di Giulia Ferraris e Davide Tabor con la collaborazione delle e dei partecipanti
Report collettivo sulla Scuola di storia orale di Collegno
Tra il 24 e il 26 giugno si è svolta a Collegno (Torino) la prima edizione della scuola di storia orale in Piemonte Voci oltre il muro. Scuola di Storia orale nel paesaggio della liberazione dal manicomio.
La scuola è stata promossa dal Dipartimento di Studi Storici dell’Università di Torino, dall’AISO – Associazione Italiana di Storia Orale – e dall’Associazione Culturale Eutopia, con la collaborazione della Città di Collegno, dell’ASL TO3 e del Collegno Fòl Fest, e rientra tra le azioni di conoscenza e valorizzazione dei patrimoni culturali della salute mentale dei due progetti di ricerca del dipartimento universitario torinese, Memorie che curano. Storia orale del superamento degli ospedali psichiatrici e Patrimoni da curare. Laboratorio di storia visuale sulla Certosa di Collegno (1960-2000).
La scuola si è concentrata sul lungo processo di superamento e di chiusura dei manicomi – iniziato alla metà degli anni Sessanta – e sulla successiva definizione di nuove pratiche di cura della persona, di politiche di salute mentale e di servizi territoriali, attraverso lo strumento della testimonianza orale. L’attività formativa si è concentrata in particolare sui nessi tra soggettività e spazio nelle narrazioni delle realtà manicomiali, alla ricerca delle varie forme del racconto individuale di questa storia, delle memorie implicite e traumatiche, delle relazioni tra memorie personali, collettive e pubbliche e delle ri-narrazioni dei luoghi e delle loro trasformazioni. Si è svolta attraverso momenti formativi in aula, geo-esplorazioni del territorio e del patrimonio culturale materiale e immateriale (architetture, padiglioni, archivi, collezioni di opere d’arte, ecc.), l’ascolto dei testimoni del passato manicomiale e l’osservazione delle trasformazioni che, dopo la chiusura dell’ospedale psichiatrico, hanno portato a nuove rifunzionalizzazioni del luogo.
La proposta, diffusa prevalentemente online attraverso numerosi canali comunicativi tra studiosi e studenti di discipline storiche, professionisti del patrimonio culturale, professioni mediche e socio-assistenziali, ha incontrato l’interesse di partecipanti dalle esperienze più variegate. Così tra noi partecipanti c’erano studentesse, dottorande e dottorandi in scienze umane e sociali, archiviste e archivisti, storici, una dottoressa internista, un insegnante di sostegno e un’ispettrice di polizia; tale varietà è stata uno dei grandi valori aggiunti di questi tre giorni di formazione e confronto, perché la conoscenza della storia manicomiale si mescolava di volta in volta con le singole biografie e competenze professionali, perché ci scambiavamo impressioni e idee e perché condividevamo di continuo emozioni, spesso forti, scatenate da ciò che vedevamo, da ciò che ascoltavamo e da ciò che i ricordi altrui ci hanno fatto immaginare.
Abbiamo provato a capire come far sì che questo resoconto non esprimesse un unico punto di vista, ma che diventasse un racconto il più possibile corale, avvicinandosi così alla formula sperimentata a inizio estate: in altre parole, volevamo esercitarci ad ascoltare ancora una volta le voci di chi ha preso parte a questa intensa esperienza immersiva nei luoghi dell’internamento manicomiale e nelle memorie di chi ha lavorato per chiudere gli ospedali psichiatrici e per restituire soggettività ai pazienti. Abbiamo dunque chiesto a chi ha partecipato alla scuola di raccontarci in poche parole un ricordo della tre giorni collegnese, le sensazioni e le emozioni provate: eravamo convinti che a posteriori le distanze di tempo e di spazio dei ricordi di ciò che avevamo visto, ascoltato e detto potessero arricchire il racconto con nuovi punti di vista e inedite temporalità. Inaspettatamente la proposta è stata accolta da molte delle persone a cui ci eravamo rivolti e nel giro di qualche settimana sono arrivati ai nostri indirizzi di posta elettronica o via WhatsApp brevi testi scritti, file audio, fotografie e file video, che abbiamo deciso di “montare” seguendo il filo narrativo rappresentato dalla sequenza delle tante attività svolte in gruppo.
