttamente le mense universitarie allora, sia a quella che era, come dire, la Bologna ricca, la Bologna che appunto dava di sé un’immagine luccicante. [Corpus Movimento del ‘77: M.C., nato nel 1955, Lotta Continua. Centro doc L-G.]
Oggetto di duplice lettura è anche il convegno di settembre. Come suggeriscono i dati linguistici, le testimonianze del Pci restituiscono l’immagine di tre giornate dove prevale il clima festoso e colorato dell’ala creativa e da cui la città esce – apparentemente – ricomposta nelle drammatiche lacerazioni. Il corpus delle interviste del Pci restituisce alla query «settembre» come interessante collocato «rasserenò»: «Il settembre un po’ mi rasserenò, perché poi in fondo la politica dei panini e dei tortellini funzionò» – testimonia Ugo Mazza [Corpus Pci, nato nel 1945, dirigente della Federazione bolognese del Pci. FG, intervista condotta da J. Frey il 18/09/2015]. L’immagine che il partito percepisce di se stesso è vittoriosa, diametralmente opposta – e nelle testimonianze contrapposta – a quella estremamente drammatica del marzo.
Nel corpus dei militanti emerge la delusione per le aspettative e i desideri, riposti nel convegno e non realizzati. Collocato significativo di settembre è «uscì», come a indicare la fuoriuscita del Movimento dalla dimensione cittadina e la mancanza di soluzioni di continuità rispetto a una sua evoluzione futura. Si distinguono, tra i collocati di «convegno», due termini significativi e tra loro connessi: «suolo» e «raso». Entrambi sono da ricondurre alla testimonianza di C.B., la quale costruisce una memoria di quell’evento profondamente legata alla risignificazione personale che vi attua.
Io non ho partecipato al convegno perché sono stata in ospedale […]. L’ho vissuto la …casa …un po’ come il tradimento di tutto… è finita molto male secondo me. Perché quando sono ritornata a casa dopo essere stata in ospedale, c’era stato il convegno di settembre, non c’era più un filo d’erba. Non c’era più niente avevano portato via tutto, era passato il convegno e aveva raso al suolo tutta la casa, questo non mi ha fatto una bella impressione. Infatti, io quell’episodio io me ne sono andata a vivere con altre donne. È stata un po’ una secessione femminista. [Corpus Movimento del ‘77: C.B., Potere Operaio, militanza in gruppi femministi. Centro doc L-G.]
Come ha osservato Alessio Gagliardi, «i diversi protagonisti hanno, implicitamente o meno, adottato un proprio dizionario, rispondente al proprio punto di vista», restituendo un mosaico di parole composito, tra cui si muovono disallineate riletture delle complesse dinamiche che hanno portato all’insanabile – ma convergente nelle testimonianze – frattura tra il partito e il Movimento.
Alla base della frattura, come suggerisce un dato linguistico prodotto dal corpus dei comunisti – il lemma «capire» –, vi è una profonda incomprensione tra questi due mondi. Permane ancora nella memoria dei dirigenti della Federazione bolognese del Pci, anche diversi decenni dopo il tramonto del partito, la drammatica necessità di comprendere un trauma ancora irrisolto. Il lemma «capire» ricorre 37 volte nel corpus dei comunisti ed è presente nella quasi totalità delle interviste, legato spesso nel sintagma che compone all’avverbio «non» o ad altre costruzioni che negano il verbo.
Il partito io ricordo che era su per giù stravolto e sostanzialmente poco capace di capire la novità della vicenda che non poteva essere considerata semplicemente come un’esplosione di violenza derivata dal malcontento di un gruppo di facinorosi, ma che era un segnale politico. [Corpus Pci:Aureliana Alberici]
Qui stiamo parlando di un movimento di giovani purtroppo culminato in quel famoso, terribile omicidio di Lorusso. Che… i giovani ti aspettavano… avevano bisogno forse anche di una guida, che appunto forse noi anche a livello locale non abbiamo saputo dare. Non abbiamo capito forse fino in fondo quali erano le esigenze, le attenzioni… [Corpus Pci: Fiorenzo Guidoreni]
A posteriori emerge, dalle interviste dei comunisti, una forte autocritica, rispetto agli errori commessi dal Pci nell’annus terribilis. Significativamente anche lo stesso Zangheri ammetterà trent’anni più tardi: «Erano anni in cui la ragione s’era eclissata … E anche noi del Pci di sbagli ne facemmo, anche se non tutti quelli che ci vengono imputati. Di quei giovani non è che avessimo capito un granché…».
