Spettacolo teatrale di Gualtiero Bertelli e Fabrizio Gatti
recensione di Lorenza Masè
Non ha un nome e nemmeno un cognome. Nessuna età. È soltanto un clandestino. Amori, amicizie, famiglia e dignità: tutto rimane nel luogo che lascia partendo. Come si fa a raccontare che il mondo non lo vuole? L’Europa lo respinge? Forse unico modo sarebbe provarlo sulla propria pelle. Travestirsi per trasformarsi in clandestino. Di certo, ci vorrebbe un bel coraggio. Fabrizio Gatti [ http://rcslibri.corriere.it/rizzoli/_minisiti/gatti/book_trailer.htm] inviato del settimanale l’Espresso si è trasformato in Bilal[1] per raccontare il viaggio che dal Senegal, passando per il Niger, arriva in Libia. E da lì fino in Italia. 6.350 kilometri. Il viaggio completo può durare da tre settimane a qualche mese. Attraversare il deserto del Sahara dentro camion e autobus per imbarcarsi da clandestini sulla rotta dell’Europa. Li chiamano i viaggi dei disperati, invece dice Gatti è «un viaggio eroico, pieno di coraggio e speranza». Già libro – Fabrizio Gatti, Bilal. Viaggiare, lavorare, morire da clandestini, Rizzoli Milano, 2007, pp. 495 – diventa anche spettacolo teatrale. Gatti voce narrante porta sul palcoscenico le vite incontrate percorrendo la lunghissima strada di chi senza passaporto rischia tutto pur di arrivare in Europa. Durante lo spettacolo il clandestino si riappropria di un nome e di un’età, del suo bagaglio di speranza e di dolore. Il giornalista li conosce e sa raccontarli perché era con loro. Ha ascoltato le loro storie, i loro ragionamenti, le loro speranze. Nella “finzione” teatrale le testimonianze di vita sono recitate da Gatti in italiano, ne risente la dimensione di crocevia linguistico che ogni viaggio possiede. Le storie personali che Gatti ha raccolto lungo strada sono dei flash che si susseguono veloci nell’incedere del racconto, senza rispettare il vero tempo del viaggiatore con le sue pause e suoi silenzi prolungati. L’impressione è che quegli uomini e quelle donne africani avrebbero ancora molto altro da dire. La loro memoria suscitata dal dialogo con il giornalista è un po’ imbrigliata dal montaggio narrativo, breve e incisivo ma senza grandi balzi in avanti o all’indietro a ripescare ricordi, perdendo il tratto di spontaneità che caratterizza l’oralità. Nello spettacolo l’esperienza del viaggio del giornalista si fonde con i luoghi autentici attraversati e gli stralci di vita dei clandestini. D’altra parte il lavoro di Gatti non si propone come una ricerca pura di storia orale ma come inchiesta giornalistica. Eppure la fonte orale coinvolge e ogni storia arriva come un pugno nello stomaco dello spettatore. La testimonianza aumenta il suo potenziale fondendosi nelle musiche e canti composti da Gualtiero Bertelli[2] e in parte tratti dai repertori dei paesi di provenienza dei nuovi schiavi. Nei canti finalmente l’italiano si mescola alle lingue del deserto creando un cortocircuito tra i migranti italiani di ieri e quelli africani di oggi. La musica[3] li mette in comunicazione, rendendo l’altro meno diverso. Le sofferenze, i dolori, il coraggio e le speranze degli italiani imbarcati nei transoceanici diretti verso l’America finiscono con l’assomigliare al tentativo disperato di migliorare la propria vita dei clandestini stivati nei barconi fantasma. «Navi amate – navi sofferte – navi maledette» in un misto di rabbia e tristezza canta quasi urlando Bertelli. Di certo, lo spettacolo è uno stimolo a raccogliere le esperienze di vita dei migranti. Bilal è una storia spietata. Soprattutto è una storia vera.
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[1] Bilal è il nome di copertura che Fabrizio Gatti ha usato per trasformarsi in clandestino
[2] Gualtiero Bertelli dal 1964 svolge ricerche sulla musica popolare e il canto sociale veneto e di altre regioni italiane
[3] Gualtiero Bertelli voce, chitarra e fisarmonica; Paolo Favorindo fisarmonica; Rachele Colombo, voce, percussioni, elettronica; Guido Rigatti contrabbasso, violoncello e oud; Maurizio Camardi sassofoni, duduk e flauti etnici.
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LINK
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http://rcslibri.corriere.it/rizzoli/_minisiti/gatti/libro.htm
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