Venerdì 24 giugno: l’inizio
La scuola di Collegno si è aperta con un prologo online pochi giorni prima, durante il quale, oltre alla presentazione delle diverse attività didattiche e dell’organizzazione, Vinzia Fiorino, storica dell’Università di Pisa e studiosa di storia della psichiatria, e Gloria Nemec, storica ed esperta di storia orale del direttivo dell’AISO, hanno introdotto importanti informazioni e spunti di riflessione sulla riforma psichiatrica italiana, sulla sua genesi e sul rapporto tra oralità, storia orale e storia manicomiale.
La scuola vera e propria è iniziata alle 14 di venerdì 24 giugno sotto il temporale, davanti all’ingresso juvarriano della Certosa Reale di Collegno, diventata a metà Ottocento il principale (ma non l’unico) manicomio torinese, mentre lungo i porticati e nei chiostri si stavano allestendo gli spazi per gli eventi culturali della Collegno Fòl Fest (nel cui programma era inserita la nostra iniziativa). Il sito della Fòl Fest contiene il programma della manifestazione e rimanda a una ricca documentazione fotografica: https://www.collegnofolfest.it/.
Davide Tabor, ideatore della scuola insieme a Daniela Adorni e a un ricco comitato scientifico composto anche da Patrizia Bonifazio, Antonio Canovi, Gianluigi Mangiapane, Marco Sguayzer e Chiara Stagno, ricostruisce brevemente la genesi tortuosa di questa scuola, che ha potuto avere luogo grazie alla collaborazione di numerose persone che hanno creduto nel progetto.
- Guarda il video di Davide Tabor che racconta la genesi della scuola di storia orale del paesaggio [minuti 05:27]
Giovanni ha deciso di condividere le sue aspettative prima di iniziare e le sensazioni finali:
Per essere a Collegno nel fine settimana e partecipare alla scuola ho fatto i salti mortali. Ho strappato un giorno di ferie e mi sono svegliato molto presto, partendo da Pinerolo. Non sapevo cosa aspettarmi, ma ero curioso sia dei testimoni che avrei incontrato sia dei compagni della scuola. Da ex borsista in filosofia, temevo si trattasse di una scuola con incontri in cui c’è sempre qualcuno che, in qualche modo, “la sa più lunga”. Per fortuna così non è stato. Anzi, in poco tempo si è creato un bel clima di condivisione e apertura.
Non è stato facile sciogliermi: la mia esperienza con la “follia” è così personale, intima, lunga, che faccio fatica al solo pensiero di poterla condividere con qualcuno. Appena arrivato a Collegno, infatti, già passeggiando nel parco, una vecchia malinconia mi ha turbato.
La cosa bella è che non l’ho sentita alla fine, andando via. Ero nel parco e mi sentivo rilassato, sereno: è la sensazione che mi prende non appena condivido qualcosa di importante con qualcuno. Penso di aver condiviso una speranza, un desiderio di cambiamento: merce oggi rarissima. E di questo sono grato.