Nella grammatica della memoria
Nel lessico si fondono la lingua e la realtà esterna: si tratta del livello di analisi dove con maggiore immediatezza si evidenzia la cultura soggiacente. Ma spostandosi da una dimensione semantico-lessicale a una prospettiva morfo-sintattica di analisi della lingua è possibile incontrare il “non detto” della narrazione autobiografica. Passando dalla ricerca di parole “contenuto” (come quelle precedentemente presentate) a parole “grammaticali”, come i pronomi, ho cercato di indagare come ogni individualità si ponesse rispetto alla soggettività della propria memoria. Premesso che – in relazione all’impostazione biografica e personale che entrambi i gruppi di interviste possiedono – in ambedue i corpora prevale una narrazione in prima persona singolare, appare significativo il differente utilizzo dei pronomi di prima persona. Cercando «io» e «noi» all’interno dei due corpora si evidenzia come nel linguaggio dei militanti la prima persona singolare sia preponderante, rispetto al linguaggio dei comunisti dove si riscontra una significativa impostazione della narrazione in prima persona plurale.
A partire da questi risultati linguistici si può ipotizzare, tra i comunisti bolognesi e i militanti del Movimento, una differenziazione rispetto all’elaborazione della percezione della propria persona in relazione alla dimensione di partito o di movimento a cui è appartenuta. Significativo in quest’ottica che Vittorio Boarini nella sua testimonianza [Corpus Pci], nonostante si dimostri fortemente disallineato rispetto alle azioni e le interpretazioni del Pci sul ’77, senta il bisogno di sottolineare che la sua esperienza individuale sia costitutiva di un sostrato più generale: «Noi, anche io, […]». Osservando le occorrenze dei pronomi nel contesto si nota anche come vi sia una differenziazione nel campo semantico delle forme verbali di cui sono soggetto. Il «noi» dei comunisti si lega spesso all’azione e al movimento («noi facciamo», «noi facemmo», «noi facevamo»), mentre l’«io» dei militanti è correlato prevalentemente al campo semantico della riflessione («io credo», «io ricordo», «io penso», «io pensavo», «io rivendico», «io sono convinto»). La narrazione dell’«io» non emerge quindi per i militanti nel racconto cronachistico dei fatti, ma nella sua interpretazione. Nel corpus del Movimento l’«io» compare quando la memoria dei militanti riflette e interpreta la propria soggettività all’interno del magma multiforme di quello “strano movimento di strani studenti”. Il Movimento e la sua memoria, in balia di tentativi di ricostruzione e riappropriazione, ricerca nella propria militanza i termini su cui innestare il proprio ricordo, facendo riemergere tutte le drammatiche contraddizioni avvertite nel ‘77. «Poi, comunque, io credo che ci fosse… ci sono stati dei momenti dove alcune scelte erano giuste, altre erano sbagliate, questo è il dibattito ancora aperto…» [Corpus Movimento del ‘77: M.C. Centro doc L-G.]
Specularmente, oltre ai pronomi personali attraverso cui il soggetto esprime se stesso, ho tentato di analizzare, mediante il pronome indefinito attraverso cui si esprime l’alterità – il lemma «altro» –, come venissero descritti e percepiti nella memoria gli altri protagonisti con cui la soggettività è in relazione. Analizzando le occorrenze nei due diversi corpora del pronome indefinito e del pronome di terza persona plurale, si nota come per i comunisti gli «altri» sono, in quasi tutte le occorrenze, i militanti del Movimento: l’opposizione tra i due mondi si percepisce in modo netto dalle loro parole. Le barricate, linguistiche e fattuali, nelle interviste dei comunisti riaffiorano con drammaticità nella memoria: «la polizia non c’era, non c’era nessuno, c’eravamo noi e loro». [Corpus Pci: Marco Capponi, nato nel 1944, segretario del comitato di zona a San Donato. FG, intervista condotta da A. Mignini e T. Rovatti il 30/10/2017.]
Al contrario per i militanti del Movimento non è il Pci la prima immagine a cui si lega l’alterità, ma il Movimento stesso, la sua drammatica frammentazione e la conseguente diaspora. Solo un’occorrenza identifica con il lemma «altro» una contrapposizione tra militanti e comunisti. Quell’11 marzo, il terreno di scontro comune dove il Movimento e il Partito cercano attraverso letture antitetiche di affermare e legittimare la propria posizione politica, l’antifascismo, diventa la rappresentazione fisica e concreta dello scontro. Il Pci schiera il servizio d’ordine in difesa del Sacrario dei Caduti: «come a dire: io sono una cosa e tu sei un’altra». [Corpus Movimento del ‘77: M.G., entra in Potere Operaio, poi passa a Lotta Continua. Centro doc L-G.] Le soggettività militanti avvertono e restituiscono un forte senso di alienazione in un magma sociale così composito: «all’interno del movimento io ero una mosca bianca». L’alterità è rappresentata dalle «altre» sigle politiche che compongono il Movimento, dalle vie «altre» che i compagni intraprendono: «Mah io ho vissuto traumaticamente la scelta che hanno fatto moltissimi altri della lotta armata, come una sensazione di morte totale del movimento. […] La fine dei miei sogni. La fine…». [Corpus Movimento del ‘77: F.S., Lotta Continua. Centro doc L-G.]