L’approccio alla scuola si è da subito identificato con il luogo: la sede dell’ex manicomio che si sviluppava, nascosto da un alto muro perimetrale ormai quasi totalmente abbattuto, oltre il maestoso portone d’ingresso dell’attuale via Martiri del XXX Aprile, che un po’ si nasconde ormai nelle pieghe di una città che ha inglobato sempre più in sé stessa la Certosa e un po’ protegge gli immensi spazi destinati, fino a non molto tempo fa, alla contenzione, all’emarginazione, alla violenza. La prima parte del pomeriggio del venerdì è stata così dedicata all’esplorazione dei luoghi, alla conoscenza della storia e delle storie del manicomio e all’osservazione delle diverse stratificazioni storiche, architettoniche e culturali di un’area di oltre 400.000 metri quadrati. Grazie alla disponibilità di due funzionarie dell’ufficio patrimonio dell’Asl To3 (la cui presenza ci ha permesso l’accesso ad alcuni luoghi solitamente chiusi) e di Giancarlo Albertini e Franco Lupano, due storici del CISO Piemonte (Centro italiano di storia sanitaria e ospitaliera), abbiamo cercato di capire come fosse organizzato il complesso prima che diventasse manicomio, come si è successivamente trasformato in ospedale psichiatrico e come è cambiato dagli anni Ottanta a oggi.
Emanuela ricorda questi istanti e l’effetto prodotto dall’attraversare per la prima volta porte e cancelli del vecchio manicomio percorrendo distanze inimmaginabili:
Quando arrivo alla Certosa di Collegno è una giornata strana. L’aria è umida e fredda e minaccia pioggia. Sono in anticipo e decido di entrare. Il portone è imponente davanti a me e mette soggezione, ma lascia intravedere da lontano ampi spazi e aree verdi. Sulla soglia noto una porticina laterale con una scritta sopra: “Ospedale psichiatrico”. È bassa, scura, angusta. È chiusa. Mi sento turbata. Decido di procedere oltre, velocemente, e seguire la via principale per evitare di perdermi. Gli ambienti sono vastissimi, in mezzo a mura alte e sbiadite. Passeggiando, a poco a poco mi distendo, il suono fine della pioggia mi accompagna nel procedere, finché non sono attratta da una piccola strettoia, che mi conduce, aprendosi, su un ampio cortile. È un grande chiostro e qui non sono più sola. Giovani e meno giovani sono indaffarati ad allestire stand e bancarelle, sembra sistemino piccoli oggetti di artigianato, hanno forme strane, e intravedo qualche fotografia. Mi squilla il telefono e il quadro si dissolve: è Davide, che ha letto il mio messaggio e mi invita a raggiungerlo per attendere insieme il gruppo. Si comincia.
La giornata piovosa sembrava voler mettere a repentaglio il fitto programma previsto, ma abbiamo coraggiosamente intrapreso l’esplorazione degli spazi, un po’ intimoriti da un luogo architettonicamente complesso e ricco e un po’ incuriositi da quello che potevamo scoprire percorrendo i porticati, superando i cancelli un tempo chiusi, osservando le strutture edilizie costruite in differenti epoche e scoprendo quanto oggi resta del muro, in gran parte ormai quasi del tutto mimetizzato dalle attuali funzioni di servizio e ricreative degli edifici e delle aree esterne.
Ci siamo dunque addentrati – allo stesso tempo spaesati e incuriositi – nei chiostri dell’ex Certosa, primo nucleo ottocentesco del manicomio, animati in quei giorni dagli artigiani impegnati ad esporre le loro creazioni nell’ambito della Collegno Fòl Fest, abbiamo notato la disposizione e i caratteri architettonici dei tanti padiglioni manicomiali, siamo saliti al primo piano dell’edificio più antico, oggi sede della Direzione generale dell’Azienda Sanitaria Locale To3, dove negli ultimi anni è stata allestita una galleria delle opere d’arte realizzate dagli ex degenti in attività laboratoriali, abbiamo valicato la porta della vecchia farmacia interna, siamo entrati nella vecchia chiesa dell’Annunziata e nelle antiche tombe dei cavalieri, solitamente chiusi al pubblico, e ci siamo successivamente spinti fino alla parte delle vecchie ville manicomiali attualmente destinate a ospitare alcuni uffici comunali e la sala del consiglio comunale, un liceo, aree per il gioco e per lo sport. Abbiamo infine esplorato gli spazi circostanti la struttura principale: l’ala dedicata ai laboratori (oggi un cantiere), il padiglione della lavanderia e stireria, ora Lavanderia a Vapore utilizzata come sede per performance teatrali e artistiche, il parco della Certosa con i padiglioni distaccati del reparto criminali, il reparto geriatrico di Villa Rosa e la nuova sede del corso di laurea in Scienze della formazione primaria dell’Università di Torino. Più volte ci chiediamo quante persone che oggi lavorano nei diversi servizi della Certosa o che la frequentano abitualmente conoscano la triste storia del manicomio di Collegno che noi stiamo imparando a riconoscere in ogni angolo, in ogni edificio, in ogni cancellata.
La passeggiata nel parco si è rivelata uno dei momenti di riflessione sul luogo più interessante: solo percorrendo realmente quello spazio in lungo e in largo ci siamo accorti di ciò che ci circondava, ci siamo resi conto delle distanze che separano gli ex padiglioni manicomiali dalle aree verdi, stravolti dalla stanchezza che ci ha improvvisamente pervasi.
Così, dopo alcune ore intense di lavoro, abbiamo fatto tappa al chiosco posizionato proprio nel cuore del parco, dove, scegliendo un ghiacciolo oppure prendendo un caffè, il gruppo si è riunito vicino al muretto del campo da basket per condividere esperienze passate e per scambiare le prime impressioni del pomeriggio: agli occhi di tutti, l’enorme area dell’ex manicomio di Collegno prendeva sempre più le forme di un paesaggio, che cominciavamo a immaginare nelle sue parti progettate, usate, modificate o abbandonate, nelle sue funzioni di ieri e di oggi, nelle sue trasformazioni, nei significati e nelle sedimentazioni culturali.
La seconda parte del pomeriggio si è svolta in aula: sono state preparate le interviste dei giorni seguenti e si sono approfonditi nodi cruciali della storia di Collegno e del manicomio, grazie agli interventi dello storico Marco Sguayzer – che ci ha parlato di Collegno tra Otto e Novecento e del rapporto tra manicomio e città – e di Davide Tabor – che si è invece soffermato sulle principali fasi della chiusura dell’ospedale psichiatrico. Abbiamo potuto anche discutere di storia orale e di forme della testimonianza, confrontandoci con Antonio Canovi, presidente dell’AISO, e Chiara Stagno.
Sabato 25 giugno: l’incontro con i testimoni
Ogni giornata è stata scandita da numerosi incontri e confronti che ci hanno fatto spaziare dai racconti di ex operatori dell’ospedale psichiatrico a quelli di arte-terapeuti, psicologi, educatori, fino agli amministratori comunali.
La mattinata di sabato 25 giugno si è aperta con una breve introduzione in aula sulla storia del superamento degli ospedali psichiatrici e con la presentazione di tre testimoni che hanno raccontato la loro esperienza: Rosa, Fabrizio e Sergio, all’epoca operatori delle cooperative che iniziarono a lavorare nel manicomio di Collegno. Il gruppo si è così diviso in tre, per intervistare i tre testimoni. Dopo un momento di confronto per raccogliere le idee e le domande e per definire i ruoli e dopo un veloce, ma attento controllo ai registratori, ci siamo messi subito alla prova per raccogliere le storie di chi avevamo appena conosciuto, scoprendo quanto percorrere insieme a loro in lungo e in largo i luoghi in cui avevano lavorato per molti anni ci aiutasse a popolare i vari ambienti dell’immagine delle tante persone di cui ci parlavano e ci portasse a fare diversi incontri non programmati. È Giulia a ricordare il colloquio col fotografo Renzo, autore fin dagli anni Settanta di fondamentali scatti realizzati dentro il manicomio di Collegno e più volte esposti in mostre personali o collettive.