Questo dato mi è parso particolarmente significativo quando, sperimentando le potenzialità dell’algoritmo statistico del software, ho incrociato il lessico specifico delle militanti. Il lessico specifico corrisponde alle keywords che in un sub-corpus occorrono in misura statisticamente maggiore rispetto a quanto si attenderebbe dalla frequenza in un corpus di riferimento. Costituendo come sub-corpus le fonti orali prodotte esclusivamente da militanti di sesso femminile e utilizzando come corpus di riferimento quello interamente composto dalle interviste del Movimento, emergono gli elementi linguistici caratteristici di una differenziazione per genere. Si evidenziano «sono» e «ho», come termini che maggiormente caratterizzano il linguaggio delle militanti donne, utilizzati nella maggior parte dei casi in forme verbali composte come ausiliari. Significativamente si riscontrano altre forme verbali e pronominali che mostrano come a connotare il linguaggio delle militanti donne sia una narrazione in prima persona singolare («io», «mi», «stata»). Tale dato è comprovato dal fatto che tra le keywords con un valore negativo – ovvero termini che non ricorrono quanto statisticamente atteso, ma in misura minore – si trova con un valore particolarmente elevato «fu». Nella memoria delle militanti, quindi, è pressoché assente una narrazione in terza persona al passato remoto: la narrazione è caratterizzata dal protagonismo delle soggettività.
Il “personale” che penetra nel ’77 sulla scena politica, divampa anche nella memoria delle militanti. Questo dato può essere interpretato in relazione all’irruzione del “privato” nella dimensione politica, che, se comporta un dirompente sconvolgimento nel Movimento, produce nelle femministe e nella loro “doppia militanza” le più traumatiche antinomie. Come testimonia F.S., militante di Lotta Continua, «La contraddizione personale è politica, quando poi rientrava dentro le organizzazioni raggiungeva livelli molto molto alti».
Io non credo di aver partecipato molto al Movimento del’ 77, io credo che ci sia stata anche una contrapposizione forte tra il movimento femminista e il Movimento del ’77. Io credo che il Movimento del ’77… molti dei temi di questo Movimento vengono dal movimento femminista e sono stati in parte travisati e disattesi. Se una grandissima parte del Movimento del’77 si è trasformata in quello che sappiamo tutti. Il Movimento del ’77 è finito molto male, è finito nella violenza, […] alcuni gruppi hanno prevalso su altri. Quanto c’era di comune tra movimento femminista, come pratiche di liberazione della vita personale, rifiuto della politica di un certo tipo, è stato tradito da questi altri gruppi. [Corpus Movimento del ‘77: C.B.]
Le contraddizioni avvertite, che non sembrano trovare soluzione nella sfera pubblica (in particolare dopo il convengo di settembre), si spostano per molte e molti nel privato, lacerandolo. Per le militanti la soggettività, da un punto di vista linguistico, emerge con forza come formula narrativa nelle elaborazioni di quell’anno. Questi dati ci pongono di fronte a un interrogativo a cui l’analisi linguistica potrà provare a rispondere: il personale è politico anche nella memoria?
Note bibliografiche
’77 storia di un assalto al cielo, Bologna, Centro di documentazione Lorusso- Giuliani, 2017.
Altichieri, M. Sbiroli, Le fonti orali presso la Fondazione Gramsci Emilia- Romagna e il contesto documentario della ricerca, in Il Pci davanti alla sua storia: dal massimo del consenso all’inizio del declino. Bologna 1976, a cura di P. Capuzzo, Roma, Viella, 2019, pp.143-156.
Iacoboni, Addio a Zangheri, il sindaco del ’77 che disse: «Il Pci non capì quei giovani», in «La Stampa», 8 agosto 2015.
Il ’77 da vicino e da lontano. Per una riflessione sul Pci nel dopoguerra, a cura di M. Boarelli, C. Ginzburg, N. Urbinati, Bologna, Comune di Bologna, 2019.
Gagliardi, «Stagione dei movimenti» e «anni di piombo»? Storia e storiografia dell’Italia degli anni Settanta, in «Storica», 2017, 67-68, pp. 83-129.
Gorzoni, Le fonti orali alla prova della linguistica dei corpora: il ’77 bolognese tra memorie di dirigenti del Pci e militanti del movimento, tesi di laurea in storia contemporanea, Università di Bologna, a.a. 2021-2022, relatrice prof.ssa T. Rovatti.
Gribaudi, A proposito di linguistica e storia, in «Quaderni Storici», 1981, 46, pp. 236-266.
Socrate, La linguistica dei corpora. Linguaggio e conflitto, in «Zapruder», 2020, 52, pp. 128-138.
Socrate, Sessantotto. Due generazioni, Bari-Roma, Laterza, 2018.