Con Marta, Nora, Flora e Chiara eravamo completamente immerse nelle parole di Sergio, con cui avevamo da subito instaurato un’affinità forse per la calma che trasmetteva attraverso la voce e l’umiltà nel porsi nei nostri confronti. Eravamo ormai alla fine del tempo che ci era stato assegnato e ci stavamo avviando verso l’ingresso principale. I nostri compagni e formatori ci stavano aspettando nell’aula in cui ogni giorno ci incontravamo per impostare il lavoro della giornata, per riflettere sulle interviste appena raccolte e per incontrare i testimoni. Poca era la voglia di tornare: non volevamo che il racconto di Sergio terminasse. Improvvisamente, abbiamo sentito una voce allegra che lo chiamava. Ci siamo girate e davanti a noi c’era un signore con la macchina fotografica intento a documentare l’allestimento di mostre e banchetti per il Festival. Sergio ci ha spiegato che si trattava di Renzo e che anche lui aveva lavorato qui alla Certosa. Non lo sappiamo ancora, ma io e Marta lo incontreremo ancora e scatterà la foto che chiuderà un altro racconto e la nostra esperienza: quello di Giorgio.
Inevitabilmente, siamo colpiti da storie che in qualche misura hanno a che fare anche con la nostra vita, per esperienze affini o per particolari che attirano la nostra attenzione. Nora ci parla dell’intervista a Sergio – un artista della ceramica che, insieme a un piccolo gruppo di operatori, aprì dentro il manicomio il Centro sociale Basaglia, uno spazio di esperienze creative funzionali a conoscere i degenti, a far loro recuperare margini di autonomia grazie all’attività manuale e a capire chi fosse in grado di iniziare, prima degli altri, una nuova vita oltre le mura dell’istituzione totale – e dell’incontro pomeridiano con Raffaella:
Nelle loro interviste, Sergio e Raffaella ci hanno restituito il racconto di due vite vissute con entusiasmo, con gioia e grande impegno nel sociale. Ambedue fanno parte di una generazione che voleva trasformare la realtà e loro, con la propria esperienza personale, sembrano esserci riusciti. Raffaela arriva a Collegno attraverso le assemblee studentesche e collabora alla creazione dei laboratori artistici. Parlando di quel periodo, lei ripete spesso che è stato “un momento di rottura” e di “grandi trasformazioni”. Sergio invece comincia a partecipare ai laboratori nel 1983, coinvolto dalla Cooperativa Il Margine, dopo una parziale delusione della sua attività politica in fabbrica. La sensazione che ho avuto è che il loro impegno per offrire dignità ai malati ricoverati nell’ex manicomio sia stato totalizzante e abbia coinvolto non solo la loro attività professionale, ma anche la sfera degli hobby, delle passioni, della politica e degli affetti. La loro esperienza, inoltre, a differenza di molte altre coeve, è passata dalla prassi alla teoria. Nei loro racconti abbondano, infatti, gli esempi concreti; storie di “malati” con cui hanno interagito e creato un rapporto di affetto.
Della testimonianza di Rosa ci scrive invece Deborah:
Rosa è stata socia fondatrice della cooperativa Il Margine e ha assistito i e le pazienti di Collegno dalla fine degli anni settanta. È una donna minuta, non abituata a parlare di sé. Non è truccata, indossa pantaloni di cotone leggero e una camicetta bianca e sono i suoi vestiti, non si è preparata a questo incontro per dare la sua migliore immagine, solo quella vera. Sarà per questo che ci siamo abbracciate alla fine. Parla degli inizi, di quanto la sua scelta volontaristica non fosse ideologica: “semplicemente era l’aria di quegli anni, sapevamo che dovevamo fare qualcosa e l’abbiamo fatto”. Parla di tutto il tatto che dovettero impiegare per superare la diffidenza del personale, parla delle pazienti. Racconta alcuni aneddoti divertenti, altri commoventi. Quando le chiedo se le donne internate subissero abusi abbassa lo sguardo sulle mani. “Non so, la notte noi non c’eravamo. Ma c’era una ragazza, la ricordo ancora bene, che quando doveva chiedere qualcosa agli infermieri si metteva in ginocchio”.
Anche Costanza ricorda l’esperienza delle interviste, in particolare quella a Rosa:
- Ascolta Costanza che ricorda l’intervista a Rosa [minuti 02:20]
Proprio Rosa ci ha inviato un breve video in cui ha condiviso il suo punto di vista sull’intervistata e sull’esperienza della scuola e le sue riflessioni a posteriori, che ci hanno aiutato anche a ragionare sul ruolo dei ricordi e delle eredità del movimento anti-istituzionale.
- Guarda il video di Rosa che racconta la sua esperienza durante la scuola [minuti 03:06]
Come Rosa, Fabrizio, che – al pari di Sergio – nell’intervista ci ha a lungo parlato del rapporto speciale che lo legava alle persone di cui si prendeva cura come operatore d’appoggio (qualifica che oggi corrisponde a quella di educatore), in una breve testimonianza audio-registrata ha voluto condividere con noi il dubbio di non aver dato il giusto peso al tanto lavoro svolto collettivamente e di non aver sufficientemente dato riconoscimento al coraggio e all’impegno di chi era stato paziente, poi degente ed ex degente negli importanti percorsi di cambiamento intrapresi, vissuti a volte con paura.
- Ascolta Fabrizio che racconta le sue impressioni dopo l’intervista [minuti 02:20]
Alle interviste, svolte negli spazi dell’ex manicomio, sono state dedicate circa due ore e prima del pranzo al circolo Punto sociale, a due passi dall’ex manicomio nel vecchio centro storico di Collegno, ci siamo ritrovati in aula per un confronto sugli incontri della mattinata.
Il pomeriggio ha avuto la stessa modalità didattica: Gianluigi Mangiapane, antropologo dell’Università di Torino ed esperto di arte irregolare e art brut, ha fatto una breve introduzione ai temi e ha presentato i tre ospiti, che sono poi stati intervistati a piccoli gruppi. Raffaella è psicologa e arte terapeuta e iniziò il suo lavoro proprio a Collegno; Alberto è psicologo della Asl di Torino, si occupa da anni di arte terapia e ci ha parlato a lungo della crisi della psichiatria; Carla è architetta, partecipò al movimento studentesco – tra il 1968 e il 1969 gli studenti della Facoltà di Architettura furono tra i principali promotori di un convegno contro i manicomi e di una mostra di denuncia delle condizioni di vita dei ricoverati Manicomi come lager, in collaborazione con l’Associazione per la lotta contro le malattie mentali – e ci ha raccontato la sua esperienza di familiare di una persona con problemi psichici.
Chiuse le interviste pomeridiane, siamo corsi nel chiostro maggiore dove avevamo l’appuntamento con Mara Giacomelli, responsabile dei servizi psichiatrici della cooperativa il Margine, che ci ha presentato brevemente la storia della cooperativa – nata proprio in relazione al processo di deistituzionalizzazione e responsabile per molti anni del Centro sociale Basaglia – e il lavoro recentemente avviato e tuttora in corso sull’archivio dello psichiatra Enrico Pascal, il primo a Collegno a trasformare il reparto che dirigeva in comunità e poi fondatore dei servizi psichiatrici territoriali a Settimo Torinese.
L’ultima parte del pomeriggio è stata dedicata a un lungo momento di confronto sugli incontri della giornata, su ciò che avevamo ascoltato, su come avevamo domandato e discusso. All’ora di cena ci siamo salutati, stanchi per l’intensa giornata, e a piccoli gruppi siamo tornati a casa o nella stanza prenotata per il fine settimana.
Domenica 26 giugno: finalmente dentro un padiglione
Domenica mattina abbiamo iniziato presto perché il programma era molto denso. Qualcuno ha tardato, ancora stravolto dalle ore trascorse insieme il giorno prima.
L’ultima giornata della scuola si è aperta in aula con un intervento introduttivo sulla memoria dei luoghi e sui processi di rifunzionalizzazione degli spazi di Patrizia Bonifazio, storica dell’architettura ed esperta di patrimoni culturali. Subito dopo abbiamo incontrato quattro diversi testimoni e ci siamo preparati alle ultime interviste. Abbiamo così conosciuto Barbara, Giorgio, Maria Grazia e Maria Luisa.
Barbara, psicologa e terapeuta, e Giorgio, infermiere per molti anni nel manicomio di Collegno e successivamente nei servizi psichiatrici territoriali, sono attualmente la presidente e il vicepresidente dell’Associazione lotta contro le malattie mentali, nata alla fine degli anni Sessanta proprio per tutelare i degenti degli ospedali psichiatrici e da sempre impegnata nella lotta contro ogni forma di istituzionalizzazione, vecchia e nuova. Barbara ci ha parlato della storia dell’associazione ieri e oggi e del suo ruolo nella società, dimostrando quanto sia convinta della funzione culturale delle eredità del processo di deistituzionalizzazione. Giorgio ha raccontato la prima volta, da bambino, in cui ha scavalcato il muro dell’ospedale per recuperare la palla con cui stava giocando con i suoi amici, e poi i lunghi anni trascorsi tra la sofferenza delle persone rinchiuse e il periodo della liberazione del e dal manicomio.
Maria Grazia e Maria Luisa sono attualmente assessore della giunta di Collegno, ma hanno alle spalle una lunga esperienza da collegnesi. Maria Grazia è stata maestra nelle scuole della città e ha condiviso con noi i ricordi delle persone internate che iniziavano a uscire e a valicare il muro costrittivo, dei rapporti tra scuola e manicomio e delle lotte e dell’impegno per una società e per una scuola inclusive.
Maria Luisa è cittadina collegnese e ci ha raccontato di quando viveva a due passi dal manicomio, della sua partecipazione ai gruppi di teatro formatisi negli anni Ottanta dentro i reparti soprattutto grazie al lavoro della compagnia Stalker Teatro. Ci ha anche parlato di come è nato il progetto della Collegno Fòl Fest, visto che è stata co-ideatrice della manifestazione.
- Guarda il video di Maria Luisa che racconta i suoi ricordi [minuti 01.19]
Dopo circa due ore interamente dedicate a conoscere questi nuovi amici e a capire e a decifrare le loro memorie, tutti insieme abbiamo raggiunto di corsa – naturalmente in ritardo sul programma, perché gli incontri sono spesso scoperte a cui vorremmo dare molto più tempo di quanto a disposizione – la palazzina dell’ex padiglione 21, che per molti decenni ha svolto la funzione di sezione carceraria. Da alcuni anni l’edificio abbandonato è occupato (Mezcal Squat): qui abbiamo incontrato Eliana, una rappresentante del gruppo di occupanti, e grazie a lei siamo entrati in un vecchio padiglione manicomiale, la cui lunga storia di occupazione è un esempio non istituzionale di riuso. È Chiara a ricordare questa esperienza:
All’entrata ci accoglie Eliana con sua figlia nel marsupio, ci spiega la storia del Padiglione 21 e si nota subito che non è più il luogo di segregazione di una volta: c’è un orto per l’autoproduzione, poster alle pareti dell’ingresso, e molto altro ma, soprattutto, si respira accoglienza.
Entriamo in quello che adesso è uno Squat, il Mezcal, e Eliana ci spiega che prima di arrivare a vedere i pavimenti ci sono voluti mesi perché era tutto pieno di rifiuti e macerie, anni per ristrutturare sia il primo che il secondo piano. Adesso il Mezcal ha un’enorme cucina e una sala con tavoli e sedie, c’è una ciclofficina, un magazzino dove si possono trovare elettrodomestici e qualsiasi altra cosa si possa cercare, c’è un’ala adibita ad abitazione, ci sono giochi per bambini, c’è disordine ovunque… quel disordine che sa di vissuto, di allegria, di passaggi di decine e centinaia di persone, di idee, di incontri. Tra le altre cose, al piano superiore, ci viene mostrata la sala dove i pazienti venivano sottoposti a idroterapia, hanno lasciato tutto allo stato originale e c’è un grande contrasto con il clima che si respirava al primo piano. Si vede che chi abita questo spazio ha una grande conoscenza e un enorme rispetto per il luogo che adesso occupa e per le persone che prima di loro hanno trovato sofferenza tra queste mura.
La visita a Mezcal per me è stata quella più ricca di emozioni contrastanti: da una parte vedere gli ambienti dove i pazienti erano reclusi è stato fortemente disturbante, dall’altra sapere che se ne prende cura un gruppo di persone che sfrutta le potenzialità di quel luogo per il meglio e nel rispetto del suo passato mi fa ben sperare per il futuro.
Durante le ore trascorse insieme abbiamo potuto ragionare collettivamente di molti temi chiave come il tempo, riscontrando quanto le varie temporalità dei racconti personali dilatino e riconfigurino il significato degli eventi storici, per soffermarci su alcune immagini o sul racconto di odori e profumi; abbiamo esplorato lo spazio, quello di cui abbiamo avuto esperienza diretta e quello dei ricordi; abbiamo avuto modo di riflettere sul rapporto dentro/fuori, su quanto e come raccontano i testimoni e su quanto di queste parole sia un’elaborazione a posteriori rispetto all’esperienza, frutto delle singole traiettorie biografiche. Molti dei partecipanti hanno scoperto che cosa fosse un manicomio, quanto fosse facile entrarvi e in che cosa consistesse il processo di spoliazione della soggettività e della dignità umana.
Abbiamo potuto fare tutto questo grazie ai punti di vista davvero differenti con cui ci siamo misurati nei tre giorni della scuola di storia orale collegnese: quelli delle persone che abbiamo conosciuto e intervistato e quelli dei partecipanti, con svariate provenienze professionali e di studio, sensibilità, passioni.
Valentina ci ha parlato della conclusione della scuola:
Siamo stanchi: abbiamo domandato e abbiamo ascoltato, abbiamo impresso parole e immagini su registratori e macchine fotografiche. Qualcuno di noi per la prima volta, muovendosi con timore e tra mille dubbi, altri con la sicurezza di chi sa già. Ma adesso, seduti attorno a una tavola apparecchiata e sostenuti da un po’ di vino, il protagonista non è più il passato, non sono i ricordi di chi ha camminato tra quelle mura. Ora è il momento del presente, di ciascuno di noi: incuriositi, ci siamo studiati per ore, da sconosciuti. E finalmente possiamo domandare, ascoltare, raccontare di noi. Si sentono accenti lontani e carezzevoli, si intuiscono età differenti, percorsi tortuosi, strade appena intraprese ma già definite, mete non sempre delineate. Ma in tutti c’è qualcosa che ritorna: una prospettiva. Senza saperlo, ripetiamo con altre dinamiche, ritmi e intenti, le interviste del mattino. Ognuno di noi diventa il protagonista di una storia orale, la propria.
- Guarda il video realizzato da Marta dello spettacolo del gruppo Le masche nel chiostro grande [minuti 02.25]
Un grazie speciale ai nostri testimoni e alla loro disponibilità nel raccontare e a raccontarsi: Maria Luisa, Rosa, Raffaella, Barbara, Sergio, Fabrizio, Maria Grazia, Mara, Alberto, Giancarlo, Franco, Giorgio, Carla, Eliana e il Mezcal Squat. Un ringraziamento particolare a Cristina Cappelli, con cui condividiamo idee e riflessioni e che ci ha aiutati a conoscere e intervistare molte delle persone coinvolte, e ad Antonio Canovi, il cui contributo è stato di grandissima importanza per riuscire a organizzare la scuola e per definirne la struttura didattica.